Nicola Greco da Bocchigliero, uomo dedito alle donne e al vino, violento, manesco e brutale, come lo definiscono i Carabinieri, abbandonata la moglie nel paese natio, si trasferisce a Campana dove per lunghi anni convive con diverse amanti, di cui si va man mano liberando dopo averle sfruttate. Trascorre, così, gran parte della sua vita nel vizio e nell’abbrutimento, sordo ad ogni voce di probità famigliare e civile e ad ogni senso di pietà verso le sue vittime. Poi conosce la trentenne Elisabetta Ferraro, con la quale adotta i suoi consueti sistemi. Elisabetta però non fa come le altre: quando è stanca di sopportare le angherie di Nicola, lo abbandona alla sua sorte e ripara nella casa materna.
Nicola non si rassegna e ripetutamente, ma sempre invano, cerca di indurre Elisabetta a ritornare con lui, volendo continuare nella sua indegna e losca opera di sfruttamento. Fallita ogni esortazione ed ogni attività minatoria, pensa di avere un’unica soluzione.
Nel pomeriggio del 26 giugno 1938 attende, lungo un viottolo della contrada Salmalonga, la disgraziata al ritorno dalla campagna e quando la vede arrivare le va incontro. Elisabetta lo vede e capisce che stavolta finirà male. Si guarda intorno per capire se c’è qualcuno che possa aiutarla, ma non c’è anima viva e nemmeno sarebbe utile tentare di scappare, Nicola la raggiungerebbe subito. Allora decide di fare buon viso a cattivo gioco e gli va incontro.
Nicola le sorride, spalanca le braccia e la circonda affettuosamente. “Che strano, che sia cambiato?”, pensa Elisabetta, sorpresa. E la sorpresa è così tanta che non si accorge della mano che Nicola mette nella tasca sinistra dei calzoni e la tira fuori stringendo una rivoltella, mentre la bacia sulle guance.
Poi una detonazione. Il proiettile entra nel cranio di Elisabetta dalla tempia destra, determinando lo spappolamento della massa cerebrale e la frattura della base del cranio. Morta in un nanosecondo.
Nicola, completamente ricoperto di sangue, materia cerebrale e frammenti di ossa, rimette in tasca la rivoltella e adagia Elisabetta a terra, poi comincia a vagare per la campagna finché, giunto nei pressi del cimitero del paese, prende la rivoltella, se la punta all’orecchio destro e tira il grilletto.
Il proiettile lo prende di striscio e più che altro resta stordito dalla detonazione. Cade a terra, si prende la testa tra le mani e comincia a piangere. Resta lì per qualche minuto e poi, barcollante e sanguinante, comincia a camminare verso il fiume Trionto ed è qui che il mattino successivo lo trovano due militi fascisti e lo consegnano ai Carabinieri di Cropalati.
– L’ho ammazzata io e poi volevo ammazzarmi… ero ubriaco… avevo deciso di farlo già da parecchi giorni…
– Ma perché?
– Mi ha prima sfruttato e poi abbandonato quando non fui più in condizione di rispondere alle pretese e alle esigenze di quella donna, passata ad altri amori con tal Giuseppe Rovazzo… ero bisognoso di cure e invano avevo implorato assistenza e aiuto, disposto anche a tollerare il tradimento, ma di fronte alla persistente e tenace ripulsa della mia amante, l’ho uccisa in un momento di disperazione…
No, non è possibile credere a questa versione perché le cose sono semplici: c’è un reo confesso, c’è la rivoltella, c’è il carattere violento di Nicola Greco e ci sono i testimoni che gli hanno sentito pronunciare le minacce contro Elisabetta. Per ottenere il rinvio a giudizio con l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla ubriachezza preordinata al fine di commettere il delitto, non occorre altro.
Durante il dibattimento si tratta, più che altro, di vedere – seguendo, per assolvere all’obbligo della motivazione, le richieste difensive – se davvero possa competere al Greco l’attenuante della provocazione per le circostanze in cui il delitto è stato commesso e per le cause che lo hanno determinato.
La Corte sgombra subito il campo da ogni dubbio: tutto ciò che l’imputato ha detto nel suo interrogatorio, cioè la base della richiesta di concessione dell’attenuante, è frutto di fertile fantasia, costruzione rivestita di artificio e di menzogna, contro cui stanno, nel loro contenuto d’insieme, le risultanze imponenti e decisive della prova, dal verbale dei carabinieri alle testimonianze di persone insospettate e insospettabili che, in coro unanime, tracciano le linee reali del fatto e descrivono le persone a cui la Corte, in omaggio alla verità, deve necessariamente uniformarsi. In sostanza, se vi è uno sfruttatore in questa disgraziata, illegittima unione, esso è Nicola Greco, che ha sottoposto sempre a continui maltrattamenti la povera donna, fino ad ucciderla quando non ne poté più godere i favori e vivere da ozioso impenitente a di lei carico. La richiesta è respinta per difetto del presupposto che dovrebbe sorreggerla.
Ma se da un lato la Corte non concede l’attenuante richiesta, dall’altro ritiene che non sia giusto far carico all’imputato delle due aggravanti contestategli. Per quanto riguarda l’ubriachezza preordinata al fine di commettere il reato, questa, secondo la Corte, non può essere sufficientemente provata. Anche la premeditazione è dubbia: tutti gli atti anteriori al delitto, dalla preparazione dell’arma all’attesa della vittima, possono riguardare l’esecuzione del progetto dipendente dalla risoluzione criminosa; possono, cioè, interpretarsi come l’attuazione di un dolo di riflessione senza quel quid pluris, nel quale la suddetta aggravante trova il suo fondamento e la sua ragione d’essere. L’agitazione psichica del soggetto che, dopo aver ucciso, cercò di sopprimersi, rende assai perplessa la coscienza della Corte nel ritenere che Nicola Greco abbia agito con quella calma e freddezza d’animo alle quali si riannodano la macchinazione e la maggiore intensità di dolo, come presupposti fondamentali ed indispensabili della premeditazione.
Quindi si tratta di omicidio volontario semplice ed è per questo reato che, il 31 ottobre 1938, Nicola Greco viene condannato ad anni 21 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni.
Il 5 luglio 1939 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Nicola Greco.[1]
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.