NELL’AMBIENTE DELLA MAFIA SICILIANA

Montelepre, è la sera del 25 maggio 1944. Giuseppe Terranova sta tornando a casa, quando dal buio parte una raffica di mitra che lo taglia quasi in due, uccidendolo all’istante. Le indagini, seppure molto lunghe e approfondite, danno esito del tutto infruttuoso, tanto che, con sentenza 16 ottobre 1946, il Giudice Istruttore di Palermo dichiara non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato.

Montelepre, è la sera del 26 dicembre 1944, esattamente sette mesi dopo l’omicidio di Giuseppe Terranova. Salvatore Abbate, il ricevitore postale, nonché fratello uterino dell’assassinato, è ancora in ufficio insieme all’impiegato Giacomo Emiliani,  al commesso Vincenzo Mannino ed a Giacomo Leone, che deve riscuotere il prezzo di un bidone di olio, fornito la stessa mattina al ricevitore postale.

– Per favore andatemi a chiamare Totò Iacona, gli devo chiedere un favore – dice Abbate rivolto a Mannino, che esegue prontamente.

Quando Iacona arriva, Abbate gli chiede di aprire la sede della locale cooperativa, di cui Iacona è il gestore, per consentire a Mannino di portare il bidone di olio e pesarlo per determinare il prezzo esatto.

Iacona e Mannino escono insieme e percorrono i sette – otto metri che separano l’ufficio postale dalla cooperativa, aprono ed entrano. Dopo un paio di minuti escono Abbate, Leone ed Emiliani, che si attarda per chiudere l’ufficio, mentre gli altri due si incamminano.

Cinque metri? Sei metri? Non importano i metri che Abbate ha fatto. Ciò che importa è che non arriverà mai dentro la sede della cooperativa perché dal buio parte una raffica di mitra che lo uccide all’istante.

Arrivati sul posto, i Carabinieri accertano che l’unico ad aver visto come è stato consumato il delitto è Giacomo Leone

Ho intravisto lo sparatore, ma non l’ho riconosciuto – dichiara.

Ma i Carabinieri sospettano che sia proprio lui l’assassino, sia perché le altre persone presenti o vicine non avevano avvertito la presenza, prima, e la fuga di alcuno dopo la sparatoria, sia perché Leone indossa uno sciallone che avrebbe potuto occultare un’arma da fuoco e lo pongono in stato di fermo in attesa di ulteriori accertamenti.

Dopo qualche giorno Lenone viene interrogato di nuovo e dichiara

Ho sentito che uno sconosciuto aveva rivolto a Iacona le seguenti parole “ancora qui mi fai aspettare?”, nel momento in cui questi stava uscendo dall’ufficio postale

– Uno sconosciuto, eh? – gli fa il Maresciallo

– Per la verità ho perfettamente riconosciuto lo sparatore

– E chi sarebbe?

– Giuseppe Badalamenti

– Ah! – fa il Maresciallo, accompagnando l’esclamazione ad un largo movimento del braccio destro

La sorpresa del Maresciallo è giustificata perché Giuseppe Badalamenti non è uno qualsiasi: intanto è nella lista dei latitanti, poi è ritenuto un pericoloso pregiudicato e, quel che conta di più, è cugino di primo grado del bandito Salvatore Giuliano.

Dopo questa rivelazione, i Carabinieri si convincono che il delitto deve trovare la sua causale in un fatto di mafia e sia stato materialmente eseguito da Giuseppe Badalamenti per istigazione e col concorso di altre persone, così il 20 gennaio 1945 fanno scattare un’operazione, denunciando Badalamenti ed altre undici persone di Montelepre (tra le quali Giacomo Leone, nda), per rispondere di concorso nell’omicidio di Abbate e di associazione per delinquere.

Ma si sa come vanno queste cose: un conto è raccogliere indizi, un altro è convincere i giudici che questi sono almeno sufficienti per arrivare ad un pubblico dibattimento. Nonostante ciò, il 25 settembre 1945, il Giudice Istruttore di Palermo, su conformi richieste del Pubblico Ministero, ordina il rinvio a giudizio di Giuseppe Badalamenti per rispondere dei reati ascrittigli e dichiara non doversi procedere contro tutti gli altri imputati per non aver commesso i fatti loro addebitati.

Con la banda di Salvatore Giuliano in piena attività, lo svolgimento del processo non può di certo svolgersi con serenità né a Palermo e né in Sicilia, così tutto viene spostato a Cosenza e la Corte lo sbriga nella sola udienza dell’11 novembre 1947, che si apre con la ritrattazione di Giacomo Leone.

La Corte osserva che l’accusa contro l’imputato è basata soltanto sulla dichiarazione del Leone di avere perfettamente riconosciuto l’imputato come la persona che esplose contro l’Abbate quei colpi di fucile mitragliatore che causarono l’immediata morte dello stesso. Ora, questa accusa, ancorché non confermata da altre risultanze ed ancorché poscia ritrattata, non cessa di avere il suo grande peso come elemento a carico di Badalamenti, considerato che il delitto, per i rapporti di stretta parentela correnti tra Abbate e Terranova, appare collegato al delitto precedente onde, anche per la mancanza di una conosciuta e congrua causale, deve classificarsi fra i delitti a catena, comuni nell’ambiente della mafia siciliana e la cui causale deve ricercarsi in ragioni di vendetta o di gelosia di mestiere che anche gli offesi tendono a non fare risultare. La Corte è certa che si tratti di un delitto di stampo mafioso soprattutto per la innaturale assenza nel processo della parte lesa, assenza che non pare determinata da ragioni di indole economica. E nel ragionamento della Corte non deve passare inosservato che Giuseppe Badalamenti non è un qualsiasi ignoto pastore di Montelepre, ma è stretto congiunto del bandito Giuliano, sicché è da escludere che il Leone abbia potuto farne il nome per leggerezza, quando è fin troppo nota nell’ambiente la facilità e la ferità con cui Giuliano Salvatore punisce chiunque osi parlare di lui o dei suoi gregari all’Autorità, sicché l’omertà, quando non è costituita dalla volontaria osservanza di una norma di condotta comune ai delinquenti, deve considerarsi piuttosto che come un difetto del generoso popolo siciliano, come una misura di elementare difesa della propria vita e di questo la Corte se ne è già resa conto nei precedenti processi trasferiti dalla Sicilia a Cosenza a carico di altri mafiosi.

Nonostante tutto ciò, la Corte però afferma che la sola accusa di Leone non può bastare a dare la certezza che autore dell’omicidio sia stato effettivamente Giuseppe Badalamenti.

E spiega: la dichiarazione del Leone è venuta quando questi si trovava da oltre un mese in arresto perché sospetto di complicità nell’omicidio e questo particolare non può che scuotere l’importanza della dichiarazione in parola. Permane per sempre il dubbio che il Leone abbia potuto architettare un’accusa calunniosa e dirigerla verso persona che poteva essere ritenuta capace del fatto, al fine di allontanare ad ogni costo qualsiasi dubbio nei suoi confronti e di conseguire il suo proscioglimento e la sua liberazione. E se ciò non vale a distruggere l’efficacia obiettiva della testimonianza contro Badalamenti, vale a smontare l’attendibilità del teste e già imputato Leone, poiché non vi può essere garanzia di attendibilità ove sussista palese interesse del teste ad accreditare una tesi anziché un’altra.

Un teste davvero sui generis, visto che fin dai primi momenti dopo il fatto, sia i Carabinieri che i testimoni presenti sul posto lo indicano come possibile autore del delitto con un’arma che avrebbe occultato sotto lo scialle di cui era coperto. Infine, la ritrattazione fatta in udienza da Leone, consolida quel dubbio che induce la Corte all’assoluzione dell’imputato con formula dubitativa, nell’assenza assoluta di qualsiasi altro elemento di prova.[1]

Ai dubbi della Corte sulla colpevolezza di Giuseppe Badalamenti e sulla reale attendibilità di Giacomo Leone si aggiunge il nostro: Giacomo Leone aveva o no paura della vendetta di Salvatore Giuliano?

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.