PEPPINU ‘U BRUTTU

È il 23 aprile 1916, Pasqua. È un giorno di festa per tutti, anche per chi trova una giornata di lavoro ogni dieci e non sa cosa mettere sotto i denti per nove giorni su dieci; è festa per chi ha le scarpe e per chi sotto i piedi ha calli così spessi che se, malauguratamente, dovesse pestare un chiodo nemmeno se ne accorgerebbe. Insomma, è una di quelle rarissime occasioni per dimenticare la miseria e spendere qualche soldo, anche a costo di farselo prestare e sputare sangue per poterlo restituire.

È stata festa anche per un giovane contadino acrese, Angelo Sposato, che dopo aver goduto fra i rumori festivi di San Demetrio Corone l’allegra giornata di Pasqua, saturo di copiose libazioni e stanco per gli abusi bacchici, torna alla torre colonica in groppa al suo asinello, seguito dalla moglie, Annunciata Viteritti, e dalla figlia quindicenne Maria Giuseppa.

A circa due chilometri dall’abitato, lungo la strada che discende verso San Mauro, s’incontra una collina folta di querce annose e di floridi ulivi, che digrada in solitarie vallate. La deserta località è denominata “Bellezza”, forse per la florida vegetazione, ma in vero contrasto con l’aspetto silenzioso e malinconico dei luoghi. Angelo, sua moglie e la loro figlia scendono lungo uno stretto sentiero, che in un certo punto è tagliato da un profondo e lungo fosso di scolo, nascosto in gran parte da folti cespugli. Un posto che ad un forestiero incuterebbe terrore.

All’improvviso, da quei folti cespugli, di fronte alla famigliola sbuca, con il viso stravolto e gli occhi balenanti ferocia, Giuseppe Pisarra, che tutti conoscono come “Peppinu ‘u bruttu” per via delle deformi anomalie del viso e della persona. Le due donne urlano terrorizzate, invece Angelo, ancora incosciente per il vino tracannato, sembra quasi non accorgersi di quanto avviene davanti ai suoi occhi. In un baleno, come belva assetata di sangue, ‘U Bruttu si avventa contro i tre malcapitati e con grosse pietre colpisce alla nuca Angelo che, incapace di opporre qualsiasi resistenza, cade dall’asinello e stramazza al suolo. Messo fuori combattimento colui il quale doveva essere l’avversario più temibile, se non fosse stato completamente ubriaco, adesso ‘U Bruttu si scaglia contro Annunciata e la colpisce in fronte, ma la donna fa in tempo a frapporre una mano tra la pietra e la testa e si salva da morte certa, seppure resti gravemente ferita; poi è il turno di Maria Giuseppa che, fortunatamente, riesce a scansare i colpi e corre ad aiutare sua madre. Ma non è finita: ‘U Bruttu, con un ghigno satanico stampato sul viso, sa che le prede sono alla sua mercé e con calma tira fuori un lungo ed affilato pugnale, poi lancia un urlo disumano e si avventa furente sulle donne le quali, sebbene terrorizzate, fuggono gridando attraverso la campagna, che in quel punto è deserta e sinistra.

Peppinu ‘u bruttu non le insegue, se gli fosse riuscito di farlo subito, le avrebbe ammazzate, ma non sono loro il suo primo obiettivo. Il suo obiettivo è Angelo Sposato, alle donne ci penserà dopo.

Rimasto solo, trionfante e terribile, con la vittima in sua completa balìa, i colpi di pugnale si susseguono incessanti e rabbiosi ed affondano fra le carni del povero Angelo, che gli giace sotto, inerte ed incapace di opporre resistenza alcuna. Otto pugnalate, poi si ferma ansante ad osservare lo scempio. Storce il muso, non è soddisfatto. Allora alza il pugnale sopra la testa con entrambe le mani e, con tutta la forza che ha, vibra l’ultimo colpo, il più terribile, quello che quasi recide la testa di Angelo dal busto, quindi trascina per un piede il cadavere sfigurato nel sottostante burrone.

Adesso ‘U Bruttu si può mettere alla caccia delle due donne le quali, a stento, hanno raggiunto la loro casetta e si barricano dentro, continuando a lanciare disperate grida d’aiuto.

La belva, sporca di sangue, capisce che non può fare in tempo a buttare giù la porta prima che arrivi qualche vicino e desiste allontanandosi; si costituirà due giorni dopo al Comando dei Carabinieri di Rossano.

– Perché lo hai fatto? – gli chiede il Maresciallo.

– Qualche anno fa ha ammazzato il mio cane…

– Ma che dici? Sei pazzo? Ammazzare un uomo in quel modo barbaro e cercare di sterminare il resto della famiglia per un cane? – Giuseppe Pisarra prima annuisce e scrolla le spalle, poi resta in silenzio per un po’, quindi dice:

– Lo sospettavo di concupiscenti mire verso mia moglie…

– Non ti credo, anche se in effetti tua moglie possiede formosità rusticane… – cerca di provocarlo il Maresciallo per tastarne il grado di gelosia, ma Peppino sembra non fare una piega.

Le indagini sono veloci: c’è un uomo barbaramente ucciso, due donne che per poco non hanno fatto la stessa fine e c’è un reo confesso, riconosciuto dalle superstiti. Non serve altro, nonostante l’inconsistenza dei due moventi addotti, per chiedere ed ottenere il rinvio al giudizio della Corte d’Assise di Rossano.

Il dibattimento si apre il 15 maggio 1917 e, dopo la deposizione del dottor Macrì che lo aveva curato di polmonite e di conseguenti disturbi mentali, su pressante richiesta della difesa, il Presidente della Corte dispone il ricovero dell’imputato nel manicomio giudiziario di Aversa per essere sottoposto a perizia psichiatrica. Peppinu ‘u bruttu ad Aversa ci resta per un paio di anni prima che i periti, professori Saporito e La Pegna firmino la perizia e la inviino al tribunale di Rossano: Il Pisarra era affetto da epilessia psichica ed avea commesso il delitto in un accesso di detta terribile malattia e di conseguenza era del tutto irresponsabile per vizio totale di mente. Deve ritenersi pazzo pericoloso.

Il processo può riprendere anche se, stando alla perizia, solo per ratificare l’assoluzione dell’imputato e decretarne l’internamento in un manicomio giudiziario.

Ma la parte civile confuta i risultati della perizia e ne nasce con la difesa un duello accanito, una lotta palmo a palmo che per tre giorni infiamma l’aula, gremita di gente inferocita, a stento contenuta dalla forza pubblica.

Il Procuratore Generale, da parte sua, sulle prime, impressionato dal grave parere espresso da luminari della scienza psichiatrica, sostiene la completa infermità di mente, ma in seguito alle risultanze del dibattimento cambia parere e nella requisitoria sostiene la tesi del vizio parziale di mente. Anche questa volta scoppia la polemica e la difesa tenta con tutti i mezzi possibili di convincere la giuria della grande e decisiva importanza della perizia psichiatrica, redatta dopo ben due anni di osservazione.

Il vento sembra cambiare di nuovo direzione e sembra che non ci siano più dubbi sul verdetto di assoluzione. Ma la eloquente, serrata e chiara orazione degli avvocati di parte civile demolisce, con inconfutabile dimostrazione scientifica, la perizia ordinata dal Tribunale e convince i giurati, intelligenti e coscienziosi, che concedono a Peppinu ‘u bruttu solo l’attenuante del vizio parziale di mente, con la conseguente condanna ad anni 10 di reclusione, più pene accessorie.

Così ebbe termine la gravissima causa con un verdetto che ha modificato le risultanze, in vero errate, di una perizia, per quanto redatta da illustrazioni scientifiche, verdetto che fa alto onore al giurì di Rossano ed ai valorosi avvocati di parte civile, la di cui affascinante e poderosa arringa fu una vera grande rivelazione. Così termina il lungo articolo apparso su Cronaca di Calabria qualche giorno dopo il verdetto.[1]

Quando la Giustizia non è Giustizia ma vendetta, con la inconsapevolezza di aver fatto un favore a Peppinu ‘u bruttu: meglio dieci anni di galere che non il manicomio giudiziario.

[1] FONTI: Biblioteca Civica di Cosenza, Sezione Periodici; Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.