MI COSTA DUE CARTUCCE

Michelangelo Bonavita di Spezzano Sila possiede un fondicello dotale, sito in contrada Gaudiente, distante dal paese qualche chilometro appena. Nel fondo c’è anche una baracca di legno che viene usata indifferentemente da Bonavita e dai coloni che man mano coltivano questa terra per depositare utensili e strumenti di lavoro. Per comune intesa, la chiave della baracca viene tenuta nascosta in un punto designato, in modo che ciascuno di loro, tosto arrivato in campagna, possa averla a portata di mano ed accedere subito alla baracca.

Nel 1936 subentra come colono Luigi Vivacqua il quale, appena preso possesso del fondicello, vi fa portare due some di pali che gli serviranno da sostegni per le colture.

Bonavita non ha un bel carattere, è prepotente, non tollera che qualcuno gli dia torto e in paese lo sanno tutti. Lo sa meglio degli altri Antonio Corrado, suo vicino di fondo, che nel 1935, vedendosi contestare la comproprietà di una vasca d’acqua, lo portò in Tribunale ma dovette transigere per evitare seri danni alla sua persona ed a quella del teste Bevacqua Antonio, che aveva deposto in suo favore. Antonio Corrado racconta:

Due anni fa ebbi una causa civile con Bonavita di sicuro esito vittorioso e dovetti abbandonarla in vista delle continue minacce che faceva a me ed ai miei testimoni. Si fece quindi un accordo… – si ferma per passarsi una mano sulla fronte e guardare il suo amico e testimone Antonio Bevacqua, poi continua – Bonavita diceva sempre che, perdendo, mi avrebbe ammazzato spendendo due cartucce. Io, conoscendo la sua indole violenta, ebbi timore che mettesse in atto le sue minacce e rinunziai al giudizio, già quasi vinto, rimettendoci le spese già fatte

– È come dice lui – conferma Bevacqua – fui proprio io, circa due anni fa, che ebbi a testimoniare, in coscienza e per verità, in favore di Corrado, come praticissimo delle località e Michelangelo Bonavita, mio cugino, mi diceva pubblicamente che egli la causa la vinceva sempre, perché anche perdendo non gli costava che due cartucce. Voleva con ciò chiaramente dire che avrebbe ammazzato me e Antonio Corrado

Con un carattere del genere è facile aspettarsi che alla prima occasione, magari una banalità, Bonavita possa andare su tutte le furie. E qualcosa tra lui e Vivacqua deve accadere, perché dopo circa un anno di affitto il colono viene mandato via su due piedi, non risparmiandogli, nel frattempo, dispetti e soprusi come impedirgli di usare la baracca tenendo presso di sé la chiave. Ma Bonavita l’atto peggiore lo compie mentre Vivacqua, preparandosi a lasciare il fondo, si accinge a raccogliere i suoi pali per portarseli via.

– Lascia tutti i pali perché sono miei! – gli dice brandendo un grosso bastone.

– Ci sono i tuoi e ci sono i miei, prendo solo quelli che ho portato l’anno scorso.

– Sono tutti miei, lasciali dove sono!

– Ma…

– Ma che? Vattene!

Vivacqua è un tipo tranquillo e vuole evitare questioni. Se ne va, ma ha già deciso che tornerà a prendere i pali il mattino seguente presto, quando Bonavita ancora non sarà arrivato.

La mattina del 20 ottobre 1937 Michelangelo Bonavita esce di casa prima del solito con suo figlio e porta sulla spalla la sua doppietta.

– Michè, vai a caccia? – gli chiede un vicino.

– A caccia delle gazze ladre che ieri mi hanno fatto diventare pazzo! – risponde. Il vicino alza le spalle per quella risposta così strana e torna alla sua occupazione. Quando Michelangelo arriva nel suo fondo resta molto sorpreso perché c’è Luigi Vivacqua che sta accatastando i pali

– Allora parlo francese? I pali sono miei e li devi lasciare!

– I tuoi sono quelli, questi sono miei.

Bonavita, mal tollerando che Vivacqua insista nel reclamare i suoi pali e trascinato dalla sua indole malvagia e violenta, non che reso audace dal fatto che si trovi in sua compagnia il figlio e dal fatto di avere a portata di mano il fucile, tenta di percuoterlo, onde Luigi Vivacqua è costretto a scappare e scappando si imbatte in Domenico Arcuri, che sta lavorando in quei pressi.

Domenico! – gli urla – sei testimone che Bonavita mi ha alzato le mani!

Ma Domenico, probabilmente per non aver da fare con Bonavita, né è da fargliene rimprovero, essendo risaputo che Bonavita non è tipo da sopportare testimonianze contrarie s’anco conformi a verità, gli risponde:

– Non ho visto niente!

Luigi allora decide che è meglio tornare in paese per raccontare l’accaduto a sua moglie Rachelina Greco e chiederle consiglio sul da farsi.

– Ma i pali non li ha portati Pasquale Brancati col suo mulo? Chiamiamolo e glielo dirà lui a Bonavita di chi sono i pali!

Già, Luigi non ci aveva pensato, ha ragione sua moglie, la parola di Brancati risolverà ogni questione. Cosi vanno a chiamarlo e Pasquale Brancati, da galantuomo qual è, accetta subito di accompagnarli nel fondo di Bonavita per mettere in chiaro tutto e, per fare prima, porta seco la scodella nella quale mangiava.

Giunti tutti e tre davanti a Bonavita, Rachelina, senza dare tempo agli altri di aprire bocca, lo aggredisce verbalmente:

Scostumato! Hai alzato le mani su mio marito, ci dovevo essere io… – sta per dire altro, ma il figlio di Bonavita la interrompe:

Vergognati di offendere un vecchio!

Sta zitto e va a prenderlo in culo! – ribatte, acida, Rachelina.

Vacci tu! – replica l’altro.

Finalmente Luigi e Brancati si mettono in mezzo così le acque si calmano e comincia una pacifica discussione circa l’appartenenza dei pali tra Bonavita padre e Luigi Vivacqua il quale, ad un certo punto chiama in causa Pasquale Brancati dicendo:

Questi è testimone che mi ha portato i pali!

Davanti all’evidenza Bonavita dovrebbe arrendersi, ma replica prontamente e sfacciatamente:

Ha portato i pali di faggio e non di castagno!

Pasquale Brancati, in omaggio alla verità, interviene:

Ho portato due some di pali, una di pali grandi ed una di piccoli, ma tutti di castagno e li ho scaricati sull’aia.

Ma nemmeno adesso Bonavita si dà per vinto e mentre si incammina verso la baracca risponde:

Tu hai portato pali di faggio e non di castagno

I pali di faggio ebbe a portarli mio fratello, mentre io ho portato pali di castagno! – replica Pasquale Brancati e la discussione si interrompe perché Bonavita è entrato nella baracca ed è furente per essere stato smentito in modo così preciso. Scuote la testa, stacca la doppietta dal chiodo dove è appesa, ed esce fulmineamente dalla porta urlando:

Largo!

Il primo colpo lo spara contro Rachelina, che cade raggiunta alla parte superiore del braccio destro dalla rosa dei pallini. Poi spara contro Luigi Vivacqua che, fatti alcuni passi cade, colpito all’ipocondrio destro ed al braccio sinistro da un centinaio di pallini. Poi rientra nella baracca e ricarica il fucile, intenzionato a sparare anche contro Pasquale Brancati il quale, terrorizzato, ha pensato bene di scappare.

Dov’è? – chiede a suo figlio, che gli indica la direzione verso cui Brancati sta correndo. Poi si incammina. Lo vede.

Pasquale voltati indietro, tu sei venuto a fare da testimone nella mia proprietà!

Brancati si ferma e, in atto amichevole, risponde:

Senti, Michele, i pali erano di castagno

– Si, non ce l’ho con te, vieni che parliamo…

Pasquale Brancati torna indietro e si avvicina fino a pochi passi di distanza e, mentre sente i lamenti dei due feriti, cerca di dire qualcosa, ma il gesto di Bonavita di imbracciare il fucile, puntarglielo contro e sparare è veloce come un lampo e non gli lascia scampo. La rosa dei pallini gli penetra nell’addome e dall’enorme foro fuoriescono, completamente sfatti, il pacchetto intestinale e l’epiploon.

Brancati, scaraventato all’indietro dalla potenza del colpo, è a terra e sta tentando disperatamente, ma inutilmente, di rimettere a posto le viscere mentre urla, incredulo:

Mi hai ammazzato… mamma… Madonna mia

Poi più niente, è già morto, innocente, ammazzato in questo modo così orribile.

Ma Bonavita non è ancora sazio di sangue. Si accorge che Rachelina, pur gravemente ferita, si regge ancora in piedi e le si avvicina per finirla. Le spara a bruciapelo l’ultimo colpo che ha a disposizione, ma la donna, nell’estremo tentativo di salvarsi la vita, riesce nell’ultimo istante utile a spostare le canne del fucile ed il colpo va a vuoto.

A questo punto alcuni contadini che stavano lavorando nei paraggi arrivano di corsa e Michelangelo Bonavita preferisce darsela a gambe. Si nasconde per un paio di giorni, poi la mattina del 23 ottobre si costituisce direttamente in carcere a Cosenza.

Intanto viene posto in stato di fermo suo figlio, che si difende:

– Io sono innocente, non ho preso parte ai fatti e non ho potuto impedire il delitto, avvenuto per cose da niente!

Quando Michelangelo Bonavita viene interrogato, non nega la materiale consumazione dei fatti addebitatigli, ma li riveste di tante inesattezze per sperare, se non la diminuente, quanto meno delle attenuanti.

Nel 1936, concedendo il mio fondo a mezzadria, consegnai al colono Luigi Vivacqua 540 pali, con l’obbligo della restituzione. Nel 1937 tempestivamente lo licenziai e gli ingiunsi di riconsegnare i pali, ma il 20 ottobre costui e sua moglie, nel sentirmi rammentare quest’obbligo, mi ingiuriarono con le parole di “figlio di puttana”, “cornuto” e altro. Poiché li redarguii che avrei potuto arrestarli, essendo io milite fascista, Vivacqua mi rispose che se ne fotteva di me e di quella faccia di condannato a morte di Mussolini. Ascoltate quelle parole volsi le spalle e me ne andai, ma dopo circa un’ora mi imbattei, nel mio fondo, in Vivacqua, sua moglie e Brancati, dei quali il primo ed il terzo armati di scure. Vivacqua e sua moglie insistevano che non avrebbero restituito i pali e Brancati, intervenuto in loro favore, si permise di dichiarare che non dovevano essere restituiti e, anzi, diffidato di non immischiarsi essendo un estraneo, mi rispose che doveva difendere il compare Vivacqua il quale, inveendo, mi si avvicinò a mano armata di scure e gli sparai… sparai contro sua moglie perché costei, a sua volta, mi si avvicinò a mano armata di palo e poi sparai a Brancati perché costui, brandendo la scure tentò di avvicinarsi per difendere il compare… – poi, tentando con un altro espediente di umanizzare il delitto e, quasi con compiacimento, conclude – Io sparo bene, ho tirato alle braccia dei miei aggressori con intenzione di disarmarli e non di ucciderli

– Però sia Vivacqua che Brancati sono stati colpiti all’addome da molto vicino…

Non so spiegarmi se non con lo stato di tremore in cui mi trovavo per le offese ricevute e per la paura di essere colpito, come sia potuto accadere…

Oltre alle persone accorse sul posto nell’immediatezza del fatto, che dichiarano di non aver visto alcuna scure in mano o accanto a Luigi Vivacqua, nessun palo in mano o accanto a sua moglie e avere visto solo la scure di Brancati vicino al suo cadavere, anche il figlio lo smentisce sia in merito alle presunte frasi contro Mussolini, sia alle presunte ingiurie quando, nuovamente interrogato, dichiara:

Appena si intavolò la discussione sui pali e mio padre fece noto che non li dava perché erano suoi, Vivacqua si limitò a rispondere: “Va bene” e si allontanò.

Un tentativo mal riuscito di ingraziarsi gli inquirenti che non abboccano e, anzi, scrivono: Balza evidente l’insincerità e l’artificio di Bonavita, indubbio effetto di interessati consigli che avea avuto agio di avere durante la latitanza e nei giorni della carcerazione che precedettero l’interrogatorio.

Intanto, dopo mesi di ricovero in ospedale, Luigi Vivacqua e sua moglie Rachelina Caruso guariscono, ma alla povera donna il braccio rimane semi paralizzato.

Il primo maggio 1938, su conforme richiesta del Pubblico Ministero, il Giudice Istruttore rinvia Michelangelo Bonavita al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con accuse pesantissime: omicidio volontario aggravato, duplice tentato omicidio aggravato. Suo figlio invece viene prosciolto per non aver commesso il fatto.

Il dibattimento si tiene in due udienze, quelle del 26 e 27 ottobre 1938. La difesa chiede subito che vengano derubricati i reati contestati: lesioni seguite da morte invece di omicidio aggravato ai danni di Pasquale Brancati e lesioni volontarie invece del duplice tentato omicidio. In più, dice la difesa, i tre delitti dovrebbero considerati come un unico delitto continuato perché parti di un unico disegno criminoso.

La Corte è orientata ad accogliere il ragionamento della difesa per quanto riguarda la continuazione del reato e scrive: Non può revocarsi in dubbio che il prevenuto consumò il triplice delitto in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Egli voleva liberarsi dei coloni che gli contrastavano l’impossessamento dei pali non suoi, nonché di colui che, con la sua testimonianza, fortificava la legittima pretesa dei coloni. Peraltro è da notare che è conforme alla inclinazione del prevenuto mettere allo stesso piano di risentimento e di odio e avversari e testi. E nemmeno si può dubitare che egli intese parificare le tre vittime nella stessa sorte, come rilevasi dalle sue stesse confessioni, dall’unico fine propostosi, dalla stessa modalità di esecuzione.

Per quanto riguarda la derubricazione dei reati, il rifiuto della Corte è netto: Da quel che si è premesso consegue che, essendosi il prevenuto proposto il fine di uccidere – fine raggiunto in uno delle vittime – devesi rigettare la istanza mirante alla degradazione della rubrica.

C’è poco altro da ascoltare, se non le richieste delle parti civili, quella del Pubblico Ministero, che chiede l’ergastolo, e quelle della difesa che ribadisce la propria posizione e, quindi, concessa l’attenuante della provocazione, la condanna per i reati di omicidio preterintenzionale e lesioni personali.

È tempo di emettere la sentenza.

Michelangelo Bonavita è ritenuto responsabile dei reati ascrittigli, commessi sotto il vincolo della continuazione, e viene condannato all’ergastolo, senza la concessione di attenuanti, per omicidio aggravato dalla futilità e abiettezza dei motivi; la pena da irrogare per i due delitti più lievi non può risolversi ad altro che ad un inasprimento di segregazione. Oltre, ovviamente, alle pene accessorie, al pagamento delle spese, al risarcimento alle parti civili e l’onere della pubblicazione della sentenza nei due giornali del luogo Calabria fascista e Cronaca di Calabria.

E dire che quel povero uomo di Brancati avea la coscienza così tranquilla di non aver commesso nulla che potesse giustificare un attentato alla sua vita, da avvicinarsi al carnefice portando nelle mani la scodella che conteneva la frugale colazione e che la morte gli strappò di mano, rovesciandogliela a qualche passo dal punto ove giacque. Su quella povera esistenza era appoggiata la sorte di una giovane moglie e di quattro figlioletti al di sotto dei dieci anni.[1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

 

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

Il plagio letterario costituisce reato ai sensi dell’articolo 171 comma 1, lettera a)-bis della legge sul diritto d’autore, che sanziona chiunque metta a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera protetta (o parte di essa).