Nel dopo pranzo del 6 ottobre 1849, il massaro di campi Giuseppe Arcidiacono di Longobucco è intento con altri alla semina di cereale nella contrada Spagnola, campagna di quel Comune. In un momento di pausa alza lo sguardo verso la montagna e vede una comitiva di malfattori armati di tutto punto che, provenienti dalla Sila, sembrano dirigersi proprio verso il campo. Arcidiacono, che sa di non essere visto di buon occhio dai malfattori per averne denunciato qualcuno e per aver partecipato ad alcune operazioni contro di loro, sospettando qualcosa di sinistro ai suoi danni, si dà alla fuga ed accovacciasi in quelle vicinanze, ma i suoi movimenti non sfuggono allo sguardo della comitiva.
Pervenuti colà, i malfattori, dietro richiesta, vengono a sapere essere il fuggitivo Giuseppe Arcidiacono, ed affettando essi buon viso, riescono a rassicurare sulle loro buone intenzioni il figlio di Arcidiacono, Serafino, che lo va a chiamare:
– Vogliono qualcosa da mangiare e vogliono che porti un biglietto al padrone…
Rassicurato, Giuseppe Arcidiacono segue il figlio, ma non appena è davanti al gruppo di uomini, quei perfidi con replicati colpi di fucile e stili lo traggono a morte.
Dopo la consumazione dell’omicidio, uno dei malfattori, che la fa da capo, annunziandosi per Fortunato Federico di Trenta, scrive lettera a Don Tommaso de Simone, sindaco di Longobucco con la quale, manifestandogli il commesso omicidio, ne adduce per causale haver l’ucciso Arcidiacono fatto tradimento all’altro latitante Luigi Spina, ucciso in conflitto dalla guardia urbana di Corigliano e disvela colla lettera istessa gli altri suoi compagni di colpa per Pietro Rogato, Saverio Trozzolo, Gabriele Tricarico, Clemente Durante, Filippo Curcio ed Alfonso Arnone.
Costoro si trovano tutti a scorrere, armata mano, la campagna e le indagini dimostrano che, oltre la causale sopra espressa, l’estinto si aveva attirato l’odio della comitiva misfattrice sia per aver rimproverato il padre del Fortunato Federico, tratto una volta in arresto, e sia perché era stato in ispedizione con altri componenti la forza pubblica in persecuzione dei briganti.
Nel successivo mese di Novembre la comitiva del famigerato Raffaele Arnone di Trenta della quale fan parte i suddetti Fortunato Federico, Pietro Rogato, Saverio Trozzolo, Gabriele Tricarico, Filippo Curcio, Alfonso Arnone ed altri, riunitasi coll’altra capitanata da Giuseppe de Simone da Longobucco, crassando la campagna del distretto di Rossano, fanno richiesta di ingenti somme a Don Domenico Fiorita di Longobucco, il quale però non cede all’estorsione ed allora i malfattori, accresciuti al n°. di quattordici, nella notte del 27 novembre assaltano il porcile di Fiorita in contrada Dragonara, territorio di Cropoalati, vi appiccano il fuoco e si divertono anche a tirare de’ colpi di fucile contro la torma di porci che colà trovavansi rinchiusi, talché sia per l’incendio sia per l’archibugiate ne rimangono uccisi numero novantadue del valore al di là di ducati cento.
L’indomani 28 9bre le persone addette al servizio del Fiorita recatesi sopra luogo cercan ricuperare le carni di quelli animali, ma sono fugati dai misfattori che stavano tutt’ora in quelle adiacenze .
Il danno arrecato coll’incendio del porcile si è fatto ascendere ad altri ducati sei.
Dopo commesso l’incendio a danno del Sig. Fiorita, le suddette orde misfattrici, nello stesso giorno 28 di Novembre 1849, entrano nel casino dei Signori Boccuti in territorio di Longobucco e vi si stabiliscono.
Nel seguente mattino de’ 29, la guardia urbana di Cropalati, perlustrando quel territorio, giunge verso le ore 16 alla contrada San Martino presso il fiume Trionto e prossima al casino dei Boccuti. I misfattori che colà tuttavia si trovano, accortisi che gente armata si avvicina, tolgono tosto le armi, escono dalla casina ed annunziandosi per guardie di Bocchigliero vanno incontro a quella forza pubblica: giunti però ad un trar di fucile animano colla stessa un ostinato conflitto, ma fugati si introducono nel vicino bosco di Bulotta.
Gli urbani di Cropalati lanciano urla di gioia per aver rotta la masnada e credendosi fuori di ogni pericolo, riprendono senza precauzione alcuna il cammino onde ripatriare. Ma, pervenuti taluni di essi vicino alla chiesetta appellata di S. Basile, ricevono una brutta sorpresa: una seconda scarica di fucilate dalle orde misfattrici, perlocchè rianimatosi il conflitto, l’urbano Giuseppe Cicero rimane gravemente ferito ed abbandonato dai compagni al furore dei delinquenti. Tornati sul posto il giorno dopo, le guardie trovano il cadavere del povero Cicero col capo mozzo, che i misfattori avevano conficcato ad una picca, distante un trar di pistola dal deformato corpo (Nel relativo fascicolo sono imputati del fatto 14 persone e non nove come indicato nella narrazione. Da riportare i soprannomi di alcuni di essi: Fortunato Federico alias ‘U Prievite, il Prete; Pietro Rogato alias Guerriero; Giuseppe De Simone alias Ntontò; Giacinto Sapia alias Brutto. NdA).
In sul tramonto del dì 29 di giugno 1850, Don Giuseppe Giacobini di Altomonte, dall’immobile rustico di sua proprietà, sito in contrada Lardaria, fa ritorno in patria. Pervenuto nel bosco Farneto, territorio di quel Comune, viene sequestrato da un’orda di malfattori doppiamente armati, i quali, condottolo nella boscaglia della Regia Sila, chiedono pel riscatto ducati diecimila. Il fratello del sequestrato manda in tre volte ai misfattori ducati 600; essi però, dispiaciuti per la tenuità della somma, mutilano lo sgraziato Giacobini di un orecchio ed avvoltolo con carta lo spediscono alla famiglia di lui, onde costringerla così a sborsar loro altre somme. Infatti la famiglia Giacobini manda ai delinquenti altri ducati centocinquanta, ma di ciò essi non paghi uccidono a colpi d’arma da fuoco il misero Don Giuseppe, il quale nei primi giorni del seguente mese di agosto viene rinvenuto cadavere nel bosco detto Colle della Vacca, territorio di Pedace, mutilato già dell’orecchio dritto, come si è detto sopra.
Autori di sì barbaro eccesso si sono colle istruzioni liquidati rei il famigerato Raffaele Arnone e sua comitiva, composta in allora da Pietro Branca, Andrea Greco, Pietro Rogato, Filippo Curcio, Domenico Baracca e Giuseppe Vacca Moranesi; e la pruova sorge più chiara da un biglietto diretto alla famiglia del sequestrato in cui gli assassini per bravura disvelavano i loro nomi.
Al declinare del dì 28 luglio dello stesso anno 1850, D. Francesco Feraudo, D. Giuseppe Pancaro, D. Alfonso Milizia, D. Carlo Baffi, D. Giuseppe Parroco Gaudinieri, D. Salvatore Caputo, D. Antonio Lupinacci e D. Francesco Saverio Benvenuto di Acri passeggiano nella strada Pompio distante un miglio circa dall’abitato.
A circa le ore 23 e mezzo li scorritori di campagna di sopra cennati, accresciuti nel numero dagli altri Fortunato Federico, Saverio Trozzolo, Pietro Carravetta, Pietro Michele Pisano, Pasquale Auria Anania, Pasquale Salatino ed Antonio Curcio, sbucano da un folto bosco che fiancheggia quella strada e sequestrano i suddetti Acritani. Ma il parroco Gaudinieri riesce a svincolarsi e fuggire, quantunque sia rimasto leggermente ferito e taluni altri vengono lasciati liberi dai delinquenti, meno però D. Francesco Feraudo, D. Giuseppe Pancaro, D. Alfonso Milizia e D. Carlo Baffi, i quali sono obbligati seguire la masnada.
Lungo il cammino i malfattori riescono a procurarsi delle vetture e fatti montare i quattro sequestrati li conducono seco loro per diversi luoghi della Regia Sila. Giunti nel bosco denominato Nocelleto fanno vergare ai sequestrati delle lettere con cui si chiedono delle somme alle rispettive famiglie, ed il capo della banda Arnone, scrivendo pure egli un biglietto col quale, domandando per riscatto Ducati 2000:00 da D. Giuseppe Pancaro e Ducati 1000:00 per cadauno da Feraudo e Milizia, esterna la minaccia che sarebbero stati massacrati come don Giuseppe Giacobini, laddove non si fosse mandata la chiesta somma o spedita contro essi la forza pubblica.
I misfattori fanno sosta sotto un grande albero di pino fino al giorno 1° di Agosto tenendo in guardia i sequestrati e provvedendoli a sufficienza da vittiture. Braccati da un ingente numero di guardie e militari, i misfattori vengono accerchiati.
Verso l’ora di mezzodì comincia uno violento scontro a fuoco sinché nel conflitto viene ucciso lo squadriglio Francesco Lappano di Rovito e feriti gravemente il di costui fratello Fedele Lappano e l’altro squadriglio Pasquale Mollo di Acri.
Troppo pericoloso continuare a sparare, meglio attendere rinforzi, così viene deciso di tenere sotto assedio i malfattori ma questi, con l’ausilio di un cannocchiale, riescono a trovare un punto sguarnito nell’accerchiamento e nella notte seguente, tenendo sotto tiro i sequestrati ai quali viene imposto di non fiatare pena la morte e procedendo in fila indiana, riescono ad allontanarsi e percorrendo per altri giorni altre diverse contrade boscose liberano alla fine ed interpellatamente i sequestrati dopocchè riscuotono ducati settemila e cento da Baffi, ducati quattrocentoquarantotto da Pancaro e ducati duecentoquattordici da Milizia.[1]
[1] ASCS, Gran Corte Criminale.