La mattina del 7 ottobre 1939, la ventottenne Nicoletta Possidente di Acquaformosa bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Lungro per denunciare di essere stata, ancora una volta, maltrattata dal proprio marito Giovan Vincenzo Mele
– Marescià… questo è il certificato che mi ha fatto due giorni fa il dottor Esposito
Il Maresciallo legge il referto e si sofferma sulla stringata diagnosi: la paziente presenta all’avambraccio sinistro una lieve perdita di pelle della grandezza di tre centimetri, asportata da arma da taglio e guaribile in giorni dieci.
– E che volete fare? È una cosa da niente…
– Marescià, è una cosa di tutti i giorni…
– Va bene, gli parlo io e lo faccio calmare, tornate a casa tranquilla
E Nicoletta torna a casa, ma non è affatto tranquilla perché comincia ad avvertire forti dolori all’addome, colpito dal marito, ma non refertato dal medico.
Dopo due giorni, il 9 ottobre, l’applicato al Comune, Giuseppe Aronne, bussa alla porta della caserma e chiede di parlare col Maresciallo
– Nicoletta Possidente si è abortita ed il suo stato di salute è grave…
– Che cosa? E come è successo?
– Pare per le botte…
Il Maresciallo si precipita a casa della donna e si fa raccontare meglio le cose, che forse aveva un po’ sottovalutate
– Fin dal momento in cui mio marito mi avea ferita col coltello, ho avvertito dei dolori al ventre, che si sono acutizzati e sono stati accompagnati da perdite di sangue fino al momento dell’aborto, avvenuto alle ore sei di stamattina… ve l’avevo detto che era una cosa di tutti i giorni, infatti credo che la causa dell’aborto è dovuta senza dubbio alcuno ai maltrattamenti e specialmente alle percosse inflittemi nelle precedenti notti dal 3 al 4 e dal 4 al 5 durante le quali, oltre alla lesione col coltello, ho patito percosse con pugni e colpi di sedia in quasi tutte le parti del corpo…
– Raccontatemi meglio come sono andate le cose
– La sera del 3 mio marito ritornò a casa ubriaco verso mezzanotte e senza motivo mi ferì col coltello e mi percosse… mio marito era contrario che io venissi in caserma e che andassi dal medico, minacciandomi che, qualora fosse stato denunziato, mi avrebbe percossa maggiormente… e devo dire anche che mio marito non provvede né al mio sostentamento, né a quello dei miei figli e quel poco che guadagna lo consuma in cantina
– E ora vediamo se vi percuoterà maggiormente!
Ma il Maresciallo sa che prima di compiere qualsiasi passo deve trovare i riscontri necessari al racconto di Nicoletta, così interroga parecchie persone del vicinato, fra cui i coniugi Vicchio-Cirillo, abitanti il piano soprastante a quello della Possidente, che raccontano
– Quasi giornalmente Mele, ritornando dal lavoro e lasciati a casa i ferri del mestiere, va in cantina, donde ne esce la sera molto tardi e ubriaco. rincasando questiona con la moglie che sole ingiuriare e percuotere, tanto che una volta dovemmo, alle grida della moglie, seriamente richiamarlo…
Nicoletta viene fatta immediatamente visitare dal medico, ma questa volta è il dottor Straticò a farlo, che le riscontra: 1) Ecchimosi alla superficie antero-esterna della coscia sinistra della dimensione di circa una moneta da una lira; 2) Lievi escoriazioni ai quadranti inferiori dell’addome; 3) escoriazioni all’avambraccio sinistro; 4) Contusione alla regione fronto-parietale sinistra; 5) Contusione alla regione lombare destra. Poi scrive sul referto: Ritengo che le lesioni siano state causa di un aborto al quinto mese, emesso stamane alle ore sei dalla Possidente. Il fetolino era di sesso maschile.
I Carabinieri cercano Mele, lo trovano e, portato in caserma, gli contestano i fatti. Lui si difende
– Ammetto di avere, nei giorni 3 e 4 fatto questioni con mia moglie, ma nego di averla percossa a colpi di sedia… le ho dato due soli schiaffi
– E la ferita col coltello?
– Ah, la ferita! Non gliel’ho fatta io, si ferì da sé stessa nell’atto che si avventava contro di me mentre io mi trovavo col coltello in mano per affettare il pane!
– E certo, sicuramente è andata così! Vi dichiaro in arresto per lesioni personali volontarie cagionanti l’aborto e violazione degli obblighi di assistenza familiare, portatelo in camera di sicurezza, domani vedrà il Pretore!
Il Pretore conferma, ma quando il fascicolo arriva in Procura, il Pubblico Ministero crede, in sua giustizia, esercitare l’azione penale limitatamente al primo reato, cioè lesioni personali volontarie causanti l’aborto.
Una successiva perizia medica ordinata dalla Procura conferma che le lesioni riscontrate sul corpo di Nicoletta furono inferte con pugni e colpi di sedia e giudica che le lesioni ai quadranti inferiori dell’addome ed alla regione lombare, nonché il trauma psichico dovuto alle minacce subite causarono l’aborto, essendo la Possidente un soggetto alquanto deperito ed anemico. Un soggetto alquanto deperito ed anemico, quindi anche in questo caso Nicoletta ha detto la verità, una verità sottovalutata. Poi viene interrogata per confermare la querela ed è solo ora che, con accorati accenti, si lascia andare e racconta le sue disgrazie
– Fin dai primi mesi del matrimonio, avvenuto tredici anni fa, non ebbi che pene poiché mio marito si ubriacava e questionava per dei nonnulla, sicché ci separammo una prima ed una seconda volta, rimanendo divisi per due anni e mezzo la prima volta e per un tempo assai più lungo la seconda volta, riunendoci di nuovo circa un anno fa, ma le questioni ebbero subito a ricominciare poiché mio marito, come al solito, si ubriacava e mi percuoteva, il che avveniva a tarda ora della notte, quando rincasava e se per caso lo diffidavo di denunziarlo, egli rispondeva minacciando che mi avrebbe fatta morire a poco a poco. Mi faceva mancare i mezzi di sussistenza poiché tutti i guadagni li consumava in cantina, onde io ero costretta a guadagnarmi il pane per me e per i miei figli
– Potete essere più precisa sulle percosse che causarono l’aborto?
– La sera dal 3 al 4 ottobre, mio marito, rincasato molto tardi, mi percosse con pugni e calci. La sera successiva, rincasato alla mezzanotte, mentre ero a letto m’ingiunse di aprirgli la porta, pur essendo egli in possesso della chiave che, per maggiore crudeltà, lanciò dentro casa, facendola passare attraverso un buco. Fui costretta ad alzarmi e ad aprirgli la porta e quando fu dentro mi picchiò con pugni alla testa, ai fianchi e in altre parti. Per giunta mi tirò una sedia, colpendomi al fianco sinistro e, finalmente, col coltello mi ferì all’avambraccio. Cominciai ad avvertire dei dolori all’addome, che andavano sempre più aumentando, fin quando, diventati insopportabili ed accompagnati da emorragia, furono seguiti dall’aborto…
Le accuse, questa volta più precise e particolareggiate, vengono nuovamente contestate al marito, che continua a protestarsi innocente e, anzi, va al contrattacco
– Mia moglie è una pazza che grida senza ragione, richiamando spesso l’intervento dei vicini, e nella sua collera si suole buttare a terra, percuotendosi il ventre e la faccia!
– Va bene, quindi non è nemmeno vero che le avete fatto mancare i mezzi di sussistenza…
– Io non le ho fatto mai mancare il pane perché ho sempre portato a casa il frutto del mio lavoro! Tutti i lagni di mia moglie sono menzogneri, non essendoci altro di vero che due soli schiaffi, datile quattro giorni prima dell’aborto, il quale fu cagionato dal fatto che mia moglie, il giorno sette, volle andare in campagna a raccogliere legna e fichi, che portò in casa sulla schiena, all’uso albanese e, per lo sforzo compiuto, ne seguì l’aborto nella stessa notte
Non è credibile, i vicini e le lesioni lo hanno già smentito, così il 25 gennaio 1940 Giovan Vincenzo Mele viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari.
Il dibattimento si svolge nelle due udienze del 2 e 3 aprile 1940. La Corte, esaminati gli atti ed i testimoni, conclude: La prova generica e specifica, completandosi a vicenda, pienamente acclarano che l’aborto fu conseguenza delle lesioni e del trauma psichico patiti da Nicoletta, la quale non era certamente in condizioni fisiche tali, per lo stato di denutrizione in cui trovavasi, che percosse e patemi non dovessero influire sinistramente sulla sua gestazione, trovandosi debole ed anemica per i lunghi e forzati digiuni a cui assoggettavala il marito manesco e vizioso, che consumava in cantina ogni suo guadagno, affatto preoccupandosi di lei e dei figli. Per tutto quello che si è detto, la responsabilità del prevenuto è evidente ed in considerazione della sua protervia a maltrattare la moglie e della gravità dell’ultimo fatto che determinò l’aborto, facilmente prevedibile, credesi di irrogare pena proporzionata, infliggendola nella misura di anni sette di reclusione, più le pene accessorie.
Ma la Corte si trova nella condizione di dover applicare il Regio Decreto 24 febbraio 1940, N. 24 e dichiara condonati anni due della pena.[1]
Due soli schiaffi non sono mai una cosa da niente.
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.