MAMMA, SCALASCIO!

Sono le 8,00 del 22 gennaio 1937 quando il sessantaduenne Saverio Provenzano si alza dal letto ancora un po’ dolorante per una bastonata in testa che suo figlio Pietro gli ha dato una decina di giorni prima e ordina a sua figlia Fiorina di ammazzare un gallo per ottenerne una tazza di brodo.

Mi devo purgare ed usare un’alimentazione leggera… nel brodo mettici due cucchiai di pastina.

– Pastina non ne abbiamo.

– Fai il brodo, per la pastina ci penso io.

E così Saverio Provenzano esce sulla strada per vedere se passa qualcuno e chiedergli di comprare della pastina in paese, a Falconara Albanese. Proprio in questo momento sta passando sua nuora Assunta Gaudio, la moglie di suo figlio Pietro e la ferma.

– Ho ammazzato un gallo per fare il brodo, vammi a comprare un po’ di pastina – le ordina.

Possano ammazzare te come hanno ammazzato il gallo! – gli risponde, acida.

Saverio Provenzano cambia colore, rientra in casa, prende un coltello dalla credenza, torna in strada, raggiunge la nuora, che gli volta le spalle, e le vibra una coltellata.

Mamma, scalascio! – urla la donna accasciandosi a terra, mentre Provenzano le vibra un’altra, tremenda, coltellata sotto la scapola sinistra, che le perfora il polmone e la lascia praticamente morta. Poi rientra in casa come se niente fosse accaduto. Ed in casa lo trovano i Carabinieri, che lo arrestano e lo portano in caserma.

Ma come e, soprattutto, perché un uomo da tutti descritto come persona di carattere buono benché eccitabile, stimato ed ottimo lavoratore, è arrivato al punto di uccidere sua nuora accoltellandola alle spalle? Per scoprirlo dobbiamo tornare indietro di qualche tempo.

Saverio Provenzano, volendo favorire il figlio Pietro si spogliò di quasi tutti i suoi beni, senza contare che anteriormente aveva acquistato, a nome di Pietro, un fondo denominato Marinella, che aveva pagato 45.000 lire. Ma Pietro e sua moglie Assunta, che vivevano con lui, non si mostrarono grati dei favori ricevuti e non solo trascuravano di fornirgli decorosi indumenti, ma gli facevano mancare il cibo per cui egli dovette, a volte, scassinare i cassetti dei mobili ove i cibi erano custoditi.

È ovvio che questo stato di cose generò recriminazioni e litigi giornalieri, spesso trascesi a vie di fatto, rendendo intollerabile la coabitazione.

Il primo, significativo episodio di violenza si verificò nel mese di ottobre del 1936, quando Saverio fu colpito alla testa con una pala dalla nuora e rispose prendendola a calci e schiaffi.

Il secondo episodio accadde il 13 gennaio 1937 per un contrasto circa l’allevamento di un maiale. Quella volta Saverio prese il fucile e lo puntò contro la nuora, minacciando di farle saltare la testa.

E che dire di quando venivano alle mani perché Saverio rimproverava figlio e nuora perché si baciavano alla presenza di una sua figlia nubile o perché si era convinto che nuora e figlio avessero fatto sfrattare dal suo fondo tal Innocenza Chiappetta, sua amante?

Ma l’episodio più grave avviene il 14 gennaio 1937 ed è quello che fa saltare il tappo.

Il 14 gennaio 1937 Saverio Provenzano ed i suoi familiari uccidono il maiale ed invitano alcuni parenti alle frittole. Nel momento di sedersi a tavola, Saverio è furibondo perché al suo posto di capotavola è stata collocata una sediolina invece che una sedia di ordinarie dimensioni e urla al figlio:

Voi dovete a me questa tavola e quindi mi dovete rispettare e ben trattare!

Mangia, se ne hai voglia, stupido! – gli risponde suo figlio.

Ti sei impupillito! – gli fa, di rimando Saverio, intendendo che Pietro è diventato un fantoccio nelle mani della moglie.

A queste parole Pietro perde i lumi della ragione, afferra un bastone e colpisce il padre sulla testa, provocandogli la lesione che lo tiene a letto fino al giorno dell’omicidio. Ovviamente la bastonata non può restare impunita: Saverio denuncia suo figlio Pietro che viene arrestato e si dichiara pentito del gesto:

– L’ho colpito, ho perso la testa, temevo che finisse col bastonare mia moglie come aveva fatto già a settembre scorso in seguito ad un simile alterco… mi scuso con mio padre… – ma non può bastare e viene rinviato a giudizio.

E così si arriva alla mattina del 22 gennaio quando avviene l’ultima lite, quella fatale. Saverio Provenzano, interrogato, ripercorre le vicende che lo hanno portato a perdere completamente la testa, confessa di avere ucciso la nuora, ma dice che, praticamente, non se ne è nemmeno accorto.

– Dopo che mia nuora mi disse “possano ammazzare te come hanno ammazzato il gallo”, accecato dall’ira presi ciò che mi capitò fra le mani, cioè un coltello, ed avvicinatomi a mia nuora che mi voltava le spalle la colpii una sola volta

– Una sola volta? Vostra nuora aveva due ferite alle spalle e l’avete anche inseguita per colpirla!

Non l’ho inseguita, ma mi sono limitato, vedendola fuggire, a lanciarle il coltello senza attingerla

– E il coltello dov’è?

– Non ricordo dove l’ho buttato…

– Ma possibile che per quell’ultima frase, per quanto grave, l’abbiate uccisa? Sicuramente oltre a quella ed alle liti c’è dell’altro…

Fui costretto all’omicidio anche perché accusato calunniosamente di volere avere rapporti sessuali con mia nuora

– Parliamo di nuovo del coltello. Lo sapete che averlo preso ed usato vi porterà alla condanna?

Mi sono servito del coltello perché questo mi è venuto a portata di mano. Se per caso mi fosse venuta alle mani una scure, avrei usato una scure

Ovviamente è una versione che non regge e Saverio Provenzano viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio aggravato.

Durante il dibattimento, che si svolge nelle udienze del 13 e 14 maggio 1937, la Pubblica Accusa chiede la condanna dell’imputato, concessa l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto della vittima, a 18 anni di reclusione, mentre la difesa chiede che il reato sia derubricato in omicidio preterintenzionale commesso in stato d’ira.

La Corte, da parte sua, osserva che non esistono dubbi circa il fatto che fu Provenzano a ferire e che la vittima morì in conseguenza del ferimento. Pertanto l’unica indagine da fare è quella diretta ad accertare l’elemento psicologico del reato, ai fini di giudicare se l’evento sia stato conforme alla volontà dell’agente o lo abbia ecceduto.

Esaminati gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte sostiene di avere elementi più che bastevoli per affermare che Provenzano volle uccidere. E spiega:

  • La pluralità dei colpi, assestati con ferocia e quindi con intenzione di fare strage, non già di ledere l’integrità personale della donna. Uno dei colpi, infatti, penetrò profondamente in cavità dopo avere attraversato la quinta costola e l’altro si fermò all’osso sottostante alla regione acromiale sinistra per l’eccezionale durezza e resistenza dell’osso. Il prevenuto e la sua difesa sanno che la duplicità del colpo ha un significato gravissimo e perciò sono stati costretti ad affermare, contrariamente ai risultati delle prove, che il colpo vibrato fu uno solo (quello che penetrò in cavità e cagionò la morte) e che la seconda ferita avvenne in conseguenza dell’urto violento della vittima contro il selciato, nell’atto che, colpita a morte, abbattevasi al suolo. Ora, a distruggere tale architettura difensiva, basta tener presente che le due lesioni sono di uguale natura, vanno dall’alto in basso e hanno la stessa larghezza, onde è intuitivo che sono state prodotte con la stessa arma, con successione immediata e con due distinti colpi inferti dalla stessa mano.
  • Altro elemento per affermare la volontà omicida vien dato dalla specie dell’arma usata. Indubbiamente il prevenuto si servì di un’arma a lama lunga, resistente e fortemente appuntita, avendo con essa forare la quinta costola e penetrare profondamente nella cavità toracica. Un’arma simile non è quella che va usata quando si vuole soltanto ferire. D’altronde, il fatto stesso che il prevenuto, compiuto il delitto, mise ogni cura per fare scomparire l’arma è la prova migliore che egli comprese che la natura dell’arma avrebbe rivelato la sua intenzione omicida, essendo ovvio che, se davvero avesse voluto soltanto produrre una lesione per punire la nuora della frase di imprecazione bastava assestarle pugni e calci o percuoterla con una verga, un bastone o simili.
  • La regione colpita esclude l’intenzione di ferire, essendo ovvio che quando non si vuol uccidere non si colpisce il petto, sede della maggior parte degli organi e dei vasi in cui riposa la vita.
  • Il comportamento dell’imputato non è meno significativo e sintomatico. Egli, dopo aver ferito, insegue la vittima che fugge, la raggiunge, torna a ferirla e solo quando l’ha vista ripiegare su sé stessa, stramazzando esanime ed in una pozza di sangue, smette dall’affondare l’arma nel corpo della vittima.
  • La causale prossima, assai grave (la frase sanguinosa), aggiunta alle cause remote (i continui litigi) gli resero odiosa la vittima e non potevano spingerlo se non a troncarne l’esistenza, specie perché la donna, proprio in quei giorni, per giovare alla difesa del marito tratto in arresto, aveva osato propalare che il suocero aveva tentato di possederla.

E queste sono le ragioni della Corte per affermare la volontà omicida di Saverio Provenzano e respingere, quindi, la richiesta della difesa. Nello stesso tempo, però, la Corte concorda sul fatto che l’imputato ha agito in stato d’ira, avendo egli reagito all’ingiusta apostrofe della nuora e trovandosi già da tempo in stato d’ira per i molteplici torti ricevuti e quindi, poiché è egli di ottimi precedenti, sarebbe ingiusto giudicarlo con severità, onde, nell’irrogargli la pena sembra giusto partire dal minimo di anni 24 di reclusione e diminuire tale misura di1/3 per lo stato d’ira, sicché la reclusione da applicare, in definitiva, si determina in anni 16, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Siccome, ai sensi degli articoli 2-8 del Regio Decreto 15/2/1937 N. 77, i precedenti penali di Saverio Provenzano non ostano all’applicazione del condono di 4 anni di reclusione, la pena viene fissata in anni 12 di reclusione.[1]

È il 14 maggio 1937.

 

 

 

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.