La sera del 10 maggio 1936, in uno dei fabbricati di Via Girolamo Savonarola a Pietrafitta, Giuseppina Capisciolto sta finendo di preparare la sua povera cena. Immersa nei suoi pensieri rimesta una minestra di erbe selvatiche, quando all’improvviso viene distolta dalle urla strazianti del suo vicino Domenico Malito:
– Accorrete che mi stanno ammazzando!… Perché mi ammazzate, che cosa vi ho fatto?… Aiuto!… Non vi ho fatto nulla!… Ohi Maronna mia r’u Carmine!
In un attimo Giuseppina toglie la casseruola dal focolare e si precipita in quella casa composta di due vani a primo piano e di un terrano, al quale puossi accedere internamente mercé scala in legno, che mette capo ad una botola. La porta è chiusa ma è mezza sgangherata e Giuseppina non si perde d’animo. Con una spallata la spalanca e si trova davanti il vecchio Domenico disteso a terra che si lamenta:
– Ohi Maronna mia r’u Carmine… ohi Maronna mia…
Ad un passo dal vecchio ci sono le figlie Marietta, rachitica e storpia di 34 anni, seduta su di una sedia che lo guarda, e Giulietta, 22 anni, con una scure in mano e visibilmente alterata. Giuseppina spalanca la bocca per la sorpresa e si copre il viso con le mani, sta per dire qualcosa, ma Giulietta la gela:
– Che vuoi fare tu? È mio padre e posso bastonarlo come mi pare e piace! – si ferma un attimo per togliersi una ciocca di capelli che le copre gli occhi e continua – Lo dobbiamo ammazzare perché voleva menarci… vattene se non vuoi che ammazzi anche te!
E così dicendo spinge fuori la vicina, richiudendo la porta alla bell’e meglio. Giuseppina, inorridita per quello che ha appena visto, si mette a gridare per chiedere aiuto. Per primi arrivano Rosario, il figlio minore di Domenico, e Salvatore Tancredi, un amico di famiglia, i quali, forzata di nuovo la porta, trovano Giulietta in ginocchio accanto alla testa del padre con la scure alzata e Marietta, ancora seduta, che si mette a urlare:
– Disgrazia mia! Ha ammazzato papà!
– Giuliè… ma che cosa hai fatto? Perché hai ammazzato tuo padre?
Sconvolta, Giulietta risponde:
– Mi insultava continuamente…
– In che senso?
– Lo spiegherò soltanto alla Giustizia – dice lapidaria, poi si chiude in un ostinato silenzio fino a che, poco dopo, arrivano il Carabiniere Anselmi ed i militi forestali Fontana e Chiappini che interrogano le due sorelle. Marietta non risponde, continuando a dondolarsi sulla sedia, mentre Giulietta, tenendo fede alla sua promessa, parla:
– Mia sorella non c’entra, lo ammazzai io perché si ritirò ubbriaco fradicio come faceva ogni sera e voleva bastonarci…
Un po’ troppo poco per giustificare un parricidio. E poi, si chiedono i Carabinieri dopo aver raccolto la testimonianza di Giuseppina Capisciolto che ha riferito le parole del vecchio, come mai il primo pensiero di Giulietta è stato quello di scagionare sua sorella, quando la vittima ha parlato al plurale? Certamente sono corree e le arrestano, sperando che, come al solito, una notte in camera di sicurezza sciolga le lingue dei sospettati. Interrogate la mattina dopo, Marietta continua a dichiararsi estranea ai fatti – e ci sarebbe da crederle, viste le sue misere condizioni fisiche – mentre Giulietta modifica la sua prima, scarna confessione:
– Dopo la morte di mia madre fui rinchiusa nell’orfanotrofio Stella di Catanzaro, ove rimasi nove anni e da tre anni sono ritornata nella casa domestica. Da quel giorno non ebbi mai pace perché mio padre era un uomo strano, uno scombinato. Spesso si ritirava brillo… mi molestava continuamente, tentando di toccarmi il seno e le parti pudende. Io, però sempre accorta, gli trattenevo la mano, impedendogli di realizzare le sue brutte intenzioni – si ferma a riprendere fiato, poi continua… – la sera del 10, verso le sette, si ritirò… sedette vicino a noi presso al focolare e cominciò subito a dirmi delle ingiurie, come al solito… – prende un fazzoletto e si soffia il naso – svergognata, faccia tosta, partorita… mi afferrò per i capelli, ma io mi svincolai; prese una scure… sollecita, gliela strappai di mano. Allora disse che avrebbe adoperato il coltello… intimorita mi decisi di dargli un colpo sulla testa col dorso della scure. Mio padre cadde ed io continuai a colpirlo, perché sicura che se fosse sopravvissuto, mi avrebbe ammazzata…
C’è qualcosa che non quadra perché secondo Giulietta tutto si sarebbe svolto in un’unica soluzione, mentre secondo il racconto di Giuseppina l’azione deve essere divisa in due: quando entrò la prima volta il vecchio era vivo, mentre quando rientrò per la seconda volta in compagnia il vecchio era morto e Giulietta aveva ancora la scure alzata.
La ragazza si decide a dire qualcos’altro quattro mesi dopo, ma solo per cambiare leggermente versione:
– Quella sera mio padre cominciò a dirci a mezza voce delle parolacce e poscia tentò di toccarmi le mammelle, mentre con gli occhi mi faceva segno verso le parti pudende, lasciandomi comprendere che voleva congiungersi carnalmente con me… fece l’atto di alzarmi le vesti dopo essersi chinato a terra, fingendo di aggiustarsi i pantaloni, ma io lo tenevo lontano con la mano, facendogli con le sopracciglia segno di diniego. Ad un dato momento si alzò irritato… brandì l’accetta… io gli tolsi l’arma e lo colpii violentemente un paio di volte… ero come accecata e non sapevo più quello che facessi… più volte, dopo il mio ritorno da Catanzaro, mio padre aveva tentato di farmi toccamenti lascivi, trovandomi sempre contraria; egli, cogliendo l’occasione in cui ci trovavamo soli, mi mostrava il membro virile e mi invitava all’amplesso dicendomi, allo scopo di allettarmi, che non lo avrebbe introdotto del tutto nei miei genitali e che avrebbe fatto in modo da non farmi uscire incinta…
Crederle? Non crederle? Ciò che pensano gli inquirenti – e ne rimangono sconcertati per il comune intendere la vita – è che in quella maledetta sera sembra non esserci stato nulla di veramente serio da giustificare un delitto tanto orrendo.
Forse che l’esasperazione per i continui tentativi incestuosi ed i continui maltrattamenti subiti non sia sufficiente ad avere una reazione incontrollata e violenta? Potrebbe essere, pensano gli inquirenti, ammesso che il racconto di Giulietta sia vero, perché fino a questo punto dai testimoni non si sono apprese informazioni tali da confermare le parole della ragazza.
Dopo un paio di settimane Giulietta viene di nuovo interrogata e cambia ancora versione sulla sera del parricidio, ma forse questa è la volta buona:
– Insisto nell’affermare che mio padre, quando rimanevamo soli, tentava continuamente di costringermi ai suoi voleri… – poi si ferma, asciuga gli occhi con il dorso della mano e, finalmente, parla di quella sera – ci fu un litigio tra lui e Marietta… si irritò e si scagliò contro di lei percuotendola… poi cominciò a dire che quella sera doveva ammazzarci – si ferma ancora per battersi ripetutamente il pugno sulla fronte, mentre le lacrime le scendono sul viso, ma nonostante tutto la sua voce è ferma, decisa – io mi alzai dalla sedia, afferrai la scure e mi feci contro mio padre. Lui allora gridò: “Aiuto, Madonna mia mi ammazzano!” e mi voltò le spalle mentre io gli assestavo un colpo alla nuca col dorso della scure… cadde supino… e pronunciò le parole: “Madonna mia aiutami”. Dalla porta si affacciò la nostra vicina Giuseppina Capisciolto… la invitai ad andarsene ed a farsi i fatti suoi. Poi chiusi la porta con i chiavistelli. Ritornata presso mio padre, nella convinzione che non potesse più salvarsi, per abbreviargli le sofferenze gli ho dato ancora qualche colpo… credetemi, quello che ho detto oggi è la pura verità. Per quanto riguarda la condotta tenuta verso di me da mio padre, mi riporto a quanto ho già dichiarato… – respira profondamente e guarda negli occhi il Giudice Istruttore – accetterò qualsiasi condanna come una penitenza venutami da Dio, per quanto è certo che senza alcun grave motivo, non avrei alzato le mani contro mio padre… prima che mi alzassi dalla sedia, mio padre pronunziò minacce di morte, ma non brandì la scure o altro ordigno offensivo…
No, non è credibile per la Procura, convinta che ci sia sotto dell’altro. Per esempio la scoperta, da parte del vecchio, che Giulietta aveva perso l’onore, quindi la figlia lo uccise per questo motivo. Se così fosse stato, Giulietta non dovrebbe essere più vergine, ma per verificarlo serve una perizia ed il 5 ottobre 1936 la ragazza viene sottoposta a visita ginecologica. Però quando il Magistrato legge il referto rimane con un palmo di naso: fisicamente vergine.
Non riuscendo a trovare un movente abbastanza grave da giustificare il delitto e sempre convinto del concorso di Marietta, il Magistrato pensa bene di contestare ad entrambe anche le aggravanti della premeditazione e dei futili motivi e ne richiede il rinvio a giudizio con accuse da pena di morte. Il Giudice Istruttore, da parte sua, il 13 aprile 1937, non riscontra elementi a carico della povera Marietta e la proscioglie per non aver commesso il fatto. Giulietta, invece, dovrà affrontare il giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di parricidio con l’aggravante del futile motivo, specificando che ricorre l’aggravante perché, esclusa la causale di interesse, di difesa della vita, di difesa dell’onore, deve concludere che Malito Giulietta agì come un bruto sotto la spinta causata da un fatto non ingiusto del padre ed in ogni caso a seguito di un trascurabile incidente, assolutamente sproporzionato a così grave delitto. La premeditazione è esclusa.
Il dibattimento inizia il 2 febbraio 1938 e subito Giulietta cambia di nuovo versione:
– Ho ucciso mio padre perché, a mano armata di coltello, voleva costringermi a congiunzione carnale.
Nelle due udienze successive, il dibattimento serve proprio per questo, finalmente si aprono delle crepe nel muro del silenzio.
– Aveva tendenze all’incesto e non vi ha nulla di incredibile che potesse bramare anche il congresso carnale con la figlia – giura qualche testimone.
– Qualche tempo prima aveva attentato all’onore dell’altra figlia Giovannina – dicono Ludovico e Salvatore Tancredi.
– Si ubriacava ogni sera… non fu un buon marito, la buonanima della moglie soleva lamentarsi di essere non solo maltrattata, ma di mancar del necessario. E non fu nemmeno un buon padre perché la figlia Marietta, la rachitica, mi confidò che il padre era una bestia, che non sentiva alcun affetto paterno, né tampoco il vincolo del sangue, al segno che ella e la sorella Giovannina erano state costrette a trasportarsi il letto nel vano terrano per isolarsi da lui! – giura Emilia Clausi.
Ma la crepa più grossa la apre Rosario Malito, fratello di Giulietta e figlio del morto:
– Quando morì mia madre, mio padre serbò una cattiva condotta e pretendeva che prima mia sorella Giovannina e poi mia sorella Giulietta gli concedessero i loro favori.
A questo punto il Pubblico Ministero chiede che, tolta l’aggravante della futilità del motivo, l’imputata sia condannata all’ergastolo. La pena di morte è scongiurata. La difesa, dal canto suo, invoca la legittima difesa o, in subordine, l’eccesso di legittima difesa o, ancora più in subordine, la diminuente della provocazione.
La Corte osserva che, anche non essendoci dubbi sulle responsabilità dell’imputata, ciò nondimeno la rubrica nei suoi confronti va modificata in parte, non solo perché deve andare assolta dalla aggravante del futile motivo (come ha riconosciuto anche il Pubblico Ministero) avendo ella agito per più motivi, di cui uno assai grave, ma devesi concederle l’attenuante dello stato d’ira, determinato dal fatto ingiusto dell’ucciso il quale, dimentico dei suoi doveri di padre, non ebbe ritegno di chiedere e pretendere dalla figlia congressi carnali. Finalmente qualcuno che le crede! Poi la Corte va all’attacco della Procura del re e del Giudice Istruttore: Il Giudice Istruttore poté negare che la prevenuta sia mai stata dal padre insidiata nel pudore e nell’onore ed affermare l’aggravante del futile motivo perché non diede sufficiente rilievo agli elementi che offriva il processo. Già il fatto che una vergine, dagli ottimi precedenti penali e dai costumi che più anni di vita monacale le han reso illibati, si sia decisa ad uccidere il padre con strana ferocia (ella, infatti, dopo averlo ferito a morte itera i colpi, quasi a sanzionarsi del suo stesso delitto) e non consente che altri intervenga in aiuto del moribondo, dimostra che il padre le era divenuto odiosamente nemico, il che non può essere avvenuto, come è intuitivo, che per una causale serissima. Non si fa la strage del padre per capriccio o per futile motivo perché la ragione, l’istinto, l’educazione spingono a difenderlo e ad onorarlo, piuttosto che a distruggerlo. L’avere affermato che ricorra l’aggravante del futile motivo è erroneo sia perché non si è tenuto conto che la prevenuta, figlia di un alcolizzato, di carattere ipocondriaco e violento (come viene descritto), deve avere indubbiamente delle tare psichiche congenite, onde un motivo che per il tipo normale sarebbe indifferente, per lei piglia impronta e sostanza di fatto provocatore il quale, nella valutazione dei moventi a delinquere deve essere tenuto presente, sia perché l’imputata fu indotta al delitto da un motivo assai grave. Ella ha affermato, in tutti i suoi interrogatori, che da quando è ritornata nella casa paterna ha dovuto subire l’onta di proposte oscene, di lascivi toccamenti, di scandalose esibizioni dell’asta virile per cui nel suo disgusto e nelle sue spiegabili rivolte ha accumulato contro il vecchio satiro, sordo alla voce del sangue, sempre più sdegno e disistima, fino al punto di non poterlo più sopportare. Invano nella carte processuali si cerca una categorica smentita a tale affermazione né basta, per ritenere l’imputata menzognera o calunniatrice, la sola circostanza generica che alcuni testi hanno dichiarato che l’ucciso fosse un uomo dabbene. Il processo offre anzi più di un elemento per dar credito alle affermazioni della prevenuta.
Inoltre, l’efficacia della testimonianza di Rosario Malito non può disconoscersi! Non è da pensare, invero, che un figlio ricorra alla calunnia a danno del padre trucemente ucciso o ne macchi ignominiosamente la memoria per il trascurabile interesse di creare un’attenuante ad una sorella che, per essere colpevole di parricidio (ove mancasse al delitto la ragion d’onore) sarebbe indegna di qualsiasi aiuto.
La verità è che il vecchio Malito era ogni giorno ubriaco e la sbornia non era fatta per creargli le migliori condizioni, perché il senso tacesse e rimanesse immacolato l’affetto verso la figlia, quindi è facile che al cospetto della figlia, giovane e piacente, non sentisse la naturale voce del sangue e vedesse invece soltanto la femmina che poteva dargli l’amore, ma nella sua manifestazione più bestiale, tanto più che la figlia, per essere stata parecchi anni assente da casa, era divenuta quasi estranea a quel padre cui l’alcool aveva tolto gran parte della sensibilità.
Non sarebbe far buon uso delle prove, se si negasse che l’ucciso solea tenere in casa un contegno incestuoso, attirandosi il disprezzo e l’odio della figlia Giulietta la quale, quando giunse al culmine delle sue sopportazioni, quando cioè l’assillo degli attentati al suo onore superò la prova della impostasi rassegnazione e calma, fu sufficiente l’occasione di un diverbio tra il padre e la sorella inferma perché scoppiasse nel suo animo violento e selvaggio la rivolta infrenabile e divenisse parricida. E questa è la causa scatenante, la goccia che fa traboccare il vaso, che era già colmo. Viceversa, la causa efficiente del parricidio fu l’offesa continua e caparbia fatta al pudore ed all’onore della vergine, giornalmente insidiata.
La Corte quindi accoglie la richiesta della difesa riguardo l’attenuante dello stato d’ira, ma ne rigetta la richiesta principale, la legittima difesa perché, sebbene Giulietta fosse giornalmente insidiata, non ha corso mai serio pericolo, onde non ricorrono le condizioni che potrebbero legittimare la difesa. Quella sera fatale, lo confessa la stessa Giulietta, nessun diritto apprezzabile suo o di altri corse serio pericolo e ch’ella uccise senza necessità per sfogo di odio e per punire, non per difendersi.
E questo è un problema per Giulietta perché la Corte ritiene che non può indulgere sulla quantità della pena e deve irrogare il massimo, sia perché si tratta di parricidio (il più grave dei delitti) per giunta commesso con inusitata ferocia, sia perché detto delitto, nonostante le provocazioni, poteva essere evitato, vuoi perché la prevenuta, confidando nella sua forza fisica, avea ben la certezza che mai il padre l’avrebbe piegata ai suoi turpi voleri, vuoi perché ella, se avesse dubitato delle sue resistenze, doveva abbandonare quella casa in tempo prima di saturarsi di odio, andando a trovarsi un onesto rifugio, come le fu offerto perché richiesta quale cameriera. Se così avesse fatto, ed era facile farlo, il di lei padre vivrebbe ancora ed ella non avrebbe le mani sporche di sangue paterno!
Ma la Corte non si chiede perché Giulietta ha rifiutato il posto di cameriera: perché così facendo avrebbe lasciato la sorella Marietta, rachitica e storpia, in balìa del padre.
Riportando in cifre il ragionamento della Corte, fanno 24 anni di reclusione più pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.