RAPITA

Il pomeriggio del 21 settembre 1920, Tommasina Rizzuto e Serafina Vono, donne di casa di Panettieri, scendono al fiume Iannetta per lavare i panni. Le due donne parlano degli ultimi pettegolezzi appresi in paese quando, all’improvviso, sentono delle urla strazianti di donna che invocano aiuto. Tommasina e Serafina si guardano perplesse perché pensavano di essere da sole al fiume a lavare, poi si girano verso il posto da dove provengono le urla, si guardano di nuovo negli occhi, lasciano cadere a terra i panni bagnati e cominciano a correre. Quando oltrepassano un folto groviglio di arbusti che impediva loro di vedere, si trovano davanti una scena terribile: Franceschina Astorino, una ragazza loro paesana, si agita e continua ad urlare mentre due uomini la tengono ferma dalle braccia, un terzo la spinge da dietro ed un quarto cammina davanti a questi. È evidente che stanno cercando di trascinarla via e le due donne, fermatesi per un attimo, cominciano a correre urlando di lasciare la ragazza ma, quando sono ad una certa distanza, uno dei rapitori estrae la rivoltella e gliela punta contro. Tommasina si ferma di botto, terrorizzata; Serafina, al contrario, continua a correre urlando, ma quando riesce quasi a prenderla per un braccio, l’uomo armato le poggia la canna della rivoltella sul petto e le urla in faccia:

Se non ritorni indietro ti ammazzo!

A questo punto Serafina è costretta a desistere e non può fare altro che seguire con lo sguardo la ragazza che viene trascinata via, nonostante opponga una disperata e furiosa resistenza. Addirittura, quando ha le mani libere, Franceschina si graffia il volto e si strappa i capelli, nel tentativo di commuovere i suoi aguzzini, ma non c’è verso di convincerli.

Tommasina e Serafina si mettono a seguire il gruppo ad una certa distanza e continuano ad urlare, ma dopo una buona mezz’ora di cammino verso la montagna, decidono di desistere e tornare indietro per dare l’allarme.

Le due donne arrivano alla caserma dei Carabinieri di Bianchi che è già buio e raccontano i fatti al comandante, il Brigadiere Serafino Pranteda.

– Avete riconosciuto i quattro rapitori? – chiede alle due donne, che fanno segno di no con la testa, poi è Serafina Vono a prendere la parola e spiegare:

I quattro individui non erano di Panettieri, ma forestieri. Io però li riconoscerei benissimo, qualora mi venissero presentati – si ferma per qualche secondo pensierosa, poi continua – Tra i rapitori vi era Salvatore Russo, il quale so che pretendeva la ragazza in isposa, ma la famiglia non voleva

– Come facevate a conoscere il Russo se non è del vostro paese? Lo avete detto voi – le chiede il Brigadiere.

Riconobbi Russo Salvatore per averlo visto altre volte

E con queste scarne notizie cominciano le indagini per rintracciare Franceschina, per trovare conferme su come si sono svolti i fatti e sul contesto che ha generato il rapimento. Sul primo punto il Brigadiere ed i suoi uomini brancolano nel buio; sugli altri due c’è qualche novità. Intanto non ci sono dubbi che il rapimento si sia svolto come hanno raccontato le due testimoni; sul contesto i militari raccolgono in paese qualche indiscrezione sulla possibilità che Franceschina fosse d’accordo con Salvatore Russo ed il rapimento è stata solo una messa in scena per mettere i genitori della ragazza davanti al fatto compiuto. Si, ma perché simulare un vero e proprio rapimento e non, semplicemente, scappare insieme? Probabilmente tutto sarà chiarito quando sarà ritrovata la ragazza ed arrestati i responsabili. Ma forse qualcosa può spiegarla Santo Astorino, il padre di Franceschina.

Mia figlia Franceschina non aveva mai amoreggiato con Salvatore Russo e, pertanto, debbo escludere in modo assoluto che mia figlia potesse essere d’accordo con il rapitore, che è stato aiutato nel perpetrare il vergognoso reato da Giuseppe Grande, Santo Mancuso, Serafino Marchio, Raffaele Mancuso, Salvatore Mancuso, Rosina Milito, Giuseppa Astorino e Carolina Marino, contro i quali io sporgo formale querela

Ecco, dove non sono arrivati i Carabinieri, è arrivato il padre della ragazza rapita. Così il Brigadiere si mette alla ricerca degli otto presunti complici di Salvatore Russo, ma scopre subito che sono tutti scomparsi nel nulla.

Qualche giorno dopo il Brigadiere viene informato che rapita e rapitore potrebbero essere a Isola Capo Rizzuto, a casa della sorella di Salvatore, della quale pare che sia in possesso delle chiavi. Parte il telegramma ai commilitoni del posto ed a fare una visitina a casa di Francesca Russo sarà il Maresciallo Filippo Macchia.

Tombola! I due sono proprio lì da soli, ma le cose non sembrano essere come hanno comunicato al Maresciallo, perché Franceschina, portata in caserma ed interrogata, lo lascia stupefatto.

– È lui che ti ha rapita? – le chiede. Franceschina lancia un’occhiata a Salvatore, seduto in un angolo della stanza, che la guarda con occhi severi.

Non è vero che mi ha rapita, è invece vero che mi sono allontanata volontariamente dalla casa paterna col mio fidanzato Salvatore Russo, col quale amoreggiavo da un anno. Lo incontrai mentre lavavo al fiume e, dietro invito di Salvatore, mi recai con lui a Isola Capo Rizzuto.

Dopo questa dichiarazione, il Maresciallo Macchia, non reso edotto delle modalità con le quali si sono svolti i fatti, non può far altro che lasciare andare Salvatore Russo e disporre l’accompagnamento della ragazza a casa dei genitori. È ovvio che qualcosa non quadra perché le due testimoni hanno dichiarato esattamente il contrario di Franceschina e non sembrano esserci i presupposti per una accusa falsa. Infatti, appena arrivata a Panettieri la ragazza sporge querela contro Salvatore Russo e anche questa volta lascia tutti a bocca aperta:

–  Il 21 settembre 1920, mentre ero a lavare al fiume di Panettieri, ad un tratto mi vidi circondata da Salvatore Russo e da altre sette persone che, a viva forza e minacciandomi con le armi in pugno, mi rapirono, trasportandomi con loro. Ad un certo punto della strada, in aperta campagna e mentre gli altri facevano la guardia, Salvatore Russo, a viva forza ed armata mano, abusò di me. Non è vero, quindi, che vi era stato un concerto tra di noi, perché con il Russo non avevo mai amoreggiato e lo conoscevo appena di vista. Mi è stato, e mi è, tanto ripugnante che rifiuto il matrimonio che mi consiglia mio padre, contentandomi di vivere nel disonore. – si asciuga gli occhi e si soffia il naso, poi continua – Dopo che fui disonorata sulla montagna di Taverna, Russo mi possedette ancora in aperta campagna vicino Isola Capo Rizzuto e anche lì con viva forza e con minaccia a mano armata

– Era un posto nascosto, vi avrebbe potuto vedere qualcuno che passava nelle vicinanze?

Il posto è pubblicoposcia mi condusse a casa della propria sorella, casa della quale deteneva le chiavi, poiché in quel tempo la sorella si trovava a Carlopoli

– Se le cose sono andate come stai raccontando ora, perché al Maresciallo Macchia hai detto tutto il contrario?

Dichiarai al Maresciallo che ero stata consenziente al fatto, ma ciò feci in seguito a gravi minacce di morte di Russo, il quale mi accompagnò fin nella caserma e stette presente alla mia dichiarazione, che se fosse stata contraria ai suoi voleri, mi avrebbe ammazzata, infatti nella tasca dei pantaloni egli deteneva l’arma

– Quindi…

– Quindi intendo querelarmi formalmente contro Russo e gli altri sette, che ben riconoscerei se mi si facessero vedere.

Salvatore Russo finisce al fresco ed il suo difensore, Tommaso Corigliano, fa istanza di scarcerazione. La risposta si fa attendere fino all’ultimo giorno dei termini per la custodia cautelare, il 5 aprile 1921, quando il Giudice Istruttore emette l’ordinanza di scarcerazione, subordinandola, però, al deposito cauzionale di lire quattrocento, che l’avvocato Corigliano provvede a depositare il giorno successivo, presentando immediatamente ricorso contro la cauzione e le cose cominciano ad imbrogliarsi, allungando a dismisura i tempi del processo, con il dibattimento che, previsto per il 20 marzo 1922, slitta ancora.

Pretura di Borgia, in provincia di Catanzaro. È il 18 aprile 1922, due giorni prima del dibattimento in aula. Santo Astorino, il padre di Franceschina, è in piedi davanti al Vice Pretore e tormenta tra le mani il cappello, mentre il cancelliere gli rilegge ciò che è scritto sul foglio di carta bollata che sta per firmare.

L’anno millenovecentoventidue, il giorno diciotto aprile in Borgia. Avanti a noi, eccetera eccetera, è comparso Asrorino Santo di anni cinquantuno, nato in Panettieri, residente in Borgia, contrada Roccella di Borgia, e ha dichiarato di volere, col presente atto, rimettere, per come rimette, la querela sporta contro Russo Salvatore di Garibaldi e tutti gli altri otto imputati, che non riesce a precisare, nel delitto comune al Russo e commesso in danno della figliuola a nome Franceschina Astorino. Dichiara altresì che la causa era stata fissata per la discussione il giorno 20 marzo davanti il Tribunale di Cosenza.

Poi poggia il foglio sulla scrivania, porge la penna intinta nell’inchiostro a Santo Astorino, che prima si pulisce le mani sui calzoni e poi firma, ben sapendo che con quella firma Salvatore Russo e i suoi complici la passeranno liscia.

– Auguri! – gli fa il Vice Pretore stringendogli la mano.

Santo Astorino accenna ad un inchino, si gira e se ne va con gli occhi lucidi.

Auguri? Perché auguri? Semplice, nemmeno un mese dopo Franceschina e Salvatore si sposano nella sede del Municipio di Isola Capo Rizzuto.[1]

Evidentemente il matrimonio che poco meno di due anni prima era stato consigliato dal padre a Franceschina per non vivere nel disonore, è diventato una imposizione alla quale la ragazza non ha saputo o potuto ribellarsi.

Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto. L’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”… “Non ho mai avuto paura, non ho mai camminato voltandomi indietro a guardarmi le spalle. È una grazia vera perché se non hai paura di morire, muori una volta sola” (Franca Viola).

 

 

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[1] ASCS, Processi Penali.