Il 25 settembre 1913 due carrettieri di Casole Bruzio, ritornando dalla Sila, in prossimità del Fago del Soldato nella contrada Serra Candela, rinvengono boccheggiante nella conetta della strada nazionale, l’altro carrettiere Biagio Scarnati e si affrettano a darne notizia al negoziante Carmine Barone, che ha la bottega a Fago del Soldato.
Qui è fermo il trainiere (carrettiere) Francesco Campanaro, cognato dell’uomo ferito, il quale, appena saputo dell’accaduto, poiché sa che lo Scarnati è nemico con Castiglione Alfonso, detto Piritiallu, per ragioni d’interesse e poiché fino a pochi istanti prima avevano viaggiato insieme loro tre coi rispettivi traini e cioè il Campanaro avanti, quindi il Castiglione e dietro a loro lo Scarnati, pensa che il feritore debba essere stato il Castiglione e in tal senso telegrafa all’Arma dei RR.CC. di Spezzano Sila. In questo frattempo Biagio Scarnati muore.
La notizia del ferimento a Spezzano si sparge in un batter d’occhio, ma l’unica che sembra non saperne niente è Rosina Campanaro, la moglie di Biagio, che è a casa, intenta a preparare il pranzo.
– Zà Rosì, è ricuatu zù Biase? – le chiede un suo nipotino – dicono che hanno trovato morto il vostro mulo…
Rosina, sapendo i precedenti che passavano tra suo marito ed Alfonso Castiglione, ed essendo a conoscenza che costui si era recato anche in Sila, tra sé e sé pensa: “Non si tratta del mulo ma di mio marito, Piritiallu ha dovuto uccidere mio marito”.
Molto preoccupata, Rosina si avvia verso la Sila. Passando davanti la casa del Castiglione, la vede la moglie di costui, Assunta, la quale, forse sapendo quello che è successo, comincia a battersi e a gridare, proprio mentre un ragazzetto, figlio di una sorella del Castiglione, la raggiunge e le dice:
– Non è morto il mulo, no, ma tuo marito, ché zia Assunta si sta ammazzando, perché l’ha ucciso zio Alfonso!
Alla conferma dei suoi sospetti, Rosina crolla e si butta per terra affranta dal dolore, urlando e battendosi il viso.
I Carabinieri sanno che Castiglione sta tornando in paese, si appostano in contrada Acqua Olive, e quando arriva lo bloccano, lo perquisiscono e lo arrestano. Poi, montati sul suo stesso traino, vanno a Fago del Soldato, dove trovano l’ucciso che giace nella cunetta con due fori prodotti da colpi di arma da fuoco nella parte sinistra del torace ed uno nel braccio. Poi procedono a prendere qualche misura e risulta che a ridosso del cadavere vi è un argine alto varii metri, mentre a valle vi è un pendio rilevante, e che né a valle né a monte vi sono sentieri che accedono alla nazionale. Dalle prime indagini esperite sul luogo, rimane anche accertato che fra i trainieri De Luca e Arnieri, che venivano a qualche distanza e gli altri cennati, cioè Campanaro, Castiglione e Scarnati non vi erano altri veicoli, né pedoni; né veicoli, né pedoni percorsero in quel frattempo la strada in senso inverso.
Castiglione viene rinchiuso nel carcere mandamentale di Spezzano e il Pretore decide di non interrogarlo subito, ritenendo opportuno eseguire prima gli accertamenti tecnici e ascoltare i testimoni.
Dall’autopsia risulta che causa unica della morte fu uno dei tre colpi di rivoltella che attraversò il polmone sinistro, producendo una forte emorragia, emorragia che determinò la morte. Ma gli aspetti più interessanti della perizia sono rappresentati dal tragitto dei colpi, tutti dalla parte sinistra del corpo e con traiettoria dall’alto in basso e dall’esterno verso l’interno, in modo da far ritenere che l’uccisore fosse in posizione più alta rispetto allo Scarnati di circa due metri ed il fatto che nell’esofago di Scarnati c’è del cibo appena ingerito, segnale, questo, che la vittima stava mangiando o aveva appena finito di farlo ed era tranquilla non temendo aggressioni. La conclusione a cui arrivano gli inquirenti è che Scarnati camminava a piedi a fianco del suo traino, offrendo il fianco destro all’argine della strada, mentre i colpi li ricevette dal lato sinistro della strada, dove procedeva Castiglione sul traino mentre lo stava sorpassando. Ed aggiungono che, siccome i due non erano in rapporti d’amicizia, fortissimi sono gli indizi che fin dal primo momento cominciano a gravare sul Castiglione stesso. Ma manca un elemento chiave: l’arma del delitto.
– Tra mio marito e Alfonso Castiglione esistevano da un anno circa rancori per un pezzetto di terreno, attiguo alla casa del Castiglione, comprato da mio marito circa sette anni fa, ma il cui istrumento fu fatto il 29 giugno 1912, giorno di San Pietro. – racconta la vedova al Pretore – Il Castiglione voleva avere lui il pezzetto di terreno, ma nonostante che mio marito gliel’avesse offerto più volte per evitare inimicizie, prima di fare lo strumento, egli non lo volle, dicendo che egli avrebbe solo voluto che Scarnati non ci avesse messo il prezzo, così gli sarebbe rimasto per nulla. Dopo fatto l’istrumento, il Castiglione ricominciò a pretendere la cessione del pezzetto di terreno, ma mio marito non volle più accondiscendere. Da ciò nacque un’inimicizia fiera da parte del Castiglione verso mio marito. Egli da ultimo lo andava minacciando e provocando. Questa estate, al tempo che si trasportava la paglia dalla Sila, una notte mio marito e il Castiglione si incontrarono coi traini lungo la strada e il Castiglione lo aveva urtato violentemente col traino suo per provocarlo. La sera stessa, mio marito, dandomi spiegazioni sul ritardo fatto, mi raccontò l’incidente e disse che gli era caduto un rotolo di paglia per cui aveva perduto tempo a ricaricare. Mi disse, forse per non farmi stare in pensiero, che il Castiglione lo aveva urtato involontariamente. Per lo stesso Castiglione, più tardi raccontò l’accaduto a tale Vincenzo Campanaro di qui e gli disse: “Io l’avevo spinto nella conetta per provocarlo, ma egli ha avuto paura e non ha detto nemmeno una parola”. Un paio di mesi fa, poi, Vincenzo Campanaro vide il Castiglione che puliva una rivoltella e, domandandogli che facesse, rispose: “Pulisco la rivoltella perché con questa debbo spaccare il cuore di Biagio Torchiaro”, perché così aveva il soprannome mio marito. Mio marito mi riferì tale minaccia che gli era stata riportata dal Campanaro, anzi io lo tranquillizzai dicendogli che forse il Campanaro metteva zizzania per farli litigare, perché non ritenevo che il Castiglione potesse, per un pezzetto di terreno, uccidere un uomo. Mercoledì a sera 24 corrente, il Castiglione, poi, venne vicino la bottega mia al Corso Umberto e volle voltare il traino proprio avanti la mia porta, anzi nel voltare scrostò tutto il muro, mentre in quel sito nessun traino viene a voltare. Egli aveva scaricato patate lì vicino. Adesso ritengo ch’egli anche la sera del mercoledì intendeva provocare mio marito. Mi querelo e mi riserbo di costituirmi parte civile. – poi, prima di allontanarsi, aggiunge – Debbo dichiarare a Vostra Signoria un’altra circostanza ed è la seguente: verso i primi del maggio scorso vennero un giorno nella mia bottega, dove mi trovavo con mia sorella Marietta, il Castiglione e la moglie e cominciarono a dire: “Quando è che tuo marito verrà a costruire il porcile al pezzetto di terreno? Questo io aspetto! Venga, venga, questo io voglio”. Noi cercammo di persuaderli che il pezzetto di terra egli non l’aveva voluto e che mio marito in fin dei conti non l’aveva rubato, ma egli replicava sempre: “Venga, venga, questo io aspetto”. Mio marito poco prima della festa di San Francesco (14 settembre) si era rivolto alla madre del Castiglione, che gli veniva quasi un po’ parente, e la pregò di persuadere il figlio a lasciarlo perdere e a non più molestarlo, spiegandole che non poteva più cedere il pezzetto di terreno per non far nascere nei fratelli suoi il sospetto ch’egli non volesse lasciare quel piccolo cespite a un nipotino orfano, figlio di un fratello di mio marito che noi teniamo dalla tenera età in casa come figlio. Castiglione, un giorno, fra le altre minacce, disse al nostro ragazzo che tenevamo in casa come figlio: “dì a tuo padre quando vuol venire a fabbricare sul pezzetto di terreno, che quando viene gli spacco il cuore”. Per tali continue minacce, il pezzetto di terreno era rimasto fin ora inutilizzato.
È il pomeriggio del 27 settembre ed è arrivato il momento di sentire cosa ha da dire Alfonso Castiglione:
– La mattina del 25, verso le ore dieci nella Sila, in contrada Fallistro, caricai il traino di patate, 15 tomola, di tale Francesco, inteso “Spirito forte” di Spezzano, più due casse di vino di don Giovanni Parise. Alle Forgitelle, e non prima, trovai i traini di Francesco Campanaro e di Biagio Scarnati e partimmo insieme: il Campanaro avanti, dopo io e quindi Biagio Scarnati, a poco intervallo tra l’uno e l’altro traino. Prima del ponte di Moccone io chiesi la mano al Campanaro perché dovevo fermarmi alla Tavolara a caricare carboni da tale Giuseppe, carbonaio di Spezzano Grande, al servizio di Domenico Maio, anche di Spezzano. Appena cominciata la salita del Fago del Soldato, le mie bestie rallentarono e il ragazzo del Campanaro, che guidava il traino giacché il padre dormiva, mi raggiunse ed io gli cedetti il passaggio, continuando a camminare dietro di lui a un paio di metri di distanza, fino sopra le baracche del Fago del Soldato, dove il traino del Campanaro si fermò ed io passai oltre. lo Scarnati doveva seguire, a meno che la sua bestia nella salita abbia rallentato il passo e sia rimasta molto indietro, giacché io non lo vidi dietro di me. Giunto alla Tavolara chiamai il carbonaio Giuseppe, fermandomi col traino e scendendo a terra, però un suo compagno carbonaio ch’era lì mi rispose che i carboni erano stati fatti caricare ad altro traino ed io continuai il mio cammino. Giunto sulla Serra, mentre ero fermo intento a regolare il freno perché cominciava la discesa, un mulattiere con la bestia carica di patate, che ritengo sia di Rovito o di Motta, con le basette e sulla sessantina, con un berretto in testa, mi informò che al Fago era morto lungo la strada un individuo che non sapeva chi fosse, anzi domandava del fatto a me ed agli altri presenti, cioè mio cognato Angelo Scarnati ed altri trainieri arrivati prima di me.
– Come spiegate che il traino di Scarnati ha proseguito il cammino senza guida?
– Non so spiegare come la carretta di Biagio Scarnati, senza di costui, abbia proseguito il cammino e sia comparsa alla voltata delle barracche, quasi contemporaneamente al mio traino o pochi passi dopo, come Vostra Signoria mi afferma; certo è che io non l’ho visto, dico meglio non vi ho badato perché ero intento a ragionare col Campanaro e con quello della Motta, fin da oltre un chilometro prima della baracca di Carmine Barone. Dopo di me non ho visto che venissero altri traini, tranne quello dello Scarnati. Non mi pare che abbia incontrato altri traini o pedoni che venissero in senso inverso a principiare dalla traversa di Percacciante fino al Fago del Soldato.
– In quali rapporti eravate con Scarnati?
– Con Biagio Scarnati io ero in buone relazioni d’amicizia e non avevo, quindi, alcuna ragione di ucciderlo. Con lui non ho avuto mai questione, né quel giorno, né nei giorni avanti. Vero è che lo Scarnati acquistò un pezzetto di terreno attiguo alla mia casa da Tommaso Amantea, però circa questa compra con lo Scarnati non ho avuto mai alcuna questione. L’anno scorso, dopo l’acquisto, pregai lo Scarnati perché mi cedesse il pezzo di terra, ma poiché egli non volle accondiscendere alla richiesta, fra noi non si parlò più della cosa, né io serbai rancore, che anzi continuai a parlarlo.
– A noi però risulta che qualche tempo fa avete litigato arrivando anche alle mani… addirittura ci sono dei testimoni che giurano di avervi visto girare armato per minacciare Scarnati e altri che dicono di sapere che ultimamente ne avete comprata una per quaranta lire…
– Non è vero che qualche tempo fa io e lo Scarnati venimmo alle mani e che accorse molta gente a separarci. Non è vero neanche che io abbia minacciato lo Scarnati con le parole: “o io o lui dobbiamo restare sulla terra”, né che dicessi ad alcuno, mostrando una rivoltella: “con questa debbo sparare il cuore di Biagio Torchiaro”, mi meraviglio, quindi, che vi siano delle persone che dicono di avermi visto con la rivoltella.
– Quindi avete una rivoltella… il porto d’armi l’avete?
– Non ho permesso di porto di rivoltella e non sono andato mai armato fuori della mia abitazione; Io non ho mai posseduto una rivoltella, nemmeno in casa ed è falso che ne abbia acquistato una nuova di recente per lire quaranta.
– Confessate, avete ucciso voi Biagio Scarnati?
– No
Dopo tre giorni, il 30 settembre, Alfonso Castiglione viene interrogato di nuovo, ma questa volta le contestazioni sono nuove e precise:
– Confermate di non avere mai posseduto una rivoltella con le relative munizioni?
– Lo confermo.
– Ieri abbiamo trovato alcuni proiettili a casa vostra, durante la perquisizione…
– Io non so come questi proiettili si trovano in casa mia…
– Sono questi, li riconoscete? – gli contesta il Pretore, mostrandogli una scatola quasi piena di proiettili per rivoltella.
– Riconosco i proiettili e le scatole mostratemi come cose a me appartenenti, ma tali oggetti erano di mio suocero, il quale da cinque anni è emigrato in America e, partendo, li ha lasciati in casa e per me perfettamente inutili perché senza rivoltella in cui li potessi adattare.
– Ci risulta, invece, che avete acquistato da Gennaro Gallo, a Cosenza, una rivoltella e che l’avete pagata 29 lire…
– Non è vero che io abbia mai acquistato in Cosenza dall’armaiuolo Gallo Gennaro una rivoltella per lire 29…
– E questa cos’è? – gli contesta ancora il Pretore, mostrandogli una ricevuta che attesta l’acquisto.
– Io non mi ricordo… – Castiglione, a questo punto, si prende il viso tra le mani, sta qualche secondo in silenzio, poi tira un lungo respiro e dice – Finalmente veggo che non posso più tacere, che la miglior cosa è di dire la completa verità. Effettivamente sono stato io che ho ucciso, con tre colpi di rivoltella, Biagio Scarnati, ma ciò ho fatto in seguito alle sue provocazioni. Difatti prima ch’io lo colpissi cominciammo fra di noi a questionare per il suolo ch’egli aveva acquistato vicino alla mia casa. Prima ancora ch’egli facesse il contratto col Notaio, più volte lo avevo pregato che cedesse a me quel pezzetto di terreno, giacché egli non aveva che farsene ed a me recava una grande utilità il possederlo. Egli si mostrava disposto ad accontentarmi, ma la moglie era più ostinata e lo dissuadeva. Dopo fatto il contratto, parecchie volte feci pregare lo Scarnati per cedermi il terreno, dichiarandomi pronto a rivalerlo di tutte le spese subite ed egli si mostrava sempre disposto bene, ma la moglie interveniva a dissuaderlo. Il 25 corrente sotto il Fago del Soldato, trovatici io e lo Scarnati vicini, mentre coi traini ritornavamo dalla Sila, io gli chiesi spiegazione del perché si fosse lamentato con mia madre che io volessi ammazzarlo e del perché si fosse recato ad informare di ciò le autorità. Egli mi rispose: “Si, sono andato a denunziare questa circostanza e se te la vuoi fare con le mani, scendi dal traino”. Così si avvicinò alle stanghe del mio traino, giacché egli camminava a piedi ed io ero sul traino. Appena mi fu vicino mi afferrò per il calzone vicino al piede per tirarmi a terra; io, però, non mi sentivo la forza di avere vittoria con le mani e, impugnata la rivoltella che avevo al fianco, vi esplosi un colpo dall’alto in basso, quasi verticalmente contro il Torchiaro, colpendolo al petto. Dopo questo primo colpo il Torchiaro si allontanò verso il suo traino ed io continuai a tirargli altri due colpi, quando già egli mi voltava le spalle. Appena vidi il Torchiaro cadere nella conetta mi avviai verso il Fago, buttando la rivoltella a monte della strada sotto un pinotto, nel punto stesso ove il fatto avvenne.
– Noi riteniamo che abbiate premeditato il delitto. Spiegate quando e come avete deciso di uccidere Scarnati.
– Quando il figliuolo del Campanaro, ch’era dietro di me, cominciò a forzare il passo ai suoi animali, io lo lasciai passare avanti, senza pensare menomamente al delitto, anzi stavo pacificamente mangiando un pezzo di pane; non avevo quindi nessuna intenzione preordinata a commettere quello che sventuratamente commisi.
– Ha assistito qualcuno al fatto?
– Al fatto non fu presente alcuno.
Purtroppo per Castiglione gli inquirenti la pensano diversamente e ritengono che la confessione, in quei termini, sia servita per mettere avanti una provocazione da parte dell’ucciso, provocazione che risultò smentita genericamente, giacché il povero Scarnati fu ucciso mentre pacificamente mangiava, come dimostra la materia alimentare, appena masticata, rinvenuta nell’esofago. Il Castiglione dovette evidentemente premeditare l’omicidio, giacché egli quel giorno artificiosamente aveva fatto in modo, facendo passare avanti il traino del Campanaro, di trovarsi in vicinanza dello Scarnati ad una curva della strada stessa, dove difficilmente poteva essere visto e udito. Inoltre risulta ch’egli più volte aveva provocato lo Scarnati per trascinarlo ad una lite.
Se esistono seri dubbi sulla versione dei fatti fornita da Castiglione, un elemento di verità c’è sicuramente: il 3 ottobre 1913, nel posto indicato durante l’interrogatorio, due contadini, Cataldo Campanaro e Alfonso Granata, rinvengono l’arma omicida, dal Castiglione buttata a monte della strada dopo breve distanza dal luogo ove il fatto fu consumato e la consegnano al Pretore: si tratta di una rivoltella di corta misura di acciaio nichelato con manico di osso nero zigrinato e rinchiuso nel fodero. Contiene sei bossoli, 4 esplosi e due da esplodere. Porta tracce di ruggine formatasi di recente.
– Ci siamo recati sul posto del delitto stamattina alle ore quattro, mandati espressamente sul luogo dal cognato dell’ucciso, signor Francesco Campanaro, a ricercare l’arma in questione – dice Granata.
– L’arma fu da noi rinvenuta ai piedi di un pino, in mezzo alle frasche a tre o quattro metri circa dal luogo ove fu rinvenuto il cadavere dello Scarnati – aggiunge Campanaro.
Con questo elemento il cerchio si chiude, anche se il 2 gennaio 1914 Castiglione tenta l’ultima carta per alleggerire la propria posizione. Chiede di essere interrogato e dice:
– Ho chiesto di essere di nuovo interrogato dalla Giustizia perché voglio dichiarare ciò che non ho detto nel mio interrogatorio al Pretore di Spezzano Grande, che io quando uccisi Scarnati Biagio, nella Sila, nello scorso settembre, mi trovavo ubbriaco e che per questo mio stato io ho commesso il delitto. Confermo il mio interrogatorio del 30 settembre nel quale narrai come il fatto si era svolto, e che ricordavo benissimo come si sono svolti i particolari del doloroso avvenimento. Ero brillo ma non assolutamente ubbriaco, tanto che ricordo bene le circostanze che mi determinarono ad uccidere lo Scarnati. Non debbo dire altro, mi rimetto all’interrogatorio sopra ricordato e nomino miei difensori di fiducia Pietro Mancini e Tommaso Corigliano.
Non serve: Alfonso Castiglione viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.
Durante il dibattimento Pietro Mancini e Tommaso Corigliano non solo riescono a convincere la giuria che il loro assistito non premeditò il delitto, ma anche che era alquanto brillo e lo salvano dall’ergastolo. Così, modificato il capo di imputazione in omicidio volontario, Alfonso Castiglione, concessa l’attenuante dell’ubriachezza volontaria, viene condannato ad anni 15 di reclusione. Non solo: il reato ed i precedenti penali dell’imputato sono compatibili con l’applicazione del Regio Decreto di indulto del 27 maggio 1915 (emanato in occasione dell’ingresso in guerra dell’Italia) e gli viene condonato un anno di pena.
È l’11 gennaio 1917.
Il 16 aprile successivo, la Suprema Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’imputato.[1]
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[1] ASCS, Processi Penali.