PUTTANA!

Nel 1939 Raffaele Berardi e Rosa De Luca sono sposati da una ventina di anni e convivono con i genitori di lui nella frazione Manco di Longobucco. Per i primi dieci anni, nonostante la di lui famiglia sia diventata numerosa essendo venuti al mondo ben cinque figliuoli, i rapporti tra Maria Le Pera, la madre di Raffaele, e Rosa si mantennero cordiali, ma poi per motivi di interesse cominciarono i dissapori, che andarono sempre più aggravandosi.

Quali sono questi motivi di interesse? Si iniziò con la spesa per i pasti: dal pranzo in comune si passò ai pranzi separati, per cui ognuna delle due famiglie provvide per conto suo. Poi sorse il problema del pagamento del tributo fondiario di 300 lire annue, gravante sul fondo e sulla casa rurale da loro abitata, in quanto la suocera pretendeva che venisse pagata tutta dal figlio Raffaele (il quale, in effetti per quieto vivere la sopportava quasi per intero), mentre la nuora energicamente si opponeva, intendendo sopportarla solo per una terza parte, in considerazione che del fondo e della casa non sarebbe spettato a Raffaele più di un terzo, poiché gli altri due terzi sarebbero passati alle sorelle.

Ma il motivo vero, quello più grave, era dovuto al fatto che la ultraottantenne suocera – nevrastenica e maldicentesoleva ingiuriare la nuora con l’atroce parola di puttana, mossa dalla convinzione che Rosa se la intendesse col suocero col quale, a dire della vecchia, aveva avuto rapporti intimi anche prima di sposare il figlio. E non ci fu verso di convincere Maria Le Pera che era solo una sua fissazione e che avrebbe fatto meglio a cambiare atteggiamento verso la nuora.

Nel pomeriggio del 18 aprile 1939, precisamente nel giorno in cui scadeva il pagamento della seconda rata di fondiaria, suocera e nuora sono da sole in casa. Verso le 15,30 arriva Anna Maria, una delle due cognate di Rosa. Appena entrata si blocca per la sorpresa: distesa sul pavimento, appoggiata sul fianco sinistro, c’è sua madre, già composta nella ultima toletta di morte, e accanto Rosa, muta, senza lacrime.

Che hai fatto a mia madre? – urla mentre si butta sul corpo della mamma, accorgendosi che è già freddo.

È caduta dal cannizzol’ho vestita degli abiti funerari

Anna Maria osserva bene il cadavere e nota che il collo è gonfio e ci sono delle impronte bluastre che le sembrano unghiate. Capisce ciò che può essere successo e, nella disperazione, vorrebbe avventarsi sulla cognata per farle ciò che aveva fatto a sua madre, ma desiste pensando ai suoi quattro figli che avrebbe lasciato perché sarebbe andata in galera e dice tra sé e sé: “Spero nella giustizia divina ed umana…”. E per convenienza tace. Tace anche quando la sera rientra Raffaele, già avvisato della morte della madre dai vicini che stazionano intorno alla casa.

– Cosa è successo a mammà? – chiede a Rosa.

– È caduta dal cannizzo… – la risposta è sempre la stessa.

Avvicinatosi al cadavere, anche Raffaele nota quelle strane impronte ormai blu, che sembrano unghiate sul collo della madre, ma nota anche una macchia bluastra vicino all’occhio sinistro ed un graffio sul labbro superiore di sua moglie.

– Che hai fatto a mammà? – ripete, ma questa volta Rosa non risponde e sembra impallidire.

Raffaele chiama da parte le due sorelle e dice loro che andrà dai Carabinieri a denunciare Rosa, perché è chiaro che ha ucciso la loro madre.

– Ma dove vai! Se l’arrestano resterai da solo con cinque figli e cosa farai?

Raffaele non va, ma riflette a lungo tutta la notte combattuto tra giustizia e convenienza perché se le sorelle hanno ragione da un lato, il dolore e l’orrore per la morte della madre sono troppo forti dall’altro e alla fine la giustizia vince sulla convenienza, così il mattino esce di casa, va all’Ufficio Telegrafico e spedisce un telegramma ai Carabinieri di Longobucco:

Ieri sera mia moglie Rosa De Luca strangolava mia madre Maria Le Pera virgola deceduta subito punto pregovi intervenire

I Carabinieri, accompagnati dal medico condotto arrivano nel giro di qualche ora e per prima cosa fanno osservare il cadavere al dottore, il quale giudica che si tratta di un caso di morte per strozzamento, in considerazione che sulla piega cutanea della regione anteriore del collo, precisamente dalla regione carotidea di destra a quella di sinistra, si nota una striscia ecchimotica della larghezza di circa un centimetro e mezzo. Stranamente non descrive un taglio lacero-contuso alla fronte.

– Volete dirci che cosa è successo? – chiede il Comandante a Rosa.

Da più tempo non ero in buoni rapporti, per contrasti di fondiaria, con mia suocera – premette. Poi racconta –. Ieri, verso le 15,00, mentre soleggiavo dinanzi la porta, sentii un rumore; corsi in casa e vidi mia suocera distesa per terra ai piedi della scala che dal pianterreno va alla soffitta. Cercai di sollevarla, ma ella si avventò al viso graffiandomi. A tale atto mi difesi afferrandola per la gola e la lasciai quando non dava più segni di vita… poi venne mia cognata e le dissi soltanto che era caduta dal cannizzo… lei notò la ferita alla fronte della madre e non disse niente. Poi, a misura che il tempo passava, comparivano sul collo del cadavere le tracce di strangolamento e sul mio viso i segni delle graffiature ed ecchimosi prodottemi dalla vecchia. Furono queste le ragioni che insospettirono mio marito e gli altri parenti

La ricostruzione dei fatti fornita da Rosa non convince gli inquirenti e il 20 aprile 1939 viene arrestata con la pesantissima accusa di omicidio aggravato dalla parentela e dai futili motivi.

Interrogata  dal Procuratore del re, insiste nella sua versione dei fatti, ma aggiunge altri particolari che dovrebbero spiegare meglio tutto:

Mia suocera, ritenendo che io fossi stata la causa della sua caduta, mi si avventò contro colpendomi con un pugno all’occhio sinistro, poscia graffiandomi sul labbro e sulla guancia, dopo di che con ambo le mani mi strinse il collo ed io, per difendermi, istintivamente portai ambo le mani al collo di mia suocera e strinsi

Detta così sembrerebbe più credibile, ma il problema di Rosa De Luca è che tutto si è svolto senza testimoni e senza che i vicini abbiano sentito nulla. Ciò lascia pensare che si sia trattato di un’aggressione bella e buona. Ma dopo nove giorni da questo interrogatorio, Rosa viene di nuovo interrogata e ritratta tutto. Adesso dice che non ha mai avuto contrasti con la suocera e che nel giorno della morte non le ha usato violenza di sorta, affermando che Maria Le Pera morì in seguito a caduta dalla scala che porta al soppalco.

Il pensiero degli inquirenti su questa nuova versione dei fatti è ironicamente lapidaria: evidentemente in carcere le si erano fatti arrivare i suggerimenti opportuni.

Su di lei pesa, secondo gli inquirenti, sempre lo stesso, enorme macigno: una lunga lesione ecchimotica escoriativa sulle regioni antero-laterali del collo, all’altezza della laringe, che si estende dal punto medio del muscolo sterno-cleido-mastoideo di destra, al punto medio dello stesso muscolo di sinistra.

Ciò che, però, gli inquirenti non tengono in alcun conto è la ferita sulla fronte della vittima: come se l’è procurata? Nessuno, nemmeno i periti lo spiegano e nessuno, tantomeno, si preoccupa di cercare eventuali tracce di sangue sulla scala per accertare se la vecchia cadde veramente dalla scala, per essere certi se Rosa abbia detto la verità o meno. Nessuno spiega come la vittima si sia procurata le altre nove più o meno piccole lesioni che i periti necroscopi riscontrano sul cadavere e nessuno parla delle ecchimosi e graffi che Rosa ha sul viso. Certamente tutte queste lesioni dimostrano che ci fu una breve ma violenta colluttazione, ma chi ha cominciato?

Intendiamoci, nulla può giustificare la perdita di una vita umana, ma se Rosa avesse davvero stretto le mani al collo della suocera per difendersi?

I dubbi esistono, ma Rosa, con la sua fantasiosa, non credibile ritrattazione si è buttata la zappa sui piedi e il Procuratore Generale, premesso che non sia il caso di spendere troppe parole per affermare la responsabilità della prevenuta, che appare di cristallina chiarezza, ne chiede il rinvio a giudizio, richiesta che viene accolta dal Giudice Istruttore il 10 ottobre 1939. Ad occuparsi del caso sarà la Corte di Assise di Castrovillari.

Il dibattimento si svolge in due sole udienze, quelle dell’11 e 12 aprile 1940, durante le quali Rosa, dichiarandosi innocente, cambia ancora versione, assumendo che non ebbe alcuna colluttazione con la suocera e giustificandone la lesione quale conseguenza della caduta dalla scala ed in quanto alle proprie lesioni afferma che anche ella ebbe a procurarsele cadendo, precisamente nell’atto che accorreva in casa per dare aiuto alla suocera.

Il Pubblico Ministero, dopo avere ascoltato tutti i testimoni, chiede che sia ritirata l’aggravante dei futili motivi perché si rende conto che non reggerà al vaglio della Corte in quanto le ragioni di Rosa riguardo agli aspri contrasti con la suocera, dai motivi economici all’onore offeso, sfociati nella morte, sono seri. La difesa, da parte sua, chiede che il reato sia derubricato in omicidio colposo o, in subordine, in omicidio preterintenzionale col beneficio della provocazione.

La Corte sgombra subito il campo da possibili dubbi: la tardiva protesta di innocenza, con la quale la prevenuta ha creduto di ritrattare la originaria confessione di avere, cioè, strozzato la suocera in reazione ad una di costei violenza fisica, non riesce ad ingannare alcuno. Rosa De Luca ha certamente ucciso sua suocera, ma la Corte deve ancora spiegarne il come e il perché.

Certamente non si è trattato di omicidio colposo, avendo la prevenuta voluto non solo il fatto ma anche l’evento, come rileva la confessione: “l’afferrai per la gola e la lasciai quando non dava segni di vita”. La Corte non crede nemmeno che possa essersi trattato di eccesso colposo di legittima difesa poiché tale ipotesi è solo possibile quando l’omicida si sia trovato nello stato di legittima difesa e ne abbia varcato il limite e cioè sia andato al di là della necessità di difendersi. In concreto sarebbe assurdo, aberrante, innaturale ammettere che la vittima ottantaquattrenne abbia avuto, inerme, la temerarietà di aggredire e con le sue deboli, estenuate forze abbia potuto far correre pericolo di sorta all’aggredita cinquantenne e sana. Niente assicura, tranne la prevenuta, che ha interesse a mentire, che sia stata l’uccisa ad iniziare gli atti di violenza, né in tal senso può far prova la lesione riscontrata sulla prevenuta poiché, senza elevare il sospetto che possa trattarsi di auto-lesione a fini di alibi, nulla nega che possa essere stata cagionata dalla vittima in un supremo atto di difesa contro chi la soffocava.

Non può trattarsi nemmeno di omicidio preterintenzionale poiché la prevenuta confessò che non allentò la presa fino a quando non si accorse che la vittima era morta.

Il ragionamento della Corte per arrivare a determinare la natura del delitto continua con la spiegazione delle molteplici, lievi lesioni riscontrate sull’uccisa. L’imputata vorrebbe far credere che siano state conseguenza della caduta dalla scala, ma secondo la Corte fanno invece pensare, per la ubicazione di gran parte di esse, che sono state cagionate quando la vittima, non ingannandosi sulle intenzioni delle nuora, tentava sfuggire alle sue strette e questa, accecata dal desiderio della vendetta, trattenendola con una mano, come in una morsa, ora per un braccio, ora per l’altro, ora per il viso, lasciava i segni della sua violenza dappertutto, mentre con l’altra mano ripigliava o continuava l’operazione di strozzamento, fino a che la completò.

Chiariti tutti i dubbi, la Corte conclude che Rosa De Luca volle ottenere l’evento morte e deve rispondere di omicidio volontario.

Rimane ora da stabilire se sussista l’aggravante dei futili motivi o se, invece, sussista qualche circostanza attenuante.

Per quanto riguarda l’aggravante, la Corte ritiene che, essendo il fatto avvenuto nel giorno della scadenza del tributo fondiario di non lieve entità, vittima e imputata cercavano di discaricarsi a vicenda poiché entrambe non erano agiate e quindi il dissidio si sia riacceso con rinnovato rancore e ciò basterebbe a dubitare che i motivi che spinsero Rosa ad uccidere fossero futili.

La Corte, constatato che giornalmente la prevenuta veniva ingiuriata puttana ed incestuosa, ritiene che non sarebbe giustizia negarle la diminuente dello stato d’ira, essendo ovvio che ella, durante il litigio di natura economica, anche in quel giorno dovette subire l’atroce ingiuria o quanto meno dovette reagire sotto l’assillo del doloroso ricordo.

A questo punto, accertata la responsabilità di Rosa De Luca, stabilito che non sussiste l’aggravante dei futili motivi ma, al contrario, che l’imputata è meritevole dell’attenuante dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui, la Corte passa a determinare la pena da infliggere: 18 anni di reclusione, più pene accessorie.

In applicazione degli articoli 2,3 e 4 del R.D. 24 febbraio 1940 N. 56, la Corte dichiara condonati anni due della pena.

La vicenda giudiziaria di Rosa De Luca si conclude il 16 giugno 1950 quando con Decreto Presidenziale ha ottenuto il condono del resto della pena di anni 18 di reclusione, di cui anni sei condonati per indulto.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.