DI INDOLE PERVERSA E MALVAGIA

La mattina del 4 dicembre 1949, verso le 7,00, dopo essersi messo in tasca non più di cento lire, il sessantenne Felice Ritondale esce dalla sua casa sita in contrada Montesalerni del comune di Diamante, dove abita con tutta la sua famiglia, per andare in paese a riscuotere delle somme che accredita da persone alle quali ha prestata la sua opera in qualità di bovaro: in tutto 4.590 lire. Messi i soldi nel portafogli, verso le 15,00 va alla cantina di Giuseppe Marino, dove incontra degli amici con i quali gioca a carte e beve qualche bicchiere.

In questo frattempo entra ed esce varie volte dalla cantina il genero di Felice, Domenico De Marco, il quale ogni volta guarda furtivo tra gli avventori e poi se ne va. Intanto si sono fatte le 20,00 e gli avventori si affrettano a pagare il proprio conto per tornare a casa. Anche Felice Ritondale paga la sua quota di 100 lire, poi confabula col cantiniere, toglie dalla tasca il portafogli e gli da una banconota da 1.000 lire. È un prestituccio tra amici, glielo restituirà appena possibile.

Felice, in compagnia di Domenico Rienti, si allontana dalla bettola per tornare a casa; arrivati alle ultime case del paese i due amici si salutano e l’anziano prosegue da solo per la strada di campagna conducente alla sua casa.

È la mattina del 5 dicembre, in casa di Felice Ritondale c’è un po’ di agitazione:

– Dov’è papà? – chiede uno dei figli alla madre.

– Dov’è? Stanotte non è rientrato…

– Cosa? Dobbiamo andare a cercarlo, non sia mai si è sentito male…

Così tutti i familiari cominciano le ricerche di Felice, avviandosi verso la frazione Cirella ma, giunti in contrada Treoliete, si fermano urlando e bestemmiando: sul ciglio della stradina c’è il cadavere del loro congiunto, che giace supino, leggermente inclinato sul lato sinistro, mentre sul lato destro, vicino alla testa orrendamente sfigurata ci sono un coltello a serramanico chiuso ed un cappello di feltro; accanto alla mano destra due pipe e mezzo sigaro toscano.

No, certamente non è stata una disgrazia, qualcuno ha ammazzato Felice Ritondale.

Quando arrivano i Carabinieri, sospettosi per mestiere, notano subito una cosa strana: a piangere Felice ci sono tutti i parenti tranne uno, il genero Domenico De Marco. Che c’entri qualcosa con il delitto? D’altra parte De Marco è una vecchia conoscenza delle caserme e delle Preture della zona, infatti nei suoi fascicoli aperti dai Carabinieri viene con precisi, netti tratti stigmatizzato come individuo poco amante del lavoro, di carattere prepotente e violento, in pessima considerazione di tutti per la sua indole perversa e maligna. Si vedrà. Intanto è arrivato anche il medico legale e bisogna procedere alla descrizione delle condizioni del cadavere: una vasta ferita lacero-contusa alla regione frontale destra, abrasioni multiple alla guancia destra, una ferita a carico del labbro inferiore con frattura parziale e scollamento della mandibola, frattura completa del mascellare inferiore con deviazione evidente della bocca, tumefazione della regione sinistra, vasta ecchimosi alla regione tiroidea che si estende ai lati del collo, tre anelli cartilaginei che formano l’albero tracheale nella regione sopraioidea si presentano fratturati nella rima glottidea, completamente serrata.

Poi c’è un primo indizio importante: stretti nel pugno destro ci sono dei capelli non appartenenti alla vittima, il che, unito alla frattura della trachea potrebbe significare che Felice Ritondale è stato aggredito, preso alla gola e quindi ha cercato di difendersi. Poi il secondo indizio che potrebbe spiegare il movente del delitto: addosso al povero Felice non c’è più il portafogli con le 3.490 lire che gli erano rimaste quando uscì dalla cantina.

I Carabinieri cominciano le indagini puntando decisamente su Domenico De Marco e ne ricostruiscono le vicende familiari partendo dal suo matrimonio con Raffaela Ritondale, la figlia del morto, avvenuto nel 1946 e dal quale nacquero due bambine. Ed è una storia di orrore: quasi subito dopo il matrimonio iniziò a maltrattare la moglie, malmenandola in modo brutale e inumano, tanto che la malcapitata ebbe a riportare dal perfido vari colpi di scure e non solo, in quanto si vide – ben presto – mancare i mezzi di vita. La sua azione violenta non si arrestò neppure di fronte alle sue creature, che osò perfino percuotere senza un motivo assolutamente giustificabile. Egli nutriva avversione, animosità e rancore anche contro i propri suoceri, adducendo a pretesto che costoro non avevano dato alla figlia, in occasione del matrimonio, la giusta dote. Ma più forte risentimento aveva verso il suocero, al quale faceva colpa, per poca sorveglianza, di una relazione contratta dalla figlia Filomena la quale, avendo soppresso il frutto dei suoi amori illeciti, fu condannata per infanticidio e tuttora trovasi in carcere per espiazione di pena. Per tale fatto tra i due si svolse una vivace discussione, degenerata in vie di fatto per cui, nel febbraio del 1949, il facinoroso colpì con la scure il povero vecchio, cagionandogli delle lesioni. Così i rapporti tra i due erano tesi e assolutamente di fredda indifferenza.

Questo è il contesto nel quale è maturato il delitto, ammesso che Domenico De Marco sia l’autore dell’omicidio. Ed ammesso che sia lui l’assassino, si è trattato di un omicidio commesso a scopo di rapina o un omicidio scaturito da una discussione degenerata, come nel caso dei colpi di ascia? Ci sarà da lavorare molto per gli inquirenti. Intanto una cosa è certa: Domenico De Marco è svanito nel nulla.

Ad aumentare i sospetti su De Marco ci pensano Raffaela, sua moglie, e suo cugino Persio Benvenuto, i quali raccontano ai Carabinieri:

– Prima di allontanarsi da casa mi disse che si sarebbe recato in Cirella presso il cugino Persio…

– Qui non è venuto, non l’ho proprio visto…

A questo punto gli indizi sono ritenuti sufficienti e viene emesso un mandato di cattura nei confronti di De Marco, che è sempre latitante e lo rimane fino al 15 dicembre, quando si costituisce nelle mani del Pretore di Belvedere Marittimo e racconta la sua versione dei fatti:

La sera del quattro dicembre, dopo di essere stato nella bettola di Marino fino alle ore 19,00, mi sono diretto, dovendo partire per Roma, allo scalo ferroviario di Cirella. Quivi giunto seppi che il treno era passato ed allora mi diressi a piedi allo scalo di Scalea, distante ventuno chilometri, dove al mattino verso le ore 4,00 presi il treno per Roma, giungendovi verso le ore 13,00. Mi portai subito nella campagna romana e prestai il mio lavoro per vari giorni presso una fattoria, ma sopraggiunto il maltempo fui licenziato e così il tredici dicembre partii da Pomezia acquistando un biglietto per Scalea, ove giunsi il quattordici. Presi la strada nazionale per Cirella, ma pervenuto allo scalo ferroviario di Grisolia seppi da un individuo, conosciuto solo di vista, di essere accusato dell’omicidio di mio suocero… sono innocente!

De Marco viene interrogato altre volte e comincia a contraddirsi, fino a quando il 17 dicembre, messo alle strette, ammette:

Si è trattato di legittima difesa… ma i soldi non li ho presi io!

– Allora racconta come sono andati i fatti.

La sera del quattro, nel fare ritorno alla mia abitazione, incontrai mio suocero che, alquanto brillo, incominciò a parlare del corredo che non aveva dato alla figlia, dicendo che non voleva che si sapesse in giro, ma io risposi che non potevo tacere la verità. Mentre il discorso si svolgeva in tali termini, il vecchio, estratto un coltello, mi si avventò contro con l’intenzione di colpirmi, tanto che, sopraffatto da mio suocero che mi aveva buttato per terra, riuscii a divincolarmi, a raccattare un pezzo di legno e a vibrargli un colpo alla testa, riportando anche lesioni alla mano destra nel tentativo di difendermi. Poi, appena vidi che mio suocero era caduto per terra, rapidamente mi allontanai, senza sapere se fosse vivo o morto

No, le cose non possono essere andate così. Lo dicono soprattutto i capelli stretti nel pugno di Felice Ritondale, la sua trachea fratturata, il coltello ritrovato chiuso accanto al cadavere. E lo dice l’autopsia che ha stabilito che il vecchio è morto per strangolamento e solo dopo è stato colpito al capo da una grossa pietra e non da un pezzo di legno.

Terminata l’istruttoria, il Pubblico Ministero chiede il rinvio a giudizio di Domenico De Marco per omicidio aggravato dai rapporti di affinità, furto aggravato e maltrattamenti nei confronti della moglie e delle figlie. La Sezione Istruttoria, però, in difformità con le richieste del Pubblico Ministero, ritiene che ci siano gli estremi per rinviarlo al giudizio della Corte di Assise di Cosenza per i ben più gravi reati di rapina, omicidio a scopo di rapina e maltrattamenti nei confronti della moglie e delle figlie. E Domenico De Marco comincia a sudare freddo.

Durante il dibattimento la Corte si convince che il perverso quella sera attese il suocero – suo nemico – lungo la via conducente alle abitazioni di entrambi in quanto egli, come risulta dalle deposizioni dei testi presenti nella cantina, andò via dal locale un quarto d’ora prima che uscisse il suocero. Costui fu accompagnato dal teste Rienti Domenico fino alla periferia  del paese, la quale dista dal luogo dove il Ritondale fu trovato ucciso due o trecento metri. Da ciò si deduce che se il De Marco uscì dalla cantina un quarto d’ora prima del suocero dirigendosi verso la sua abitazione, data la brevità del tragitto i due non dovevano incontrarsi e se l’incontro, invece, si verificò, fu perché, è naturale, il malfattore attese il suocero sulla via.

Poi ricostruisce logicamente la dinamica dell’omicidio: attesi i rapporti di animosità e di inimicizia intercorrenti tra i due, è fondato ritenere che esso De Marco abbia atteso il suocero per riprendere con lui il vecchio motivo di divergenza che li aveva sempre divisi o per rinfacciargli altro fatto più recente, che non è dato conoscere; certo è che tra i due avvenne, improvvisamente, un diverbio in seguito al quale il facinoroso passò decisamente all’azione violenta nei confronti dell’altro, sorpreso e per la sua tarda età incapace, inidoneo ad opporre una qualunque reazione alla vigoria del suo sopraffattore. Lo confermano tutte le lesioni nelle loro particolari caratteristiche, riscontrate sul corpo della vittima. Dalla particolareggiata descrizione delle ferite, infatti, risulta che De Marco aggredì Ritondale afferrandolo con la mano destra alla gola in una stretta morsa, tanto da provocare la rottura di tre anelli cartilaginei. In tali condizioni il malcapitato Ritondale cercò di difendersi afferrando l’aggressore per i capelli con la mano destra, mentre con la mano sinistra cercava di allentare la stretta al collo, che lo soffocava, ed ecco come logicamente si spiega il fatto del rinvenimento di un ciuffo di capelli nel pugno destro della vittima e del rinvenimento di abrasioni, dovute ad unghiate, sulla mano destra del De Marco. Va ancora rilevato che Ritondale, cadendo a terra e tenuto ancora stretto alla gola, venne inoltre colpito terribilmente, con una pietra, alla fronte, alla mandibola e alla guancia destra. Altro che legittima difesa, De Marco resta inesorabilmente inchiodato alla croce della sua responsabilità.

Ma c’è un altro movente che portò Ritondale alla morte e la Corte lo spiega: De Marco (che è un tipo impulsivo e violento, così come lo definiscono la moglie, la suocera, la cognata e il Maresciallo Imbesi, che lo ha descritto come un pregiudicato violento, il quale non fu spesso denunziato per l’opera pacificatrice dei suoi familiari. Vi era stata tra il suocero ed il genero una lite grave, di recente, che era finita con il ferimento di Ritondale e il fatto non fu denunziato in considerazione della affinità esistente) pretendeva che il suocero donasse alla figlia altro terreno in più di quello che le era stato costituito in dote all’atto del matrimonio; si lamentava contro il suocero il quale, secondo lui, non aveva voluto dar niente alla figlia ed egli era stato costretto financo al corredo. Da tutti questi elementi deve ritenersi che l’uccisione – che il violento volle come ineluttabile conseguenza della sua azione con reiterazione dei colpi in parte vitalissima del corpo – si è verificata, appunto, in seguito ad una discussione sulla dote.

Ma se non possono esserci dubbi circa la volontà omicida, la Corte, proprio per come ha ricostruito il fatto, esclude che il movente del delitto sia stata la rapina, motivo per il quale è stato rinviato a giudizio. A questo convincimento si perviene, tranquillamente, ove si tengano in evidenza le seguenti circostanze: la tenuità della somma che Ritondale aveva nel portafogli; non è pensabile, non è possibile ritenere che per tale quantità di denaro egli, sebbene perverso e cattivo, si sia potuto indurre all’aggressione e alla soppressione del suocero. La supposizione, il sospetto che il movente al tragico episodio sia stata la rapina sono superati dal movente certo, che è quello del fatto improvviso nel quale è sfociata la viva discussione intorno alla dote. Il mancato ritrovamento del denaro addosso al cadavere è facilmente spiegabile in quanto De Marco, commesso l’omicidio pensò di fuggire e poiché era senza denaro pensò di rovistare le tasche dell’ucciso, asportando il denaro che costui aveva.

Avendo stabilito ciò, la terribile aggravante deve essere esclusa ed il reato di rapina deve essere modificato in quello di furto aggravato. Ma per tale delitto, così come degradato, De Marco va dichiarato non punibile, atteso il suo rapporto di affinità con il derubato.

Alla Corte non resta che occuparsi dei maltrattamenti inflitti alla moglie ed alle figlie: è risultato pienamente provato che egli aveva instaurato nella sua famiglia un regime di vita esasperata dalla sua brutale, inumana violenza; sovente, in modo veramente allarmante, picchiava e ingiuriava la moglie e i figli ed anzi una volta colpì, crudelmente, la sua figlioletta con un calcio all’addome, per cui ella rimase per più tempo sofferente.

Ma la Corte, dopo aver affibbiato a Domenico De Marco i peggiori epiteti, sostiene che può ottenere qualche considerazione solo mediante la concessione delle attenuanti generiche, che si presentano veramente opportune per la migliore adeguazione della pena al fatto e alla personalità del colpevole: per vero vanno tenute in conto la sua giovane età e la sua confessione – sia pure tardiva – che dimostra i suo pentimento e, in genere, la sua condotta precedente al fatto (sic!).

Pertanto, in considerazione di quanto sopra, partendo dalla base di anni 26 per l’omicidio aggravato e anni 3 di reclusione per il delitto di maltrattamenti, ridotte le stesse nei limiti rispettivi di anni 20 e di anni 2 per le attenuanti generiche, si stima infliggere all’imputato la pena complessiva di anni 22 di reclusione, oltre alle spese, i danni e le pene accessorie.

Ma per come è stata concepita la sentenza, la Corte di trova in dovere, concorrendo le condizioni di legge, di applicare il D.P. 23/12/1949, N° 930 e dichiarare condonati anni 3 della pena inflitta.

È l’8 maggio 1951.

L’8 febbraio 1954 la Corte di Appello di Catanzaro applica il D.P. 19/12/1954 N° 922 e dichiara condonati altri 3 anni della pena.[1]

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.