IL FRUTTO DI UN AMPLESSO INCESTUOSO

Quando agli inizi del 1937 Maria Rosaria Magurno, nubile ventiquattrenne di Maierà, scopre di essere incinta e si confida con la persona sbagliata, in paese le voci cominciano a girare in libertà, tanto da suscitare l’interesse dei Carabinieri i quali, temendo che possa mettere in atto pratiche abortive, ne sorvegliano la gravidanza e più volte la diffidano. A casa Magurno, però, tutto ciò che sta accadendo sembra non interessare e nessun provvedimento viene preso nei confronti della giovane, tant’è che il 27 agosto 1937 Maria Rosaria dà alla luce un bel maschietto, registrato all’anagrafe col nome di Francesco.

Ma subito dopo il parto le cose cambiano perché quelle voci vaghe e indistinte che malignavano sul possibile responsabile della paternità, adesso si fanno chiare e decise: Francesco è il frutto della relazione incestuosa tra padre e figlia! Ovviamente scoppia lo scandalo e i genitori della giovane, allo scopo evidente di deviare le impressioni dell’opinione pubblica sul mostruoso caso, la cacciano di casa. Maria Rosaria va ad abitare con il bambino in un basso, dove sua madre va a trovarla ogni giorno, pensando anche al suo sostentamento.

Passano i giorni e le settimane, tre per l’esattezza, quando nella notte del 18 settembre, il piccolino muore e i Carabinieri, sospettando immediatamente che siano state messe in atto quelle pratiche dirette a sopprimere il prodotto del concepimento che temevano, interrogano Maria Rosaria:

– Si era ammalato di lupeddu… – dice tra le lacrime.

Possibile, ma qualcosa non torna perché il medico che constata la morte del piccolino nota una striscia bluastra sul collo, chiaro indizio di un possibile soffocamento.

– Come lo spieghi? – le chiede bruscamente il Maresciallo.

– Forse involontariamente durante la notte, quando l’ho preso per dargli del latte

No. Non può essere stato così perché, fa notare il medico, il piccolino era in uno stato di profonda denutrizione, a tal segno che la cute potevasi sollevare in pliche, quindi ciò significa che Maria Rosaria non lo aveva mai, o quasi, allattato.

A confermare questa ipotesi c’è la deposizione della levatrice che aveva aiutato la giovane durante il parto:

– Quando nacque, l’innocente creatura era florida e sana

In base a questi indizi ed in attesa che i risultati dell’autopsia confermino tutto, Maria Rosaria viene arrestata e con lei anche i genitori, sospettati di essere implicati nell’infanticidio.

E la conferma arriva: asfissia per soffocamento mediante pressione esterna al lato destro del collo, dove sono stati notati i tessuti ed i muscoli aumentati di volume ed ematosi, con conseguente emorragia alla base del cranio.

Adesso non ci sono più dubbi che Maria Rosaria, ossessionata dal proposito di liberarsi del frutto della colpa, volutamente si determinò alla soppressione in primo tempo negativa, imponendo alla vittima il digiuno ed infine con atti positivi diretti a cagionare la morte mercé soffocamento.

Giunti a queste conclusioni, gli inquirenti chiedono il rinvio a giudizio della giovane con l’accusa di infanticidio aggravato dalla premeditazione ed il proscioglimento dei genitori per non aver commesso il fatto. In più, siccome non ci sono prove sufficienti ad affermare il reato di incesto, padre e figlia vengono prosciolti con formula dubitativa e quindi, come è facile immaginare, tutti continuano a pensare che Maria Rosaria e suo padre se la intendessero.

Iniziato il dibattimento, l’azione della difesa tende a dimostrare l’involontarietà del fatto, come dichiarò Maria Rosaria dopo che le venne contestato il segno bluastro sul collo del piccolino, ma la Corte dichiara di non potere accettare questa ricostruzione perché si tratta di una tardiva versione di comodo che scuoterebbe alle radici la valutazione razionale di tutte le prove, le quali ne pongono in rilievo l’inconsistenza e l’inverosimiglianza. Infatti, se la morte fosse in relazione ad un’azione involontaria o colposa dell’imputata, non si spiegherebbe la notizia subito da lei propalata di una malattia inesistente e resterebbe inesplicabile l’impoverimento fisico della misera creatura, già ridotta in condizioni pietose dopo appena 22 giorni di vita, mentre risulta che era nata ben nutrita e che la madre poteva alimentarla essendo fornita di latte sufficiente.

Quindi è confermato che si tratta di un infanticidio volontario. Ma nonostante ciò sia la Corte che il Pubblico Ministero sono dell’avviso che il movente sia riconducibile a motivi apprezzabili di valore morale perché non si deve disconoscere che nella determinazione del delitto abbia influito la causa d’onore, la quale nel caso in esame assume speciale importanza in dipendenza del probabile incesto. Se i fatti umani vanno valutati per quello che consiglia il senso pratico e realistico della vita, è ovvio pensare da quale ondata di vergogna si sia sentita offesa la Magurno, anche in relazione alla moralità media dell’ambiente in cui viveva, per essere costretta di allevare il frutto di un amplesso incestuoso.

Il caso della Magurno s’impone alla considerazione in vista della situazione disonorevole in cui si era posta, situazione che funziona non soltanto come motivo della sua azione, ma altresì come motivo di particolare valore morale.

Non solo: dopo avere ascoltato l’imputata, la Corte si convince anche che Maria Rosaria sia un’idiota, sebbene non nel suo stretto significato scientifico, per le sue non normali facoltà intellettive. Infatti, da quanto dice Maria Rosaria nell’interrogatorio, è chiaro che non ha l’esatta nozione del bene e del male e non ha compreso appieno la gravità di quanto ha commesso. Il che pone in evidenza uno stato di parziale alterazione delle facoltà psichiche.

Questo cambia le cose perché se la Corte riconosce che l’imputata è in uno stato mentale alterato, allora non può essere applicata l’aggravante della premeditazione, incompatibile con lo stato dell’imputata. Anzi, la responsabilità penale va diminuita ed in più va concessa l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale.

Ritenuto che, limitata così la responsabilità dell’imputata, la pena può determinarsi nel minimo di anni dieci di reclusione. Esclusa la premeditazione, il delitto andrebbe punito, in astratto, con la pena dell’ergastolo, ma per il concorso delle due circostanze attenuanti, al minimo già fissato e consigliato dai buoni precedenti della Magurno e dagli altri criteri di clemenza suggeriti dalle direttive date nell’art. 133 c.p.

È il 10 maggio 1938.[1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.