Pasquale Nicoletti, contadino da Cerchiara, residente in contrada Gagliardi, circa 14 anni or sono (1922 circa. Nda) condusse in isposa Margherita Santagada, dalla quale ebbe quattro figli. Ma sebbene la donna avesse serbato sempre condotta irreprensibile ed affettuosa, si mostrò verso di lei esigente, permaloso, manesco. Traendo occasione dal più lieve incidente od elevando a fatto colposo qualunque minuzia, egli sgridava aspramente la moglie, minacciava di ucciderla, le assestava pugni, schiaffi, calci, la percuoteva con qualunque oggetto si trovasse tra le mani (fosse pure un pungolo da buoi) e così la manteneva in istato di permanente intimidazione. La povera donna non si lamentava col padre di quanto le avveniva per tema che quegli, chiedendo spiegazioni al Nicoletti, venisse con lui a sanguinoso conflitto e quindi, non trovando altro modo come sottrarsi alla tracotanza del marito, spesso fuggiva dal tetto coniugale ed andava a cercare rifugio nelle abitazioni dei vicini. Non mancavano costoro di esortarla a separarsi dal Nicoletti, ma ella, attratta dall’amor verso i figliuoli, finiva col rientrare nella casa coniugale dove, a breve intervallo, i maltrattamenti ricominciavano con l’ordinaria insistenza e crudeltà. Sette od otto anni or sono (1928 o 1929 circa. Nda), il padre di lei, informato dal clamore pubblico della vita d’angoscia cui il marito la sottoponeva, ricorse per ben due volte al Maresciallo dei Reali Carabinieri e questi ammonì Nicoletti, ingiungendogli di mutar tenore di vita; Nicoletti promise di rispettare la moglie, ma poi si dimenticò la promessa e riprese l’antica abitudine.
Quando egli andava a lavorare in campagna, la moglie talvolta doveva accompagnarlo ed aiutarlo nei lavori agricoli. Avvenne un giorno che ella, stanca per lo sforzo sproporzionato al suo debole organismo, si fermò per riposare (doveva frantumare con la zappa le grosse zolle lasciate dall’aratro), ma allora il marito s’irritò e l’aggredì col pungolo, a fine di costringerla a seguire l’aratro. Come se avesse avuto a che fare con una bestia recalcitrante!
Quando ella fuggiva da casa, il marito la inseguiva a sassate e un giorno la colpì con un sasso sul fianco. Allorché i figli furono cresciuti, Nicoletti rivolse anche contro di essi la sua furia manesca, sicché la sua casa divenne una fucina di maltrattamenti a funzione continua. Santagada Antonio, padre di Margherita, non sapeva a qual rimedio ricorrere per far cessare un andazzo di cose che minacciava di divenire pericoloso e intanto esortava la figlia a sopportare i maltrattamenti, una volta che ella non voleva allontanarsi dal marito.
Le amiche di Margherita erano impressionate e scandalizzate gravemente pel fatto e qualcuna di esse manifestò meraviglia che ella non reagisse con violenza alle percosse del marito, violenza che qualunque altra donna al suo posto avrebbe adoperato; ma ella non si sentiva d’ingaggiare col marito una lotta di quella specie. Qualche amica le consigliava di tener in soggezione il marito minacciando di ricorrere alle Autorità, ma ella rispose: “se fo di tali minacce, mio marito mi uccide addirittura”.
Nel gennaio 1936, Nicoletti aveva venduto un quintale di vino della sua produzione (ascendente a tre quintali e mezzo) ed aveva lasciato nella botte i rimanenti quintali due e mezzo. Prima che la botte venisse chiusa, Margherita ne aveva prelevato due bottiglie e le aveva messe da parte, riservandole per proprio uso durante il periodo del puerperio, che prevedeva vicino essendo ella incinta al settimo mese.
L’otto febbraio successivo, Nicoletti, avendo acquistato certo pascolo da Palazzo Antonio, condusse costui in casa e volendo offrirgli da bere, prese una delle bottiglie anzidette, ne versò il contenuto in un boccale e partecipò col Palazzo alla consumazione del vino. Sopraggiunta, la moglie si avvide di ciò che era avvenuto ed adoperando la solita prudenza, fece buona accoglienza al Palazzo e si ritirò in un vano attiguo, dove lamentò che il marito le avesse tolto una delle bottiglie. Quando poi Palazzo fu uscito ed ella tornò presso il marito, riprese il suo contegno normale ed avendole Nicoletti chiesto cosa fosse avvenuto, continuò a tacere per paura di peggio. Fu allora che Nicoletti, interpretando il silenzio come offesa, la afferrò pei capelli, le diede diverse stratte, le assestò vari pugni sulla testa e, fattala stramazzare a terra, la colpì diverse volte con forti calci sull’addome. L’infelice fu sopraggiunta subito da imponente emorragia. Ebbe appena la forza di uscire di casa per andare a ricoverarsi da suo zio Pietro, lasciando macchie di sangue sul suo cammino.
Il Nicoletti, recatosi a trovarla mentre ella era in stato preagonico, aveva tentato di indurla a dichiarare ch’ella fosse caduta, ma il figlioletto di anni 11, che era presente, gli aveva detto: “si, sei stato tu che l’hai uccisa!”, mentre la donna non aveva potuto profferire parola. Poco prima di entrare in agonia, ella aveva espresso il desiderio di vedere i figliuoli per l’ultima volta e quindi, avendo appreso che il marito andava dicendo che ella fosse caduta, aveva esclamato: “pure se lo nega!”.
Nicoletti si allontanò dalla contrada Gagliardi e si recò in Cerchiara di Calabria dove, incontrati i Reali Carabinieri (già informati del fatto) e da essi richiesto, disse di aver lasciato la moglie agonizzante e di essersi colà recato per chiamare il medico che le prestasse aiuto. Dopo di che venne tratto in arresto.
Storia antica e sempre uguale a sé stessa.
L’autopsia fornisce sempre dati crudi e spesso raccapriccianti, come in questo caso. I calci assestati sul ventre gravido di Margherita, quel ventre che portava in sé anche il seme dell’assassino, causarono varie lesioni alla placenta e il suo distacco quasi completo, e quindi l’imponente, fatale emorragia. Fatale non solo per Margherita, ma anche per il frutto del suo seno, quel Gesù Bambino ammazzato dal padre prima di nascere, se padre può essere chiamato.
– Non ho mai maltrattato mia moglie – è la sua difesa, smentita prima di tutti dai suoi figli.
– Mai mai?
– Mai.
– E com’è che la mattina dell’otto febbraio l’hai picchiata a morte?
– Non è vero! Avevo invitato Antonio Palazzo e gli offrii due o tre bicchieri di vino. Mia moglie, trovato in casa Palazzo, gli disse: “hai fatto bene a venire”, ma poscia, voltegli le spalle con mal garbo, entrò nel vano vicino ove si trova la botte del vino. Tornata presso di me prese a borbottare chiamandomi debosciato ed esclamando: “Tinta mia! Che cosa mi capita oggi!”. Io, sorpreso da tale linguaggio e dall’improvviso mutato contegno di lei, le chiesi che cosa fosse avvenuto e, non avendo risposto, anzi essendo adirata ed avendo preso a strapparsi i capelli, credetti che fosse eccitata per qualche bicchiere di vino datole da suo zio Battista e quindi, per evitare chiassate e per farla allontanare giacché mi si era fatta dappresso, standole rimpetto le tirai un solo calcio sull’addome, facendola cadere a terra. Mia moglie si rialzò ed andò a rifugiarsi in casa dello zio Pietro.
Anche volendo ammettere, per assurdo, che sia andata come ha raccontato, la domanda è: vi sembra normale tirare calci in pancia alla propria donna, per giunta incinta al settimo mese, per farla allontanare?
No, non è normale, non può esserlo, non deve esserlo. Mai!
Il 20 agosto 1936 Pasquale Nicoletti viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari per avere l’8 febbraio 1936 e precedentemente, usato verso la propria moglie maltrattamenti dai quali derivò la morte.
Durante il dibattimento Pasquale Nicoletti non arretra di un millimetro e precisa che, nel dare il calcio alla moglie, era sua unica intenzione di impedirle di scalmanarsi e provocare subbuglio tra i parenti di lei, soggiungendo che, con l’avere offerto il vino al Palazzo, egli non aveva tolto alla moglie la possibilità di bere vino durante il puerperio giacché, dopo la vendita del quintale di vino, ne rimanevano nella botte altri due quintali e mezzo, di cui la famiglia poteva servirsi.
La Corte osserva che si sono raggiunte prove tali e tante, prime tra tutte le testimonianze dei figli, da non poter esserci alcun dubbio sulla responsabilità di Pasquale Nicoletti. E la Corte è anche convinta che il contegno paziente e remissivo dell’infelice Santagada, la quale soffriva tutto per non distaccarsi dai figli, non serviva che ad incoraggiare la furiosa condotta del marito che, progredendo nel malfare, accomunava i figli grandicelli nel suo odio e si rendeva insopportabile a tutta la famiglia. La specie dei maltrattamenti, la loro lunga durata, l’ostinazione da lui dimostrata nel perseverarvi malgrado l’intervento dei Reali Carabinieri, degli amici e dei vicini di casa, non lasciano dubbio sul dolo specifico da cui egli era assillato.
La difesa tenta di ottenere la concessione di attenuanti come di avere agito in istato di cronica intossicazione da alcool o, nell’ipotesi peggiore, in istato di minorata capacità di intendere e volere per effetto di condizioni patologiche da accertare con perizia psichiatrica.
La Corte respinge la prima richiesta perché né dal processo scritto, né dal dibattimento è emerso il benché minimo elemento di prova da cui possa intuirsi che il Nicoletti fosse dedito al vino od a bevande alcooliche o ne avesse abusato in determinati periodi e nemmeno che ne avesse fatto uso moderato. Anzi, è accertato che Nicoletti considerava il vino di sua produzione come merce preziosa da custodirsi con tutta cura (col prezzo da ricavarne doveva acquistare il grano mancante alla famiglia), tanto che, dopo aver venduto il quintale di vino, aveva chiuso la botte ed a tale atto attribuiva tanta importanza che la moglie, per evitare che la botte venisse nuovamente aperta, ne prelevò due bottiglie che dovevano servirle pel puerperio e che dovevano bastarle per 20 o 30 giorni, durante i quali ne avrebbe bevuto un sorso ogni tanto. Egli stesso afferma che la bottiglia di vino da lui presa la sera dell’otto febbraio fu quasi per intero consumata da Palazzo sicché, se non risulta che egli fosse del tutto astemio, non v’è prova che egli bevesse di frequente o si ubriacasse e tanto meno che versasse in istato di cronica intossicazione da alcool. Lo stesso discorso vale per la richiesta di sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica volta ad ottenere una diagnosi di minorata capacità di intendere e volere: nei suoi interrogatori egli si è mostrato logico e coerente, sostenendo sempre la tesi di non aver voluto uccidere la moglie e di averle assestato il calcio per indurla a tacere, ciò che può bene mettersi in armonia con la sua indole prepotente e soverchiatrice. Non riscontrandosi in lui alcuna traccia di affezione patologica, non è il caso di disporre la richiesta perizia psichiatrica.
L’ostinazione di Nicoletti nel sostenere di non avere mai maltrattato sua moglie e di non avere avuto intenzione di ucciderla, potrebbe far sorgere il dubbio che possa non trattarsi del reato di maltrattamenti seguiti da morte, ma di semplice omicidio colposo. La Corte chiarisce anche questo dubbio: in ordine poi alla definizione giuridica del reato, è ovvio rilevare che l’episodio dell’otto febbraio non può essere considerato e vagliato isolatamente, non può essere cioè scisso dalla condotta precedente dell’imputato, in modo da formare un episodio per sé stante e ciò perché esso rappresenta il culmine di una serie di azioni che aveva avuto inizio già dai primi giorni della vita coniugale del Nicoletti e si era protratta lungamente, proprio sino a quella sera, rendendo così manifesto che Nicoletti agiva con la solita intenzione maliziosa di opprimere la moglie, sopraffarla con atti di prepotenza, amareggiarle la vita. Il dolo da cui egli era animato quella sera, e da cui era stato animato in precedenza, esclude che egli avesse commesso il fatto per imprudenza, negligenza, inosservanza di regolamenti, ordini o discipline, sicché manca al fatto ogni nota perché esso possa definirsi come omicidio colposo, a prescindere che, se anche l’episodio fosse stato isolato (ciò che deve assolutamente escludersi), mal si sarebbe potuto sostenere che fosse soltanto imprudente l’azione di un marito che, senza motivo alcuno, assesti diversi calci sull’ipogastrio della moglie incinta al settimo mese. Né può dubitarsi che i calci fossero stati diversi, giacché se il figlio di 11 anni affermò in primo tempo di aver veduto il padre dare alla madre un solo calcio, in dibattimento aggiunse di aver saputo dalla propria sorella che i calci erano stati quattro o cinque, versione che trova pieno riscontro nei risultati dell’autopsia, avendo i periti costatato che sull’addome erano stati tirati ripetuti colpi.
Allora la difesa invoca le attenuanti dello stato d’ira e dell’elisione delle conseguenze dannose del reato. La Corte respinge anche queste. Per quanto riguarda lo stato d’ira, spiega: anche, infatti, nell’ipotesi che egli avesse agito in istato d’ira (ciò che non è inverosimile, dato il suo temperamento impulsivo e prepotente), quello stato non sarebbe mai derivato da fatto ingiusto della moglie. La vita coniugale di Margherita Santagada, madre di famiglia di specchiata onestà e di teneri sentimenti, fu un purgatorio, un continuo martirio sopportato con cristiana rassegnazione. Soltanto ad un animo crudo come quello del Nicoletti, l’umile e modesta pretesa della donna di avere per sé due bottiglie di vino per il puerperio avrebbe potuto sembrare esagerata.
In ordine alla elisione delle conseguenze dannose del reato, la Corte osserva essere vero che, poco dopo il fatto, quando forse la donna era già morta o indubbiamente quando era in agonia, Nicoletti fu veduto a Cerchiara ed ai Reali Carabinieri dichiarò di essersi colà recato per chiamare un medico, ma di tale sua intenzione non si ha prova alcuna e comunque la sola gita a Cerchiara non basta ad integrare gli estremi richiesti per l’ammissione dell’attenuante, essendo necessario che l’agente si sia spontaneamente ed efficacemente adoperato per elidere od attenuare le conseguenze dannose del reato, mentre è certo che egli, in casa di Pietro Santagada, voleva indurre la moglie a dichiarare di essere caduta.
È ormai tempo di emettere la sentenza.
La Corte dichiara Pasquale Nicoletti colpevole di avere l’8 febbraio 1936 e precedentemente usato verso la propria moglie Santagada Margherita, maltrattamenti dai quali derivò la morte e lo condanna a 16 anni di reclusione, più pene accessorie e il risarcimento del danno al padre di Margherita costituitosi parte civile.
Il 22 marzo 1938 la Corte d’Assise di Castrovillari, applicando il Regio Decreto di indulto N. 77 del 15 febbraio 1937, dichiara condonati 4 anni della pena.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.