DUE VECCHIETTI LABORIOSI

Giuseppe Mascaro, ultraottantenne, e sua moglie Maria Mauro, qualche anno di meno del marito, entrambi di Savelli, sono due vecchietti laboriosi e generosi. In realtà qualcuno dice che Giuseppe è un ingenuo perché fa in modo di dare il raccolto anche a chi non può pagare subito e Maria è troppo generosa perché va a dar da bere e mangiare alle donne mentre lavorano e ogni volta, dopo aver preparato le porzioni per ognuna, ha l’accortezza di nascondere gli scarti della frutta sotto terra o di andarli a buttare nel fiume per non farsene accorgere dai proprietari dei terreni.

Ma chi se ne frega di ciò che pensano gli altri? Loro sono fatti così e la porta di casa è sempre aperta per accogliere chiunque.

Giuseppe e Maria hanno tre figli, due maschi ed una femmina. Il maggiore dei tre è andato Allamerica, in Argentina, Michelina, che ha messo su famiglia ed abita a Cerenzia, un paese vicino, e Francesco, che con sua moglie Dezia Capalbo e la loro bambina Maria “a Capalda”  è l’unico ad essere rimasto in paese per aiutare i genitori, i quali vivono ormai da dodici anni in una rustica casetta nella solitaria contrada Grillea, agro di Caccuri, lavorando al servizio dei proprietari fratelli Brisinda.

Il 6 maggio 1933 è il penultimo giorno di lavoro per Giuseppe e Maria, poi il contratto scadrà e loro, che sono troppo vecchi per continuare a dare di zappa, torneranno nella casetta in paese. Alla fine della giornata, stanchi, si mettono a tavola per mangiare qualcosa. Anche gli altri contadini che abitano nelle casette rustiche della Grillea sono tornati e mangiano qualcosa, come il ventinovenne Giuseppe Fazio e l’undicenne sordomuto Antonio De Dominicis, che abitano in una casetta contigua a quella dei due vecchi ed i figli dei proprietari del fondo, Gennaro e Teresina Brisinda, che abitano di fronte. Fazio ed il ragazzino sono soliti andare, dopo cena, a far visita a Giuseppe e Maria, ma la sera del 6 maggio Giuseppe Fazio, agli ampi gesti del ragazzino che lo invita ad andare dai vecchi, risponde di avere mal di testa; il ragazzino gli fa segno di essere d’accordo e si tocca l’addome facendo una smorfia per fargli capire di avere mal di pancia. Fazio, a sua volta, gli fa segno di andare a letto e così fanno. Verso le 21,30 Teresina Brisinda guarda fuori dal finestrino della sua casetta perché le sembra di sentire delle voci venire dalla casa dei due vecchi, dove c’è ancora il lume acceso. Poi va a letto anche lei.

È la mattina del 7 maggio 1933, Antonio De Dominicis si alza quando Giuseppe Fazio è già uscito di casa e va dai due vecchietti. La porta è socchiusa, la apre e sbarra gli occhi. Se fosse in grado di urlare lo farebbe, ma può solo correre verso la casa di Teresina,  battere violentemente alla porta e poi correre a spiare insieme dalla porta aperta.

Dopo un po’ arriva Fazio, il quale viene avvisato da Teresina che il vecchio Giuseppe sembra morto, mezzo dentro e mezzo fuori dal letto, e che Maria non c’è. Fazio sbircia all’interno della casupola ed urla:

– Sono morti tutti e due!

Antonio, a gesti, gli fa notare di nuovo che Maria non c’è, ma poi, entrando dentro ed osservando attentamente la scorge rannicchiata in un angolo, davvero morta, orrendamente morta come il marito, e scappa sconvolto.

Intanto sono già accorsi alcuni contadini e si è già provveduto ad avvisare i Carabinieri.

– Non è che si sono uccisi reciprocamente? – sussurra Fazio ad un vicino presente sul posto.

– Ma che sciocchezza dici? Stai zitto ché ti arrestano – gli risponde quello. Allora Fazio si avvicina ad un altro dei presenti e gli chiede:

– Se dico che si sono uccisi reciprocamente mi possono arrestare?

– È meglio se stai zitto…

La mattina del 7 maggio 1933 è l’ultima volta che Francesco parte da Savelli per raggiungere la Grillea e caricare i muli con i prodotti della terra, visto che per i genitori questo è l’ultimo giorno di lavoro al servizio dei fratelli Brisinda. È allegro, gli occhi gli vanno verso il fiume, dove qualcuno si sta lavando. Poco dopo vede sulla strada un paesano camminare nella direzione opposta alla sua. L’uomo appena lo riconosce comincia ad urlare e a correre verso di lui.

– Ci… Ciccio! Una disgrazia… corri, corri… – dice agitando le mani scompostamente in direzione della Grillea e poi battendosele violentemente sul viso.

– Ch’è successo? – gli chiede con un filo di voce, temendo che qualcosa di brutto sia capitata a suo padre, vista l’età, ma l’altro non riesce a dirgli altro, facendogli segno di correre mentre continua a battersi il viso con le mani.

Quando Francesco arriva sul posto, gli abitanti di quelle tre o quattro costruzioni rustiche, sistemate quasi in cerchio e recintate come un hortus conclusus sono tutti fuori e lo accolgono cominciando ad urlare. Francesco è frastornato, ha capito che è successa qualcosa di grave, ma non riesce ad immaginare cosa. Poi lo fanno entrare in casa dei genitori e adesso ad urlare di dolore e terrore è proprio lui quando vede tutta la stanza coperta da schizzi di sangue ed il padre nudo, con la metà sinistra del corpo ricoperta da un lembo della coltre da letto, con la gamba destra lievemente flessa accanto ad un trespolino e la sinistra distesa e sollevata, col piede poggiato sopra un panchetto vicino al pagliericcio. Poi vede le due ferite profonde, evidentemente inferte con una scure, una nella regione zigomatica sinistra, l’altra nella regione antero-laterale sinistra del collo, quasi reciso dal tronco. Ma l’orrore non è finito perché ai piedi del letto, dall’altro lato, c’è sua madre, completamente vestita, con le calze ai piedi, raggomitolata su sé stessa con una ferita nella regione posteriore del collo ed altre ferite nella regione frontale e parietale destra e sinistra.

Nel frattempo arrivano i Carabinieri i quali notano subito che la casa è in perfetto ordine; dopo aver riscontrato la posizione in cui sono stati trovati i cadaveri, le ferite sulle vittime e la circostanza che, stando alle prime dichiarazioni dei presenti, non sono state udite grida di aiuto da parte dei due vecchi, dovrebbe venire spontaneo chiedersi se ad agire sia stata una sola persona oppure almeno un’altra. La sensazione dovrebbe essere che abbia agito più di una persona perché parrebbe chiaro che ad essere stato colpito per primo è stato Giuseppe che era già a letto. Perché questo dovrebbe essere chiaro? Perché altrimenti non si spiegherebbe la posizione di Maria, rannicchiata e con le braccia che sembrano voler proteggere la testa dai colpi del suo assassino, che certamente conosceva perché altrimenti avrebbe urlato. E che l’assassino o gli assassini dovessero essere persone note ai due vecchi lo dimostrano due circostanze: la prima è che sarebbe stato molto difficile ad estranei entrare indisturbati nella casetta senza che i cani avessero abbaiato, come riferiscono i vicini; la seconda è il perfetto ordine che regna in casa e che gli stessi Carabinieri hanno notato appena arrivati. Vedremo nel prosieguo delle indagini.

Un altro aspetto che nei primi momenti non appare chiaro è il movente di tanto orrore, ma dopo una perquisizione effettuata alla presenza di Francesco, i Carabinieri accertano che dalla casa manca una borsa di tela nella quale Giuseppe Mascaro conservava i risparmi, assommanti a lire millesettecento circa e di tre cambiali della valuta complessiva di lire millecentocinquanta, a firma di Spadafora Carmine. Adesso si che c’è il movente, un movente da pena di morte, secondo il nuovo Codice Penale: duplice omicidio a scopo di furto.

Capito che le vittime conoscevano l’assassino o gli assassini e accertato che la strage è stata compiuta a scopo di furto, adesso la domanda è: chi può essere stato? I primi sospetti dei Carabinieri cadono sui familiari di Giuseppe e Maria e così mettono in stato di fermo sia i figli Francesco e Michelina, sia un nipote, ma è subito evidente che i tre sono completamente estranei ai fatti e vengono subito rilasciati. Allora non può che essere stato un vicino ed i più vicini sono Giuseppe Fazio, il ragazzino Antonio De Dominicis, Gennaro e Teresina Brisenda.

Il Maresciallo fa sedere il piccolo Antonio, ancora in evidente stato di shock per ciò che ha visto, e con grande difficoltà gli chiede, a gesti, di raccontargli ciò che ha fatto la sera prima con Giuseppe Fazio. Antonio gli fa capire di essere tornati dal lavoro, di avere cenato, di avere chiesto a Fazio di andare a trovare i vecchi, del rifiuto a causa del mal di testa e del suo mal di pancia e, quindi, di essere andati a letto.

– E stamattina? – gli fa capire il Maresciallo.

Antonio gli spiega a gesti che la mattina, di buon tempo, Fazio lo ha svegliato ed è uscito di casa conducendo una vacca al fiume per abbeverarla.

Poi è il turno di Giuseppe Fazio.

– Ne sai qualcosa di questa brutta storia? – gli chiede il Maresciallo,

– No, ma Giuseppe era un tipo particolare, pensate che pochi giorni fa il nipote, Francesco Rizzo, lo ha derubato di cinquantasette lire e non l’ha denunciato… lo ha raccontato il povero Giuseppe stesso, così come diceva a chiunque quanti soldi avesse e dove li tenesse.

– Bene, passiamo ad altro. Ieri sera avevi mal di testa e non sei andato a trovare i Mascaro con il ragazzino come eravate soliti fare e stamattina sei uscito di casa senza aspettarlo…

– Non è vero e stamattina sono uscito di casa seguito dal ragazzo.

– Il ragazzino dice il contrario. Hai sentito i cani abbaiare?

– No.

Strano, i due racconti non coincidono. Bisogna approfondire, anche perché il Maresciallo nota qualcosa di strano nell’abbigliamento dell’uomo: macchie di colore rossiccio sulla manica destra della camicia che indossa, e precisamente nel punto di attacco del polsino. Che sia sangue?

Dalla perquisizione fatta nella casetta e nel magazzino della calce, la cui chiave è detenuta da Fazio, vengono rinvenute due scuri, una delle quali, nascosta sotto un basto, presenta macchie di colore rossiccio con attaccati dei peli, le stesse macchie riscontrate sulla camicia di Fazio il quale, a questo punto, viene arrestato con l’accusa di duplice omicidio a scopo di furto, nonostante continui strenuamente a dichiararsi innocente. Viene ordinata una perizia ed il Professor Luca Coniglio avvisa essere le macchie di sangue umano e i peli probabilmente di uomo.

– Le due scuri che abbiamo trovato sono tue?

– No, solo una.

– E che ci faceva l’altra nei locali di cui hai le chiavi?

– Ce l’avrà lasciata qualcuno…

– Come spieghi le macchie di sangue sui tuoi vestiti?

– Mi sono punto durante la potatura degli aranci.

– E le macchie di sangue e i peli sulla scure?

– Non è mia la scure.

C’è un fatto che potrebbe essere decisivo per risolvere definitivamente la questione: la testimonianza di Francesco Mascaro il quale asserisce di aver visto da lontano Fazio mentre si lavava nel fiume, ma non viene creduto, d’altra parte è il figlio delle vittime e potrebbe avere dei pregiudizi nei confronti dell’imputato.

Ma quanto raccolto finora può bastare per chiudere l’istruttoria ed ottenere il rinvio a giudizio di Giuseppe Fazio.

Il dibattimento si tiene verso la fine di gennaio 1935 presso la Corte d’Assise di Catanzaro e le cose sembrano mettersi bene per l’imputato perché sia il Pubblico Ministero che la Corte, ascoltati vari testimoni, ritengono che le risultanze giudiziali hanno diradato gli indizi sulla colpevolezza dell’imputato. Perché? Leggiamo tutto il ragionamento della Corte per ricostruire i fatti.

Nella sera del 6 maggio, Fazio e De Dominicis, dopo di essere rincasati verso le ore 18,00, prepararono la cena e, quindi, si coricarono senza recarsi, come di consueto, a visitare i coniugi Mascaro. Nella mattina successiva, di buon tempo, Fazio svegliò De Dominicis e uscì di casa, conducendo al fiume una vacca per abbeverarla. Ora, è vero che mentre il De Dominicis ha affermato che, avendo esso Fazio accusato di avere dolore alla testa e di avere egli dolore nella pancia, propose di astenersi dalla consueta visita ai Mascaro e di essere il Fazio, nella mattina del sette uscito solo dalla casa, l’imputato ha negato tali circostanze, dichiarato di essere uscito di casa seguito dal ragazzo, ma a prescindere che nulla autorizza a ritenere vera in ogni particolare la deposizione del De Dominicis, ragazzo appena undicenne (e sordomuto. Nda), turbato dalla presenza del tristo delitto, le rilevate contradizioni fra costui e l’imputato si appalesano di assai scarso valore probatorio poiché è arbitraria ed azzardata l’ipotesi che l’imputato, preso dalla fretta di consumare il delitto, abbia voluto mandare presto a letto il ragazzo, traendo pretesto da un malore proprio e di lui e la circostanza taciuta nel timore di compromettersi, palesandola, se considerasi che egli poteva agire, a tutto agio, col favore delle tenebre della notte e della solitudine dei luoghi, aprendo la porta della casa delle vittime designate mediante la chiave del magazzino della calce, esistente nel suo casolare e che, consapevole delle abitudini dei padroni, non si sarebbe messo a compiere la macabra ed orrenda strage prima che costoro si coricassero, chiudessero le imposte e spegnessero la luce, essendo certo che, per la deposizione di Brisinda Teresina che costei e il fratello erano soliti coricarsi verso le ore 21 e che nella notte del sei maggio, prima di chiudere le imposte notò che la casa di Mascaro era illuminata e sentì “parole di persone ivi intente a discorrere”.

Del pari è arbitraria e azzardata l’ipotesi che l’imputato neghi di essere uscito sola dalla casa nella mattina del sette per essersi recato nel fiume a lavare la scure e a dismettere gl’indumenti indossati nel momento del delitto, se si riflette che, nell’intento di ciò fare non avrebbe svegliato il De Dominicis prima di uscire; che né la Brisinda, né il De Dominicis lo videro ritornare con gl’indumenti o le scarpe bagnate o con la scure in mano e che le laboriose e minuziose indagini istruttorie non hanno potuto accertare, e neppure indurre il sospetto, che costui possedesse altre scarpe, altro abito oltre quello indossato e altro pantalone oltre quello sequestrato.

È vero che Fazio, recatosi ad aprire la porta della casetta di Mascaro per accertare quanto fosse accaduto dopo di essere stato informato da Teresina Brisinda la quale, a sua volta, aveva avuta notizia dal De Dominicis che il Mascaro era sul pavimento privo di sensi, si ritrasse gridando che tutti i due coniugi giacevano uccisi, ma è anche vero che, stando fermo sulla porta d’ingresso della casa e quella aprendo, ben si potevano scorgere tutti e due i cadaveri. Precise sono in proposito le testimonianze di Mancuso Giuseppe, Suppo Giuseppe e Maddalosso Egidio, carabinieri, Benincasa Luigi ecc.

Non è escluso che i cani a guardia delle abitazioni degli uccisi e del Fazio nella notte del delitto abbiano abbaiato. I Carabinieri si sono limitati a dichiarare di “non constare se abbiano abbaiato”, mentre Marasco Giovanni ha deposto “di avere sentito nella notte latrare i cani della Grillea”.

È vero che Fazio a Benincasa Luigi prospettò l’ipotesi che i vecchi coniugi si fossero, reciprocamente, uccisi e manifestò a Mancuso Giuseppe il timore di essere tratto in arresto dai Carabinieri. Ma sta in fatto che l’ipotesi dell’omicidio reciproco venne, per primo, formulata da Brisinda Gennaro e Fazio, dopo di averla comunicata a Benincasa e dopo di avere avuto risposta che era una scempiaggine e meglio avrebbe fatto a tacerla ai Carabinieri, manifestò a Mancuso il dubbio se, rivelandola, poteva dai Carabinieri essere arrestato.

Fazio, riferendo ai Carabinieri che Mascaro, pochi giorni prima, si era lamentato di avere subito un furto di lire cinquantasette ad opera del nipote, riferì un fatto assolutamente vero, ma non manifestò sospetti a carico di costui in riguardo al delitto, siccome non ne manifestò in riguardo ad altri che avevano, non molto tempo prima frequentata la casa degli uccisi.

Non può muoversi addebito all’imputato di avere affermato di possedere una sola scure, mentre nella sua abitazione se ne trovarono due e che una scure fu trovata sotto un basto, poiché in realtà la seconda scure si apparteneva a Levato Giuseppe e, per puro caso, sopra una delle scuri fu deposto un basto da Tallarico Salvatore.

Ha accertato l’autopsia che alcune ferite sul corpo di Giuseppe Mascaro erano lunghe centimetri otto ed altra ferita lunga centimetri cinque e che la Mauro presentava ferita ovulare col diametro massimo di centimetri sette, altra ferita lunga centimetri quattro ed altra ferita lunga centimetri sette e mezzo e profonda circa centimetri sette con frattura completa della colonna vertebrale. Ciò posto, è lecito dubitare che tutte le ferite, le quali dimostrano estrema violenza nell’uso dell’arma e hanno diversa lunghezza e diversa forma, siano state prodotte da unica arma, e precisamente dalla scure del Fazio, poiché la stessa ha la lama leggermente arcuata, la corda sottesa all’arco di centimetri nove e mezzo e la lunghezza della lama, dall’inserzione dell’occhio al taglio di centimetri otto e mezzo e nessuna ferita corrisponde in lunghezza a quella della lama, mentre almeno le ferite maggiormente penetrate in profondità sarebbero dovute essere corrispondenti ad esse, invece sono state riscontrate assai meno lunghe.

Infine, l’ultimo e più grave indizio dato dalle macchie di sangue umano sulla scure e sulla manica destra della camicia perde di consistenza e d’importanza sul riflesso che non è improbabile od inverosimile – siccome l’imputato ha affermato nel suo primo interrogatorio – che dette macchie siano state conseguenza di punture da lui riportate durante la potatura degli aranci, la quale in quei giorni eseguiva, se si pone mente che le macchie sulla manica erano puntiformi e quelle sulla scure più piccole d’una lenticchia; che nessuna traccia di sangue venne riscontrata sul fazzoletto, sulle scarpe repertate e sul corpo del Fazio, nonostante il modo onde il delitto fu commesso e il sangue sgorgato copioso dalle ferite delle infelici vittime e che le indagini eseguite dal perito hanno dato risultato assai incerto circa la presenza di sangue umano sulla scure e sulla manica della camicia. Il colore castano dei capelli repertati lascia, poi, assai dubbiosi che i medesimi si appartenessero al Mascaro, vecchio di oltre ottant’anni.

Poi l’affondo finale: ma, di contro alla fragilità degli indizi, sta a favore dell’imputato tutto il passato di una vita onesta, onorata e laboriosa. Giovane ventottenne, marito e padre di tre bambine, possidente di qualche fondicciuolo, fattorino della Società Sila Savelli e detentore per conto della stessa di forti somme, persona di fiducia del dottor Francesco Brisinda e di carattere timido siccome l’ha definito il Conciliatore del suo paese, non ha mai avuto conti con la Giustizia penale, né ha mai fatto parlare di sé o dubitare della sua onestà, al punto che non una voce di sospetto si è contro di lui levata nel paese o da parte dei figli degli uccisi (in realtà Francesco disse di averlo visto mentre si lavava nel fiume la mattina successiva alla strage).

E se è assurdo pensare che, d’un tratto, per la brama del possesso di appena milleottocento lire costui facesse gettito del passato, dimenticasse i doveri di marito e di padre, mettesse a rischio la propria vita, si lordasse del sangue di due vecchi ai quali, fino a poche ore prima aveva manifestato riverenza quasi filiale; se gli indizi, che in un primo tempo fecero dubitare della sua responsabilità o sono resistiti dalla critica serena ed obiettiva o sono distrutti da una precisa prova contraria; se nell’”hortus conclusus” diverse persone estranee erano facili ad accedere ed ivi, circa un anno prima, il Mascaro era stato derubato di due capretti senza che i cani abbaiassero e senza che i ladri fossero disturbati; se, infine, era notoria la possidenza del Mascaro per l’ostentazione che del denaro faceva, fino al punto d’essere dalla moglie tacciato d’imprudenza, è necessità morale e giuridica che all’assoluzione si addivenga con la formula precisa ed in equivoca di non avere commessi i fatti all’imputato attribuiti.

È il 29 gennaio 1935 e le sentenze si rispettano senza commentare.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.