UN DELITTO CHE NON ESISTE

– Non sapete niente? Cose turche! – dice Serafino Costanzo con aria allusiva, appena rientrato a casa nella frazione Borboruso di Pedivigliano, la mattina del 30 settembre 1936.

– Che è successo? – gli chiede sua figlia Palma Maria, ancora in camicia da notte.

– Pietro Leonardo stanotte ha rapito sua cugina Letizia e dicono che sono già andati a convivere!

Palma Maria diventa bianca come un lenzuolo pulito, le ginocchia stanno per cederle, ma riesce a dissimulare il suo stato. Si veste in un attimo e si precipita fuori di casa. Si, Palma Maria e Pietro Leonardo fino alla sera del 29 settembre amoreggiavano in segreto e Pietro, dopo mille promesse di amore eterno e matrimonio, era anche riuscito a convincere la ragazza a fare l’amore. Era successo un paio di mesi prima, durante un infuocato tramonto, infuocato come la loro passione. Il problema di Palma Maria, e che problema, però, è che da quell’infuocato tramonto di fine luglio non ha più le mestruazioni.

Vergogna, terrore per la reazione dei genitori, terrore per un futuro ormai più nero della notte. Che fare? Palma Maria è disperata e mentre si dirige come un automa verso la casa di sua cugina Ida per confidarle il suo terribile segreto, piange senza nemmeno accorgersene.

– Mi ha messa incinta e mi ha ingannata! E adesso che faccio?

– A tutto c’è riparo, stai tranquilla, c’è tempo e vedrai che le cose si risolveranno.

– Ma che dici! Sono rovinata, ormai sono una donna perduta! Ormai posso finire solo morta o in galera o a fare la serva o la puttana!

– Smettila! Non sai quello che dici! Vattene a casa e calmati, ne riparleremo domani!

– Si… domani… come no… domani… – farfuglia mentre esce per tornare a casa.

Ma è sconvolta, non può farsi vedere in quelle condizioni e, per non far sospettare nulla ai genitori della sua irreparabile condizione morale, riempie una cesta di panni sporchi e va alla fontana ove, appena giunta, comincia a lavarli.

Dopo pochi minuti passa sua sorella Franceschina che sta andando a chiamare l’altra loro sorella Carolina per andare insieme dalla madre.

– Che hai?

– Niente… non mi sento bene… dove stai andando?

– A chiamare Carolina per andare da mamma.

– Aspetta che finisco di lavare la tovaglia e porti i panni a casa, ci vado io a chiamare Carolina …

Anche Carolina si accorge che qualcosa non va e insiste per far parlare la sorella, la quale le racconta tutto. Poi dice:

– O mi ammazzo o me ne vado lontano, dove nessuno mi potrà trovare!

– Ma sei impazzita? Sono cose che non devi nemmeno pensare!

– Ho deciso, parto!

E su quest’ultima idea Palma Maria insiste tanto da riuscire a convincere Carolina ad accompagnarla da una loro parente per farsi dare 20 lire a mutuo, il denaro necessario per acquistare un biglietto del treno fino a Cosenza. Poi tornano a casa dai genitori.

Palma Maria, non vista, prende il coltello che serve per uccidere i maiali, ‘u scannaturu, ed esce, andando verso la fontana pubblica.

– Palma! Palma! Avete visto Palma? – chiede Carolina ai suoi, ma nessuno l’ha vista, così esce anche lei e la trova sulla strada nei pressi della fontana.

– Mi ammazzo! Mi è rimasto solo questo… come faccio a dirlo a papà?

– Ma finiscila, non dire fesserie e torna a casa! Tutto si aggiusta, non temere… io comincio ad andare…

Carolina non è ancora arrivata a casa quando sente urlare: “Non mi vedrai più!”. È la voce di Palma Maria. Carolina torna sui suoi passi, forse per andare a rimproverare la sorella e riportarla a casa per non dare spettacolo in mezzo alla strada.

Si ferma di botto. Palma Maria è a terra boccheggiante in una pozza di sangue che le sgorga a fiotti dalla gola, nella quale è infisso ‘u scannaturu fin quasi al manico, serrato nella mano destra.

– O gesummaria! Palma! – Carolina, nell’estremo tentativo di soccorrere la sorella, le estrae il coltello dalla gola e comincia a correre per chiedere aiuto. Poi si ferma. Perché l’ha lasciata da sola lì? Allora getta il coltello e torna indietro di corsa, ma Palma Maria non respira più, è morta!

Bisogna che torni a casa per avvisare i familiari, ma è sconvolta, inebetita dal dolore, la vista le si annebbia, è incapace di parlare, di piangere, sembra un automa. Intanto è accorsa gente e vede Palma Maria morta a terra con la gonna alzata e Carolina, con le mani sporche di sangue, immobile, con un’espressione che sembra di indifferenza, mentre l’uso vorrebbe che si butti a terra, che si strappi i capelli, che si graffi il viso per dimostrare il proprio dolore. Qualcuno dà di gomito al proprio vicino per evidenziare quel comportamento equivoco, ancora più equivoco quando Carolina si gira e se ne va verso casa, ancora senza che una parola le esca dalla bocca o una lacrima le righi il viso. Durante il breve tragitto incontra un Carabiniere in servizio di pattuglia. Lo guarda con gli occhi spenti e gli dice:

È ammazzata mia sorella

Il Carabiniere, che non è del posto e non capisce bene il modo di parlare dei locali, confonde quella espressione dialettale che sta per “mia sorella si è ammazzata” con “ho ammazzato mia sorella”. È una confessione bella e buona, così la fa tornare indietro con lui e, in effetti, vede che per terra, vicino alla fontana, c’è una donna scannata e molti testimoni che gli fanno segno verso Carolina per indicarla come l’autrice di quello che sembra a tutti gli effetti un omicidio.

– Sono innocente! – si difende urlando e ripetendo la stessa ricostruzione dei fatti in tutti i numerosi interrogatori a cui viene sottoposta, per indurla a fornire notizie particolareggiate intorno al fatto, sì da farne conoscere la causale, elemento che non si riesce a trovare.

Che, secondo la Procura, si tratti di omicidio non ci sono dubbi ed a confortarne la tesi arrivano i risultati dell’autopsia: nella specie si tratta di omicidio più che di suicidio giacché la ferita, profonda ed a margini netti, non può essere stata cagionata dalla vittima che, avendo la mano convulsa, poteva produrre soltanto lesioni superficiali e seghettate.

Poi arrivano in Procura interessate lettere anonime nelle quali la si accusa di avere ucciso la sorella per la gelosia che avrebbe nutrito nei suoi confronti, sospettandola amante di suo marito.

Io piango la morte della infelice mia sorella e non so perché mi si voglia credere autrice di un delitto che non esiste e che non ho commesso. Tanto con mia sorella che con i miei genitori, io e mio marito siamo sempre stati in ottime relazioni… non ho mai avuto alcun sospetto, né alcuna gelosia per l’affetto che mia sorella e mio marito si ricambiavano perché mio marito la considerava una sorella

E dire che i Carabinieri indagano a lungo su questa ipotesi senza poter accertare nulla di specifico. Anzi, il Comandante della stazione di Scigliano bolla tutto come infondato in quanto Pietro Leonardo, prima ancora che Carolina cessasse di vivere, ebbe a confidargli che costei era incinta, ciò che non avrebbe potuto sapere, se non fosse stato proprio lui l’autore della gravidanza! Allora si scava nelle contraddizioni che si pensa di trovare nelle parole di Carolina e nei suoi comportamenti: come mai, se Palma Maria le confessò di volersi uccidere la lasciò da sola? Come mai, subito dopo la morte della sorella mantenne contegno cinico ed impassibile? Come mai in un primo tempo non seppe spiegare a chi appartenesse il coltello mentre, in secondo tempo, dichiarò che apparteneva al padre? Ma, sebbene Carolina chiarisca ogni punto ritenuto contraddittorio, confortata anche da numerose testimonianze, la Procura va dritta per la propria strada e ne chiede il rinvio a giudizio con la terribile accusa di omicidio aggravato del vincolo di parentela. Il Giudice Istruttore, a sua volta, rincara la dose e nella sua sentenza, con la quale dispone il giudizio presso la Corte d’Assise di Cosenza, scrive che la prevenuta agì per causale (la gelosia. Nda) proporzionata all’omicidio, basando questa affermazione sulle lettere anonime, nonostante i Carabinieri, come abbiamo visto, le avessero seccamente smentite.

Il dibattimento si svolge in due sole udienze, quelle del 25 e 26 maggio 1937.

La Corte ascolta prima Carolina e poi tutti i testimoni, richiama i periti che hanno eseguito l’autopsia, riesamina e confronta ogni singolo documento agli atti e, infine, usa parole di condanna durissime, che è opportuno leggere attentamente: Di vero i pochi elementi di sospetto, in base ai quali fu ordinato il rinvio a giudizio, non solo non hanno ricevuto conferma, ma sono stati smentiti dai risultati del dibattimento. Alcune valutazioni e congetture che si leggono nella sentenza di rinvio a giudizio hanno perduto ogni efficacia dopo i chiarimenti dati in udienza da testimoni e periti. Si legge infatti nella sentenza che la generica rendeva ammissibile unicamente l’ipotesi dell’omicidio perché i periti avevano escluso che la lesione riscontrata sulla vittima potesse, per la sua ubicazione e natura, essere stata cagionata dalla mano della donna, mentre i chirurghi avevano dichiarato che, nella specie, si trattava di omicidio più che suicidio. Se non che anche l’infondatezza ed erroneità di tale giudizio apparisce manifesto, sol che si consideri: 1) che, in genere, le lesioni prendono forma e natura non solo dallo sforzo e dallo stato emotivo dell’agente, ma altresì dalla qualità dell’arma adoperata; 2) che, nella specie, la lesione fu prodotta da arma con lama lunga e ben affilata, che ben poté approfondirsi nei tessuti molli interessati (fossa sopraclavicolare, carotide, polmoni, trachea, aorta); 3) che non si ha prova di tremolio o convulsioni della mano, incompatibili del resto, con un atto compiuto con celerità fulminea; 4) che la rapidità dell’azione non comportava seghettature dei margini della ferita. Comunque i periti, richiamati per le opportune spiegazioni, hanno assunto di non potere escludere il suicidio e perciò è caduta, ai fini della dimostrazione della responsabilità della prevenuta, la più importante fonte di prova. I periti, anzi, hanno affermato di non avere escluso l’ipotesi del suicidio neanche in periodo di istruttoria, sicché l’asserita efficacia della prova generica, nei riguardi dell’omicidio, si deve ad un equivoco incorso nell’interpretazione della perizia necroscopica. In ordine, poi, ai risultati delle altre prove, è ovvio rilevare che, nel valutarne il contenuto, non solo debbono tenersi presenti le ordinarie norme di interpretazione dei fatti umani, ma deve aversi speciale riguardo alle qualità delle persone, ai loro rapporti di amicizia o parentela, alle singole circostanze in cui i fatti si svolsero. E risalta anzitutto la considerazione che l’imputata non avrebbe potuto impedire il suicidio della sorella, anche quando del proposito di lei avesse avuto tempestiva notizia e che, in ogni ipotesi, il non averlo impedito non può fornire, contro la giudicabile, la prova di aver commesso omicidio.

Poi smonta una ad una tutte le presunte contraddizioni che sono state addebitate a Carolina e noi ci soffermiamo su due punti: il voluto atteggiamento cinico e indifferente riferito da alcuni testimoni ed il movente. Riguardo al primo punto, la Corte afferma: gli stessi testimoni, pur affermando che l’imputata non piangeva, né diceva parola, non pensarono che ciò si dovesse a cinismo, anzi qualcuno di essi ammise che quel contegno fosse effetto del dolore, pel quale l’imputata sarebbe rimasta impietrita. D’altro canto è ovvio rilevare che, se l’imputata avesse ucciso, le sarebbe stato facile dissimulare il suo preteso cinismo gridando e facendo le lodi della vittima, senza correr rischio di sembrare esagerata, trattandosi di compiangere una persona cara. È risultato invece che in quella contingenza l’impressione ch’ella agisse, quasi delirando in preda ad intenso dolore, e si muovesse come automa, scossa dal triste caso al quale aveva assistito.

Riguardo al movente la Corte si mantiene durissima: si è affermato che la prevenuta agì per causale proporzionata all’omicidio e si è appoggiata tale ipotesi sulla voce pubblica mentre, in linea generale, è vietato dalla legge ricorrere ad una tale incontrollabile fonte di prova e, nel caso in esame, l’asserita voce pubblica era per giunta screditata dal risultato di apposite indagini.

Insomma, è una condanna ferma e decisa dell’operato degli inquirenti, che non avrebbero nemmeno dovuto incriminare Carolina Costanzo.

Mancando del tutto la prova che l’imputata abbia commesso il fatto, conformemente alla richiesta del Pubblico Ministero, deve pronunziarsi sentenza di assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto.[1]

Dopo nove mesi di equivoci, cattive interpretazioni, violazioni di legge, Carolina Costanzo ottiene finalmente giustizia ed esce dal carcere.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.