TRA GENTE DI MALA VITA

Sono circa le 21,00 del 15 novembre 1937 ed a Cosenza pioviggina a tratti. Un uomo abbastanza brillo, l’accalappiacani comunale Antonio Capitano, sta attraversando il ponte sul Crati che immette nel rione Massa. Un altro uomo è fermo allo sbocco del ponte e sembra che lo stia aspettando perché non appena Capitano gli è vicino lo ferma e gli dice a muso duro:

Quando bevi un bicchiere di vino diventi uno strunzo e sono capace di romperti il culo!

Miserabile! – l’ubriaco non se lo fa ripetere due volte e gli molla un paio di manummerse, manrovesci, così ne nasce una furibonda rissa, durante la quale il secondo uomo, per non essere sopraffatto dalla reazione inaspettata di Capitano, gli morde con ferocia due dita della mano destra e per poco non gliele stacca. Incredibilmente, dalla bocca di Totonno Capitano non esce nemmeno un grido di dolore ed il secondo uomo, impaurito da ciò e dallo sguardo animalesco dell’avversario, se la da a gambe levate.

A mia rumpi ‘u culu? Mmerda! Viani ccà si tiani curaggiu! – gli urla dietro, incurante del sangue che gli cola abbondante dalle dita quasi tranciate. Poi si appoggia al parapetto, si sfila la cinghia di cotone e se la stringe intorno all’avambraccio per cercare di fermare l’emorragia, quindi si mette in attesa, certo che l’avversario dovrà per forza passargli davanti, se vorrà tornare a casa. In questo frattempo passano sul ponte altri due uomini che notano lo strano borbottio di Capitano ed il sangue che continua a gocciolargli dalla mano

– Totò, ch’è successo?

Fissarie

Totò, jamu ca t’accumpagnamu aru spitale.

Noni, jativinni!

Non c’è niente da fare, da lì non intende muoversi ed i due uomini sono costretti a desistere e ad andarsene.

Intanto il secondo uomo, Domenico Castiglia, ha guardato tutta la scena nascosto dietro il mulino di Leonetti ed è preoccupato, così decide di andare a cercare suo fratello Ercole per farsi aiutare a dare una lezione a Capitano, visto che lui non ne ha la forza e nemmeno il coraggio. Lo trova vicino alla stazione ferroviaria di Cosenza Casali sulla sua carrozzella mentre sta partendo per accompagnare un cliente.

– Aspetta! Ti devo dire una parola – lo blocca. Ercole tira le redini, chiede scusa al cliente e ascolta ciò che da dirgli il fratello.

Ch’è successu?

– Poco fa stavo passando sul ponte e mi si è avvicinato Totonno Capitano che mi ha rimproverato di non saper trattare l’amicizia perché mi ero allontanato da lui. Poi mi ha chiamato miserabile, onde dalle parole siamo scesi a vie di fatto e m’ha misu ‘e manu ara faccia! Quando ho visto che aveva un coltello sono scappato…

Beh, le cose non sono proprio andate così, ma se vuole convincere Ercole a dare una lezione a Capitano non può dire che è stato lui a cominciare!

Ercole, il capo della malavita della Massa, non può tollerare che qualcuno dia del miserabile a suo fratello, così dice al cliente che non può accompagnarlo, poi con Domenico va a chiudere la carrozzella nella stalla di un amico e adesso sono pronti per dare una lezione a Capitano.

Quando i fratelli Castiglia passano dietro al mulino di Leonetti scorgono Capitano ancora in attesa sul ponte, sebbene siano passate due ore. Bene, non perderanno nemmeno tempo a cercarlo nelle cantine o a casa.

Totonno Capitano è appoggiato al parapetto del ponte. Gli effetti del vino sono ormai svaniti, ma la testa continua a girargli per il sangue che ha perso, così non si accorge che i fratelli Castiglia sono ad un passo da lui e, soprattutto, che Ercole ha in mano un coltello.

Mmerda! – gli sussurra Ercole mentre gli pianta il coltello nello stomaco.

Uh! – è il il suono soffocato che esce dalla bocca di Capitano, come quello fa un pallone quando si buca. Poi si piega in due mentre arriva la seconda coltellata che, proprio per il fatto che si è piegato su sé stesso, lo colpisce all’orecchio destro e quasi glielo trancia. Boccheggiando cade a terra, mentre i Castiglia si allontanano indisturbati.

Totonno Capitano si rialza e un po’ trascinandosi, un po’ aiutato da qualche passante, arriva in ospedale dove, mentre i medici lo visitano, viene interrogato dalla guardia di servizio Antonio Spinelli:

Mi hanno ferito due fratelli

– Chi sono?

– No, tranquillo brigadiè, m’ha viju sulu appena minni vaju ‘i ccà – se la vedrà da solo, è la legge della malavita quella di non parlare e vendicarsi.

Le sue condizioni sono preoccupanti e i medici decidono di sottoporlo immediatamente ad un intervento chirurgico per cercare di porre rimedio ai danni certamente causati dalla profondissima ferita all’addome. Quando si risveglia dall’anestesia, forse consapevole che potrebbe non essere mai dimesso dall’ospedale, fa chiamare l’agente Spinelli e con un filo di voce gli rivela:

– Brigadiè… sono stati i Castiglia, miei vicini di casa e quello che mi ha ferito più gravemente è stato Ercole Silvio Castiglia, ‘u cucchiere… il cocchiere…

Poi racconta come si sono svolti i fatti e sottolinea che alla fine entrambi, senza alcuna discussione, lo ferirono.

Per Spinelli la confessione di Capitano è solo una conferma di ciò che ha già scoperto durante la notte andando a fare un giro alla Massa e rinvenendo sul ponte un berretto, la cinghia di cotone ed uno strumento a foggia di pugnale che però col delitto non c’entra nulla. Ma soprattutto trova un testimone oculare, Salvatore Piromallo, che gli racconta la scena del delitto così come gliel’ha raccontata Capitano. È lui che lo ha soccorso per primo. Spinelli sa perfettamente che alla Massa comanda Ercole Castiglia e che questi ha un fratello, quindi gli è bastato fare due più due per capire che gli aggressori sono stati loro. Decide di fare una visita notturna a casa dei fratelli Castiglia. Bussa ma non gli viene aperto che solo dopo un lungo bussare, previa minaccia di sfondare la porta ed arrivo di rinforzi.

In casa sembra esserci solo Ercole e l’agente Spinelli perquisisce minuziosamente la casa senza trovare armi di sorta, poi si accorge che l’unico armadio della casa è stato spostato perché si notano i segni per terra. Adesso è messo ad angolo tra due pareti, si inginocchia e guarda sotto l’armadio, poi si rialza e sorride soddisfatto mentre bussa sul legno:

– Domenico, lo so che sei lì, esci senza farmi spostare il mobile ché sono stanco e poi è peggio per te…

L’armadio si sposta come per magia e appare Domenico Castiglia con gli occhi bassi come un bambino sorpreso a rubare le caramelle. Mogi mogi, i due seguono l’agente in Questura.

Domenico Castiglia ripete all’agente Spinelli le stesse cose che ha detto al fratello per convincerlo a “dare una lezione” a Totonno Capitano, poi aggiunge:

Durante la fuga mi imbattei in mio fratello Ercole che guidava la sua carrozza avente a bordo un passeggero e gli raccontai degli schiaffi avuti onde questi, fatto scendere il passeggero e lasciata la vettura nella rimessa, si unì a me e mi accompagnò a casa ma, strada facendo, incontrammo Capitano e gli chiese spiegazioni del fatto precedente. Capitano mostrò a mio fratello un temperino, dicendo che con esso mi aveva minacciato, ma mio fratello si accorse che nel dir ciò aveva nell’altra mano un coltello ed avventatosi glielo strappò e con lo stesso, dopo una colluttazione avvenuta, ferì Totonno al fianco e all’orecchio. Dopo di ciò mi ritirai a casa ove mi seguì anche mio fratello. – e continua – Faccio presente che Capitano la sera precedente mi fece la stessa scenata in presenza di tal Guerino, abitante sotto la mia casa

Ovviamente dimentica di dire anche a Spinelli che ha quasi staccato due dita a Capitano.

Poi viene interrogato Ercole e la sua dichiarazione contrasta con quella di suo fratello per quanto riguarda la dinamica dell’aggressione:

Ritornai insieme con mio fratello alla Massa ove, visto Capitano lo rimproverai di avere schiaffeggiato mio fratello ed essendomi accorto che era armato di coltello lo disarmai, rimanendo nella colluttazione escoriato alla gamba destra e ferito alle dita indice e medio sinistro, e con la stessa arma lo colpii al fianco ed all’orecchio destro

Quindi, per Ercole, Capitano non aveva un temperino ed un coltello, ma soltanto un coltello. E queste contraddizioni in genere pesano. Vedremo.

Totonno Capitano, dopo essersi risvegliato dall’anestesia ed aver parlato con l’agente Spinelli, verso le 11,00 della stessa mattina muore per collasso polmonare conseguente allo schoc addominale.

Coincidenza strana, appena si sparge la notizia della morte dell’accalappiacani si presentano in Questura due donne, la madre e la moglie di Domenico Castiglia, che esibiscono un coltello a serramanico con punta acuminata di genere proibito, dichiarando che il coltello era stato buttato sul tavolo, ove esse lo avean trovato, da uno dei fratelli appena rientrati a casa dopo la rissa e siccome non appartiene a nessuno dei due, le donne ritengono che debba essere di pertinenza di Capitano.

Ma in tutto ciò è facile vederci l’artificio, non solo perché il coltello non fu trovato dagli agenti né sul tavolo, né altrove, ma anche perché le esibitrici danno due versioni diverse sulle modalità in cui hanno trovato l’arma. La moglie di Domenico dice che il coltello fu buttato chiuso sul tavolo, la madre, invece, sostiene di averlo rinvenuto aperto.

Contro tanta improntitudine dei Castiglia (maschi e femmine) insorge tutta la famiglia dell’ucciso che esclude categoricamente il possesso di quel coltello. E questa circostanza viene addirittura smentita anche dai testimoni citati dalla difesa dei Castiglia, uno dei quali, addirittura, dice di essere stato pregato di venire a deporre che Totonno Capitano possedeva quel coltello!

Concluse le indagini, il 5 marzo 1937 i fratelli Castiglia vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per concorso in omicidio e porto abusivo di coltello di genere proibito. Il dibattimento si tiene dopo più di un anno nelle udienze dal 9 all’11 giugno 1938 e subito i problemi per Ercole Castiglia si fanno più seri. Infatti il Procuratore Generale, nel confermare di sostenere le accuse per le quali i fratelli Castiglia sono a processo, esibisce un nuovo certificato penale di Ercole dal quale risulta che nel 1926 riportò una condanna per lesioni con arma e quindi chiede che venga contestata all’imputato l’aggravante della recidiva specifica, richiesta che la Corte accoglie.

La difesa, dal canto suo, sostiene che Domenico è innocente per non aver partecipato all’accoltellamento ed Ercole non è punibile per aver agito in stato di legittima difesa.

La Corte, però, smonta subito le tesi difensive e usa parole durissime nei confronti di Domenico, proprio quello che sembrava il meno responsabile:

Castiglia Domenico è stato la causa volontaria e cosciente dell’accoltellamento compiuto dal fratello ai danni di Antonio Capitano per averlo, con caparbia, spinto al delitto, al cui scopo esagerò i particolari della patita aggressione e tacque i suoi torti onde, studiatamente, volle apparire vittima dolorosa ed incolpevole agli occhi del fratello. Egli è l’ombra nell’ombra, è stato l’anima persa che ha trascinato il fratello alla perdizione pur di avere la sadica gioia di vendicarsi degli schiaffi meritatamente ricevuti e della umiliazione di aver dovuto fuggire di fronte a Capitano che, sebbene ubriaco, erasi mostrato tuttavia più animoso. Egli diede causa alla prima quistione; determinò l’ira del Capitano, il quale lo afferrò per la faccia ed egli, cogliendone il destro, gli morse la mano e si guardò bene dal rendere edotto il fratello che, se pure avea ricevuto qualche schiaffo, lo avea barattato con un morso di non lieve entità, onde lo schiaffeggiatore ne aveva avuto la peggio. È egli che, per vendicarsi, indica al fratello dove trovavasi il Capitano e non è esatto, come vogliono far credere, che si imbatterono in lui casualmente. Domenico Castiglia mente a tutti su tutto, anche al fratello quando lo aizza contro Capitano. Il suo comportamento falso e bugiardo non conferisce certamente credibilità alla sua protesta di innocenza. Comunque, non è nel solo suo contegno che vien poggiato il convincimento della sua responsabilità poiché contro di lui si erge gigante ed inequivocabile l’accusa della vittima e la testimonianza di Salvatore Piromallo. Ma, continua la Corte, devesi concedergli l’attenuante dello stato d’ira pel fatto ingiusto della vittima. Non solo: pur non potendosi dubitare che egli, per l’onta di essere stato schiaffeggiato e di aver dovuto perfino fuggire, odiasse l’avversario a morte, tuttavia devesi concedergli anche la diminuente della minima importanza nell’esecuzione del delitto, come la stessa vittima, prima che chiudesse gli occhi alla luce, volle conclamare.

Le parole che la Corte usa per analizzare la posizione di Ercole Silvio Castiglia sono esplicative delle dinamiche della malavita, l’ambiente familiare a tutti e tre i protagonisti di questo brutto affare.

Ercole Castiglia non agì in stato di legittima difesa perché nessun pericolo di offesa ingiusta e molto meno attuale egli correva nel momento in cui, presuntuosamente, andava a chieder conto al Capitano degli schiaffi dati al fratello. Poteva benissimo fare a meno di chieder quel conto, tanto più che una tale richiesta, fra gente di mala vita, vale quanto voler saldare il conto in quel modo che è proprio della mala vita e cioè a colpi di coltello. In ogni caso la richiesta di spiegazioni non ci fu nemmeno, perché il povero Capitano fu improvvisamente e fulmineamente aggredito, prima ancora che potesse rendere esatto conto della presenza e delle decisioni dei suoi avversari, come fa credere che il mortale ferimento avvenne senza che fosse preceduto da alcun alterco, grido o vocio, come ha testimoniato Piromallo. Peraltro non è da trascurare che il delitto è avvenuto tra gente di mala vita, cui appartiene il cocchiere Castiglia Ercole, e fra quella gente è usanza, quando si vuol far salva la vita dell’avversario, mirare alla faccia e quando, viceversa, la lotta ha da esser mortale, aggredire la pancia, più che il petto, potendo nel petto la punta del coltello trovar nelle costole un ostacolo alla penetrazione. Tutti, anche i più profani, conoscono che le lesioni allo stomaco sono spesse volte mortali per una serie di cause facilmente prevedibili (setticemia, paralisi, emorragie interne, intempestivo intervento chirurgico). Ecco spiegato perché Capitano fu accoltellato all’addome. Ma anche per Ercole c’è una buona notizia: la Corte gli riconosce l’attenuante di avere agito per la offesa cagionata dalla vittima al di lui fratello e nello stato d’ira.

Accertate le singole responsabilità, è tempo di emettere la sentenza.

Per quanto riguarda Domenico Castiglia, considerato che egli è di buoni precedenti e considerate le attenuanti concesse, la pena viene fissata in anni 9 e mesi 4 di reclusione,oltre le pene accessorie.

Per quanto riguarda Ercole Silvio Castiglia, considerata l’aggravante della recidiva e l’attenuante dello stato d’ira, la pena viene fissata in anni 18 di reclusione, più 15 giorni di arresti per il porto abusivo di coltello di genere vietato, oltre le pene accessorie.

Entrambi dovranno risarcire il danno e pagare le spese.

È l’11 giugno 1938.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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