IL MAFIOSO DI CASSANO

È la sera del 4 marzo 1934. Nella piazza principale di Cassano Ionio alcuni giovanotti hanno iniziato una rissa per futili motivi. Proprio in questo momento sopraggiungono altri due giovanotti, Antonio Galizia e Francesco Iannicelli, i quali intervengono per calmare gli animi, ma ad un certo punto i due cominciano ad azzuffarsi tra loro perché Galizia, giovane d’indole prepotente, col pretesto di mettere pace, si dà, con un ombrello che aveva in mano, a dar colpi da orbo ai contendenti, ferendo anche Iannicelli che, naturalmente, se ne risente, reagendo con altro colpo d’ombrello.

Adesso sono i rissanti che smettono di picchiarsi per separare i due e la quistione non ha seguito, almeno così sembra. Si, perché poco dopo Salvatore Galizia, fratello di Antonio e ancor più di costui giovane prepotente e mafioso (che una volta riportò anche una condanna per grave sfregio), avendo saputo dell’incidente avvenuto tra il fratello e Francesco Iannicelli, va a cercare questo a casa di Gaetano Garofalo, ove egli sa trovarsi Iannicelli, per sfidarlo in un duello rusticano.

– Qui non c’è, te ne puoi andare – taglia corto Garofalo e Salvatore Galizia si allontana urlando

Francesco Iannicelli è l’ultimo schifìo di Cassano! Si permette di alzare la cresta nelle quistioni tutte le volte che non ci sono io, la cosa la regoliamo domani!

E l’indomani, infatti, incontrato per caso Francesco Iannicelli, all’evidente scopo di attaccare briga, cerca di attrarlo in una cantina col pretesto ipocrita e mafioso di volergli offrire un bicchiere di vino, ma Iannicelli, avendo capito il latino, si sottrae all’invito

– Ti ringrazio, ma devo andare dal barbiere per radermi la barba

È ormai sera e Salvatore Galizia ancora va cercando Iannicelli. Nonostante il vino bevuto durante la giornata dovrebbe consigliargli di tornare a casa e mettersi a dormire, al contrario il vino bevuto ne ha maggiormente esaltato lo spirito soverchiatore. Infatti, Salvatore in compagnia del suo amico Vincenzo Casella, giovane anch’esso poco di buono, si dà, con costui, a provocare or questo ed or quell’altro pacifico giovanotto con cui s’imbatte, scazzottandone anche qualcuno.

Stancatisi di questo stupido passatempo, vanno verso la casa di Gaetano Garofalo sempre con l’intenzione di trovare Francesco Iannicelli e quando sono lì vicino Casella resta un po’ indietro, come a voler guardare le spalle all’amico, mentre Galizia si avvicina al gruppo di giovanotti che è davanti alla casa di Garofalo. Nel gruppo, oltre al padrone di casa, ci sono anche Francesco Iannicelli, suo fratello Gaetano e due loro cugini, Giovanni Papasso e Gaetano Cavallo. Galizia, con aria minacciosa, dice a Francesco Iannicelli, apostrofandolo col suo soprannome

Picozzo, questa sera dobbiamo fare una camminata insieme perché ti debbo dire una parola

Francesco freme e suo fratello, tenendolo fermo per la mano, risponde al posto suo

Salvatore, stasera non è serata di andare a camminare perché dobbiamo andare a governare i muli!

Va bene, allora andate! – risponde, mentre Giovanni Papasso gli si è avvicinato, lo ha preso sotto il braccio e lo accompagna via.

Anche questa volta si è riusciti ad evitare conseguenze potenzialmente gravi, ma Francesco Iannicelli non si fida di Salvatore Galizia, così rientra a casa, si mette in tasca una rivoltella e raggiunge il fratello ed il cugino nella stalla, poco distante da casa, ma sita in un vicolo cieco.

Finito di accudire gli animali, mentre suo fratello indugia ancora un poco dentro, Francesco esce dalla stalla e guarda la gibbosa luna calante che illumina discretamente la notte. Poi gli occhi gli vanno verso l’imboccatura del vicolo e vede la figura di un uomo piazzato lì, con le gambe larghe e le mani poggiate sui fianchi, a bloccarne l’uscita: è Salvatore Galizia il quale comincia ad andargli incontro con aria minacciosa e pare avere in mano qualcosa, forse un pugnale

Non ti avanzare! Vattene ché questa sera finisce male… te ne vai o no? – urla Francesco Iannicelli e molti, nelle case circostanti lo sentono. Ma Galizia, incurante degli avvertimenti, continua ad avanzare ed allora Francesco, forse in previsione e per tema di un nuovo incontro con Galizia, gli spiana contro la rivoltella e, senza frapporre altri indugi, gli spara addosso tre colpi, ferendolo alla regione palmare della mano destra ed alla regione ipocondriaca. Solo adesso Salvatore Galizia capisce che è meglio darsela a gambe levate, ma Iannicelli lo insegue scaricandogli ancora, senza ferirlo, gli altri tre colpi dei sei di cui era armata la rivoltella. Poi anche lui scappa per nascondersi sia dalla Legge, che dalla probabile vendetta dei Galizia.

Intanto Salvatore è riuscito ad arrivare nei pressi di casa sua, ma non ce la fa più e cade a terra chiedendo aiuto. Accorre gente, viene soccorso e portato a casa. Arrivano subito anche i Carabinieri, che gli fanno qualche domanda

Mi ha ferito Francesco Iannicelli con la complicità del fratello Gaetano e di Gaetano Garofalo… – ma non spiega in cosa sarebbe consistita la partecipazione dei due

I militari si mettono subito alla ricerca dei tre, ma non trovano nessuno. Si presentano spontaneamente il mattino successivo in caserma, dove vengono interrogati

Ho sparato a Galizia perché costrettovi dalla necessità di difendermi contro la ingiusta sua aggressione a mano armata di pugnale… – si difende Francesco

Gli altri due si dichiarano innocenti perché non hanno partecipato al fatto, e dicono di essere accorsi all’esplosione dei colpi e quando il fatto si era già completamente svolto.

Intanto le condizioni di Salvatore Galizia si aggravano perché il proiettile che lo ha colpito all’addome è penetrato in cavità e ha causato danni seri, per cui viene ricoverato nell’ospedale di Cosenza. Anche qui, dopo due giorni, viene interrogato e nemmeno questa volta dice cosa, in concreto, avrebbero fatto Gaetano Iannicelli e Gaetano Garofalo per accusarli di complicità. Anzi, non parla nemmeno più di spalleggiamento, limitandosi ad attribuire a costoro soltanto il ruolo di testimoni presenti al fatto. Aggiunge anche di non avere visto armi in mano ai due. Poi si aggrava ulteriormente e dopo due settimane di agonia, muore. Adesso si tratta di omicidio volontario.

Secondo gli inquirenti non ci sono prove sufficienti contro Gaetano Iannicelli e Gaetano Garofalo e la Procura Generale ne chiede il proscioglimento, mentre chiede il rinvio a giudizio di Francesco Iannicelli con l’accusa di omicidio volontario. Il Giudice Istruttore, però, non concorda con questa impostazione ed il 12 settembre 1934 rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari tutti e tre gli indagati per omicidio volontario e concorso in omicidio.

Il dibattimento si tiene nelle due udienze del 28 febbraio e 2 marzo 1935. Dopo avere esaminato gli atti e sentiti i testimoni, la Corte mette subito in chiaro che non si può affermare, con sicura coscienza, la partecipazione di Gaetano Garofalo e Gaetano Iannicelli all’omicidio di Salvatore Galizia poiché manca ogni serio elemento di prova, come sostiene anche il Pubblico Ministero. Di vero, non hanno seria rilevanza i tre soli indizi che, a dimostrazione di tale concorso, la parte civile ha cercato di mettere in rilievo, ossia: i conquesti dell’ucciso, la latitanza cui Gaetano Iannicelli e Gaetano Garofalo si diedero subito dopo il ferimento di Galizia e l’asserita loro presenza attiva ed ausiliatrice nel momento in cui Francesco Iannicelli esplose i colpi di rivoltella contro la vittima. Per la Corte è possibile che Salvatore Galizia abbia riferito al padre ed altri parenti che i due gli sbarrarono la via insieme a Francesco Iannicelli e dopo il suo ferimento lo inseguirono armati di bastone, ma non si può decentemente attribuire fede a tali sue nuove e diverse affermazioni le quali, se non sono addirittura il frutto di artifizio accusatorio o di amplificazioni spavalde per farsi ritenere vittima dell’aggressione multipla di tre persone, ben possono essere il risultato di erronea interpretazione di qualche circostanza innocente a lui resa nota posteriormente quale, ad esempio, quella riflettente l’accorrere dei due in Via del Popolo, poco dopo l’esplosione dei colpi, per rendersi conto, sia pure armati di bastone, di quel che poteva essere accaduto al loro congiunto Francesco Iannicelli, date le cattive intenzioni contro costui, dimostrate dal Galizia solo qualche momento prima. Che si siano dati alla latitanza non è significativo, sia perché è provato che furono indotti dai familiari a nascondersi perché a conoscenza della chiamata in correità fatta da Salvatore Galizia, sia perché si presentarono il mattino dopo. Infine, nulla prova che la presenza dei due nel momento del fatto sanguinoso abbia avuto il carattere di una condizione concorrente al reato, sia sotto l’aspetto di una partecipazione psichica o morale, sia sotto l’aspetto di una partecipazione materiale.

Ma c’è un fatto, per la Corte, che dimostra l’inconsistenza delle tesi accusatorie della parte civile: quando si sa di avere la protezione e l’ausilio di altri associati alla stessa, comune impresa criminosa, non si grida all’avversario, come fu sentito gridare Francesco Iannicelli, l’invito ansioso “Non ti avanzare! Vattene! Te ne vai si o no?”, ma si prorompe senz’altro ed in silenzio all’azione che già in antecedenza fu concertata. I due vanno assolti, quanto meno per insufficienza di prove.

Ora la Corte deve risolvere la posizione di Francesco Iannicelli, anche in considerazione della richiesta della difesa di riconoscergli lo stato di legittima difesa.

Galizia – insistendo ostinatamente nelle sue provocazioni e nei suoi propositi aggressivi, più volte manifestati nella sera del fatto e nel giorno precedente – si pose in agguato all’imboccatura del vicolo cieco per attendere Francesco Iannicelli di ritorno dalla stalla, quindi non può esservi dubbio alcuno che l’imputato abbia sparato contro Galizia perché costrettovi dalla necessità di difendersi contro il pericolo di una ingiusta aggressione da parte di costui. Ma la Corte opina che, nell’esercizio di questo suo diritto alla difesa della propria integrità personale, egli abbia ecceduto colposamente i limiti imposti dalla necessità perché egli proruppe all’azione senza avere prima valutato esattamente, come ne aveva il dovere, la reale situazione di pericolo in cui si trovava. Pure ammessa la circostanza, poco verosimile, ch’egli, nell’oscurità della sera, avesse intravisto un pugnale nelle mani di Galizia allorché questi gli sbarrò il passo, egli doveva pure considerare che, data la presenza di suo fratello e quella di Garofalo, difficilmente il suo avversario sarebbesi avventurato in una lotta impari contro tre persone, delle quali almeno una, Francesco Iannicelli, teneva spianata nelle mani una rivoltella contro di lui. Comunque, l’imputato poteva e doveva, prima di scaricare con tanta precipitazione l’arma contro l’avversario, fare il tentativo di allontanarlo, sparando in aria qualcuno dei colpi. Ma egli, per sua stessa ammissione, ciò non fece. È appunto in questo difetto di diligenza che si concreta l’eccesso colposo della legittima difesa; eccesso colposo che le condizioni d’orgasmo dell’agente non valgono a dirimere, perché quando si tratta di spegnere una vita umana, pur nelle condizioni di difesa legittima, tutti hanno il dovere di usare quella normale ponderazione e quel controllo di sé stessi che sono dell’uomo medio.

Modificato il titolo del reato in omicidio colposo, Francesco Iannicelli, avuto riguardo dei suoi buoni precedenti, viene condannato a 2 anni di reclusione, più 4 mesi di arresto per il porto abusivo della rivoltella e l’omessa denuncia dell’arma, più le pene accessorie, spese e danni.

Ma il reato rientra in quelli che possono beneficiare del Regio Decreto di indulto del 25 settembre 1934, e la Corte dichiara condonati anni due di reclusione e quindi gli resterebbero da scontare solo i quattro mesi di arresti.[1] Ma è il 2 marzo 1935 e Francesco Iannicelli ha già scontato un anno di carcere preventivo…

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.