NON ADATTA A DESTARE APPETITI SESSUALI

La mattina del 12 maggio 1938 sembra una mattina tranquilla in casa di Vincenzo Di Santo a Belvedere Marittimo. Almeno finché Vincenzo non vede sua moglie Filomena Cairo che sembra sbirciare la strada da dietro la finestra

– Che cazzo guardi? Aspetti il tuo ganzo? – le dice mentre i suoi occhi cominciano a diventare due fessure dalle quali spuntano bagliori di braci ardenti e le narici sbuffano come quelle di un toro infuriato

– Ma niente, quale ganzo… mi era sembrato di vedere la gallina bianca e rossa…

– Adesso te la do io la gallina, puttana!

Con un balzo le è addosso, la prende per i capelli e la scaraventa a terra a faccia in giù; poi la blocca premendole un ginocchio sul collo e, con calma, tira fuori dalla tasca un coltello a serramanico, lo apre mentre Filomena si dibatte inutilmente con tutte le poche forze che ha, perché  non respira con quel ginocchio che le preme sul collo. Vincenzo, con la mano libera, prende di nuovo la moglie per i capelli e le tiene la testa schiacciata a terra, toglie il ginocchio dal collo e lo sposta sulle spalle. Adesso davanti a sé ha il collo di Filomena libero da impacci e, come si fa con i maiali, affonda la lama nella fossetta sopra la clavicola.

Il sangue zampilla dappertutto mentre Filomena emette alcuni gorgoglii per il sangue che le inonda la gola e la soffoca. Per un attimo è come attraversata da una scossa elettrica, poi resta immobile.

Vincenzo, pieno di sangue dalla testa ai piedi, sembra un demonio che ride orribilmente, salta e urla, poi all’improvviso si calma e guarda Filomena immersa nel proprio sangue. Adesso piange e si batte il viso. Si avvicina alla finestra, la spalanca, sale sul davanzale e si butta giù.

Poco più tardi arriva uno degli otto figli della coppia e trova l’orrendo spettacolo della mamma sgozzata. Suo padre non c’è, ma da fuori della finestra arrivano dei lamenti. Gli sembra la voce di suo padre. Si avvicina con cautela e si affaccia: si, è lui steso a terra tre metri sotto. È solo lievemente ferito.

Ero geloso, mia moglie mi tradiva con nostro genero Giovanni

Agli inquirenti il movente risulta del tutto infondato perché Filomena era conosciuta da tutti come una donna onestissima, madre ultracinquantenne di otto figli e non adatta per la sua inoltrata età e la salute malferma a destare comunque appetiti sessuali. Bisogna scavare più a fondo.

Dopo lunghe e laboriose indagini, gli inquirenti scoprono che Vincenzo Di Santo appartiene a famiglia in cui la demenza aveva fatto, purtroppo, le sue vittime: il padre di lui, tra l’altro, aveva avuto le stesse manifestazioni di morbosa gelosia. Ma questo non serve per risolvere il mistero del movente.

Rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di uxoricidio premeditato, Di Santo resta fedele alla sua prima dichiarazione: ha ammazzato la moglie perché lo tradiva, punto e basta.

Ma questa ostinazione, associata all’anamnesi familiare e ad un lungo e sconnesso memoriale scritto in carcere, fa sorgere alla Corte il sospetto che l’imputato soffra di disturbi psichiatrici e perciò, il 9 marzo 1939, ne dispone l’internamento nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino per gli accertamenti del caso.

Di Santo, nel sopprimere la moglie innocente, ha obbedito soltanto al delirio che lo travagliava, sintomo cardinale della psicosi paranoide per cui sono sorte nella sua mente malata le infondate convinzioni nei riguardi dell’infedeltà della povera vittima. Il delitto è dovuto soltanto a movente patologico, avendo il Di Santo agito in uno stato di psicosi paranoide che era tale da escludere in lui la capacità d’intendere e di volere. In dipendenza di tale forma d’infermità mentale, il Di Santo deve ritenersi socialmente pericoloso.

Il giudizio dei periti non lascia adito ad alcun dubbio ed il 21 ottobre 1939 si può tornare in udienza.

Acquisito il parere specialistico, la Corte osserva che già attraverso l’istruttoria si coglievano non dubbi elementi sullo stato d’infermità mentale del soggetto poiché, accertata la condotta esemplare della povera ultracinquantenne Filomena Cairo per l’unanime consenso dei figli, dei Carabinieri, delle persone più autorevoli del luogo e stabiliti i precedenti famigliari del Di Santo, appariva chiaro che il delitto, fondato su causale inesistente, fosse conseguenza di una grave forma di squilibrio mentale. L’autorità della perizia psichiatrica, eseguita per eliminare ogni incertezza, avvalora in pieno le risultanze delle prove acquisite.

Si tratta di un documento che s’impone per la serietà e profondità delle indagini e per la sagacia delle osservazioni, tanto da essere accettato dal Pubblico Ministero e la Corte, in sua giustizia, ritiene che non vi siano ragioni apprezzabili per superarne le conclusioni. Pertanto, ai fini del tempo minimo di legge da fissare per la misura di sicurezza, devesi osservare che la circostanza aggravante della premeditazione va esclusa, essendo incompatibile col vizio totale di mente. Poiché, perciò, il delitto non sarebbe più punibile con la pena dell’ergastolo, il ricovero in un manicomio giudiziario va ordinato per un termine non inferiore a cinque anni.

La Corte assolve Di Santo Vincenzo dalla imputazione a lui ascritta perché nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere ed ordina il ricovero di Di Santo Vincenzo in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a cinque anni.

È il 21 ottobre 1939.[1]

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.