È la sera del 18 gennaio 1939. Nella cantina di Mario Zuccarelli a Mongrassano, Carmine Bruno, Riccardo Capparelli, Alberto Vilella, Pietro Sansone, Pietro Logullo, Giovanni Vilella e Osvaldo Ruggiero stanno giocando alla passatella. Le prime tre mani scorrono via tranquille, ma nella quarta, quando esce “padrone” Capparelli, questi lascia senza bere Carmine Bruno, Pietro Sansone e Osvaldo Ruggiero. Costui, vecchio avanzo di galera (già condannato più volte, anche come mandatario in omicidio), se la prende a male, tanto da afferrare un bicchiere pieno di vino e portarlo alla bocca per berlo, ma Capparelli glielo impedisce bloccandogli il braccio:
– Queste non sono azioni da fare a me! – dice Osvaldo a Capparelli, facendo l’atto di mettergli la mano sul viso.
Sembra che stia per accadere l’irreparabile ma Giovanni Vilella, noto pregiudicato anch’egli, per il fatto di essere zio di Capparelli e zio acquisito Girolamo Ruggiero, nipote di Osvaldo, si mette in mezzo ai due e li invita alla calma:
– Fra amici non è il caso di questionare!
Ma ad Osvaldo Ruggiero non torna a verso la pacifica soluzione e dice a Vilella:
– Non ti permettere di metterti nel mezzo e di prendere le parti di tuo zio! – poi si rivolge a Capparelli e lo minaccia – domani ci vedremo!
– Per un bicchiere di vino facciamo tanta quistione… – gli risponde Capparelli, amareggiato.
– Io sono capace di affrontare subito qualsiasi cosa, io sono sempre Osvaldo! – si, perché Osvaldo Ruggiero è il capo riconosciuto della pericolosa malavita della zona.
“Le cose si stanno mettendo davvero male” pensa Carmine Bruno e si fa venire in mente la migliore idea possibile per calmare gli animi: invita tutti a casa sua per bere una bottiglia di vino buono, non come quello della cantina! Poi, seguito prima da Pietro Logullo e Osvaldo Ruggiero e via via dagli altri, si incammina verso casa. Sta per andare anche Giovanni Vilella, ma poiché suo fratello Alberto accenna a rincasare, decide di accompagnarlo e dice agli altri amici che li raggiungerà subito.
Lungo la strada Giovanni si imbatte in Girolamo Ruggiero, il nipote di Osvaldo, e dopo avergli detto della riunione a casa di Bruno, gli racconta ciò che è accaduto in osteria. Girolamo, come se si sentisse in colpa per non essere stato a fianco di suo zio, gli dice:
– Voglio andare a vedere mio zio…
Giovanni non si fida, sa che se zio e nipote parlassero tra di loro non ne uscirebbe niente di buono e gli risponde:
– Lascia stare che tutto ormai è finito! – e così dicendo si allontana, dirigendosi verso la cantina di Enrichetta Argondizzo, dove poco dopo viene raggiunto da Osvaldo, al quale offre da bere un bicchiere, quindi insieme vanno a casa di Bruno dove ci sono tutti gli altri. Una volta che il gruppo è al completo, Osvaldo e Giovanni riprendono, con vivacità, la discussione sorta in osteria e Vilella, a cui sembra indelicato che si discuta in modo incomposto in casa dell’ospite, Giovanni dice:
– Voglio andarmene perché sono forestiero! – intendendo con ciò che né lui, né gli altri sono in casa propria. A queste parole anche gli altri si alzano e se ne vanno. Tutto finito. No, nemmeno per sogno. Una volta in strada, Osvaldo e Giovanni ricominciano a litigare, ma questa volta si aggiunge anche Girolamo Ruggiero. Osvaldo tira un calcio all’addome di Giovanni e questi, risentito, esclama:
– Vigliacco! Questo non lo dovevi fare!
Un’offesa che non può essere tollerata. Zio e nipote cominciano a tempestare con calci, pugni e coltellate Vilella, che cerca di allontanarsi, ma è inseguito e, mentre uno gli impedisce di muoversi, l’altro si accanisce a ferirlo e tale gioco è alternativamente giocato da zio e nipote nella lunga via crucis che Vilella è costretto a percorrere, lasciandosi dietro una macabra scia di sangue: duecentotrenta passi, tanti ne percorre Giovanni Vilella, durante i quali gli vengono inferte più di 40 coltellate con due armi diverse (una delle due sicuramente un micidiale scannaturu), prima di cadere nei pressi di una gradinata e finito con il colpo di una grossa e pesante pietra che gli sfonda il cranio.
Terminato lo scempio, zio e nipote sputano a terra e, completamente coperti di sangue, se vanno. Il loro primo pensiero è quello di correre subito nella vicina casa di Girolamo, almeno per lavarsi le mani e la faccia. In casa c’è la nonna del giovane, che quasi sviene alla vista di quei due mostri insanguinati. Girolamo le fa segno di tacere, mentre Osvaldo gli dice, con tono quasi di imposizione:
– Caricatelo tu perché io ho famiglia.
Ma Girolamo sembra non avere voglia di pagare il morto da solo e non risponde, poi cerca di convincere suo zio a concordare una versione comune da dare alla Giustizia:
– …l’abbiamo dovuto ammazzare perché altrimenti avrebbe disonorato mia sorella Italia ed ammazzato pure me…
Poi, dopo aver confabulato per qualche minuto, escono per mettere in atto il piano per farla franca e cominciano tentando di costruirsi un alibi credibile. È ormai mezzanotte quando bussano alla porta di Giuseppe Molinaro.
– Non sai niente? Hanno ammazzato Giovanni Vilella e se ne ignorano gli autori…
Poi Osvaldo va da solo a casa di Pietro Logullo, l’unico che li ha visti colpire Vilella e gli impone di andare insieme a lui a casa di Carmine Bruno per pregarlo di tacere sulla lite, se domandato dai Carabinieri e, invece, dire che Vilella e Girolamo erano stati poco prima nella di lui casa. Evidentemente Osvaldo pensa che così facendo riuscirà a recidere uno dei fili conduttori che potrebbero portare all’identificazione dei colpevoli.
Logullo, da parte sua, è deciso a osare tutto per giovare ad Osvaldo e fa anche più di quanto gli è richiesto, poiché va a casa di Capparelli per dirgli che Vilella è stato ucciso e che se ne ignora l’uccisore.
In tutto questo viavai, un passante, Francesco Loria, trova Vilella morto ammazzato ai piedi della gradinata, quasi irriconoscibile per il volto sfigurato e con una ciocca di capelli in mano. Non perde tempo e corre ad avvisare i Carabinieri, che lo incaricano di andare ad avvisare i familiari. Loria, sapendo che Girolamo Ruggiero è fidanzato con la sorella della vittima, visto che abita lì vicino crede opportuno avvisarlo per primo. Costui, nell’uscire di casa, si copre con un berretto, in luogo del cappello che portava in precedenza e non indossa il soprabito sporco di sangue, che portava in precedenza. Arrivato vicino al cadavere, tremando, Girolamo fa finta di esaminarlo attentamente al fine di riconoscerlo bene e, dopo aver dichiarato di averlo riconosciuto, accompagna il Brigadiere dei Carabinieri dai genitori della vittima, ai quali, addirittura, dà comunicazione dell’avvenimento.
– Come è potuto succedere se Giovanni è stato con te tutta la sera? – gli chiede Olinda, la sorella del morto, nonché sua fidanzata.
– No, ci siamo visti soltanto per qualche minuto e poi ci siamo divisi – risponde mantenendo un contegno calmo e cinico che al Brigadiere suscita un po’ di stupore, ma intanto bisogna iniziare le indagini e non c’è tempo per queste cose.
Le prime indagini fanno venir fuori i nomi dei partecipanti alla passatella ed il primo ad essere rintracciato e ascoltato è Pietro Logullo, il quale in un primo momento si mostra assolutamente reticente e così si passa a metodi più convincenti:
– Usciti dalla casa del Bruno, Vilella, Osvaldo e Girolamo, continuando la lite si cominciarono ad insultare… si azzuffarono tutti e tre dandosi dei colpi. Vidi distintamente che sia Girolamo che Osvaldo colpivano ripetutamente Vilella, ma non potei distinguere se avessero o meno il coltello. Camminando camminando, entrambi continuarono a colpire Vilella, ma il più accanito si dimostrava Girolamo. Giunto nei pressi della strada provinciale li abbandonai e me ne andai a casa… – ma come? Possibile che non abbia visto la scia di sangue? No, è impossibile, sta chiaramente tentando di proteggere Osvaldo. Tuttavia, sebbene abbia detto a denti stretti solo qualcosa di ciò che sa e ha visto, la sua dichiarazione almeno serve ad identificare gli autori dell’orrendo omicidio. E siccome Logullo non è stupido e sa che il Brigadiere si è accorto del suo gioco, si affretta ad aggiungere – mi ero coricato da circa un’ora quando sentii bussare alla porta. Si presentò Osvaldo dicendomi che il nipote aveva ammazzato Vilella… vicino alla casa di Felici avevo visto distintamente Girolamo colpire con un coltello Vilella al capo…
Ormai il gioco è chiaro, vuole (o deve) salvare Osvaldo e, nonostante rischi seriamente di andare in galera per questo, continua a ripetere la stessa versione anche sotto giuramento quando gli inquirenti, forti della perizia autoptica, sanno con certezza che per le armi diverse, la direzione dei colpi e tutta un’altra serie di dettagli, a colpire Vilella sono state certamente almeno due persone. Il motivo lo spiega lui stesso in uno dei numerosi interrogatori a cui viene sottoposto:
– Nel 1927, Osvaldo con altre tre persone mi appostò per mandato avuto dai fratelli di una mia amante. Per mia fortuna e per errore, essi uccisero un’altra persona scambiata per me. Furono tutti arrestati e condannati a 15 anni ciascuno. Osvaldo, uscito dal carcere non mi mantenne le nemicizia ed io gli parlai lo stesso…
Ma ritorniamo alle prime indagini. Osvaldo e Girolamo vengono rintracciati ed arrestati. Tentano di mettere in atto il loro rudimentale piano per imbrogliare la matassa, ma quando si accorgono che il sogno di farla franca è solo una fallace illusione, cominciano un giuoco serrato di scaricabarile.
– Mio zio diede a Vilella un calcio e due pugni e poi, giunti nei pressi della via provinciale, mio zio mi diede l’ordine di allontanarmi e me ne andai a casa. Qui, alle 23,30, essendo stato chiamato dal Brigadiere, venni a conoscere che Vilella era stato ucciso – racconta Girolamo, con l’evidente intenzione di scaricare tutta la responsabilità sullo zio Osvaldo.
– Quindi hai assistito solo ad un calcio e due pugni? Sei proprio sicuro? Secondo noi lo hai colpito anche tu, visto che è assolutamente certo che sono stati usati due coltelli.
– In effetti vicino alla casa di Felici mio zio tirò a Vilella due o tre colpi di coltello, onde mi intromisi per dividerli, senonché Vilella uscì a sua volta un altro coltello, di cui mio zio lo disarmò e poscia con quest’arma continuò a ferirlo…
– Quindi non furono due persone a colpire, ma la stessa persona che, in tempi diversi, usò armi diverse! È stupefacente con quanto artificio cerchi di chiarire la circostanza che furono inferte lesioni di natura diversa! – sbotta il Brigadiere che lo interroga. A questo punto Girolamo capisce che deve dire qualcos’altro per cercare di cavarsi fuori dai guai e, invece, si tira la zappa sui piedi:
– Giunti sul piazzale della chiesa, Vilella, già più volte accoltellato, cadde e tosto caduto entrai in casa e ci lavammo le mani. Preciso che mio zio mi disse: “lascia fare ché altrimenti do un colpo pure a te e mentre ci siamo, finiamolo, ma non vidi mio zio colpire Vilella con la pietra…
E si, quelle due prime persone plurali sembrano una vera e propria confessione. Ma a questo punto è zio Osvaldo a dover raccontare la sua versione dei fatti:
– Non ricordo nulla. L’omicidio, certo, non l’ho commesso, altrimenti lo ricorderei. Alle 23,30 mi trovai in casa di Girolamo e questi era fuori. Le donne si lagnavano che non era rientrato. Salutai e me ne andai ma, fatti pochi passi, mi incontrai con lui che, dietro mia domanda, mi disse: “ Zio, ho ammazzato Giovanni Vilella”. Raccontò che lo aveva ucciso a colpi di pugnale e che poi gli aveva dato anche un colpo di pietra in testa…
Interrogato nuovamente due giorni dopo, Osvaldo è ancora più esplicito nell’accusare Girolamo:
– L’ho visto prima aggredire Vilella e poi con un sasso colpirlo più volte al viso. Quando Girolamo entrò in casa confessò di avere ucciso Vilella e poscia, cambiato l’abito che era insanguinato, tornò ad uscire…
Ormai zio e nipote sono acerrimi nemici, disposti a tutto pur di riuscire a scaricare sull’altro ogni responsabilità e scampare all’ergastolo, continuando questo scaricabarile anche quando sono messi a confronto, l’uno di fronte all’altro. Girolamo, però, non si limita più ad accusare lo zio, ma fornisce anche un presunto movente, servendosi di falsi testimoni cercati nella intimità della parentela. Infatti spinge sua sorella Olinda, diciottenne, a dichiarare che lo zio odiava Vilella per motivo d’onore, in quanto il morto si era permesso, durante la carcerazione di Osvaldo, di sedurne la moglie. Ma è una dichiarazione palesemente falsa perché non trova alcun riscontro.
Per la Procura del re ci sono elementi sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio di zio e nipote ed il Giudice Istruttore, il 22 novembre 1939, accoglie la richiesta ed a giudicarli sarà la Corte d’Assise di Cosenza, nelle udienze del 14-15-17 e 18 giugno 1940, con l’Italia appena entrata in guerra.
La Corte osserva che, per quanto i prevenuti abbiano posto ogni studio per scaricarsi vicendevolmente la responsabilità, tuttavia l’uno e l’altro sono raggiunti da così gravi ed inequivocabili elementi di carico, che sarebbe far grazia o mal governo delle prove, se si dovesse assolverli. Già il numero delle lesioni, superanti la quarantina, mostra a luce meridiana che l’assassino non poté essere uno solo. Si pensi che la vittima era un pregiudicato onde non avrebbe, in quella lotta mortale, ricevuto tante innumeri lesioni senza lasciare alla sua volta il segno sull’avversario. È ovvio che se si fosse trattato di combattimento da uomo contro uomo, anche l’aggressore di Vilella non sarebbe uscito incolume e, viceversa, né Osvaldo, né Girolamo ebbero a riportare ferite. Il numero delle lesioni, senza corrispondenti reazioni, ci dice che sulla vittima operarono tutti e due i prevenuti. Né meno accusatrice è la circostanza della diversità delle armi con le quali furono inferte le ferite. Inoltre, i due hanno confessato il delitto alle loro parenti più strette. Comunque, a prescindere da tutto ciò, c’è la dichiarazione, seppure reticente, di Pietro Logullo che ha deposto di avere visto sia Osvaldo che Girolamo colpire ripetutamente Vilella.
E poi c’è l’asso nella manica: l’uno e l’altro furono spinti al delitto da causali particolari a ciascuno di essi. Osvaldo dall’essersi sentito dare torto fino in casa del Bruno, al segno che dovette ammonirlo. Da ciò la sua esasperazione, che i fumi del vino ed i loro tesi rapporti resero incontenibile. Tra loro, da più tempo, non correva buon sangue appunto perché Vilella lo sapeva irriducibile avversario al matrimonio tra sua sorella e il di lui nipote Girolamo, onde Vilella era naturalmente disposto alla disistima di Osvaldo.
A sua volta Girolamo aveva causale sua propria, come rilevasi dalla testimonianza del Brigadiere Lombardi: “Anche lo zio Osvaldo non vedeva bene il fidanzamento. Intanto Girolamo non aveva il coraggio di abbandonare la fidanzata per paura del Vilella, che non era uno stinco di santo. È mia opinione, perciò, che Girolamo andava trovando il pretesto per attaccar briga col Vilella e quindi rompere il fidanzamento; anzi ritengo che Girolamo pensava proprio di disfarsi di Vilella, come ha fatto, aiutato dallo zio”.
Ora, per la Corte, c’è da esaminare l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi che, se confermata, porterebbe gli imputati all’ergastolo.
L’aggravante va eliminata perché non va dimenticato che il delitto avvenne tra gente avvinazzata e non sarebbe far giustizia se non si considerasse che il vino influisce sinistramente sulla volontà e sulla coscienza, al segno che una piccola spinta per l’ubriaco ha una tremenda forza cogente, nonostante a norma del nostro diritto positivo l’ubbriachezza, non accidentale, non elimina, né diminuisce la responsabilità.
Accertata la responsabilità dei due imputati, non resta che determinare le pene per ciascuno: per Osvaldo, partendo da anni 23, aumentati della metà, ma da non superare i 30 anni, per la recidiva specifica reiterata (essendo egli stato condannato per delitto della stessa indole entro i 5 anni dall’ultima condanna ed essendo già recidivo). Nei rapporti di Girolamo, recidivo generico, credesi equo partire dal minimo di 21 anni, aumentati di giorni 15 per la detta recidiva. Per entrambi, ovviamente, le pene accessorie, spese e danni.[1]
È il 18 giugno 1940.
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.