DON STANU ‘U CAPITUNE

Le ombre della sera sono già calate sulla città e i lampioni a gas illuminano fiocamente le strade principali. È fine novembre 1901 e fa già molto freddo. A Piazza Valdesi gli uomini entrano ed escono dai caffè e dalle bettole per bere in pace un bicchiere dopo una giornata di duro lavoro, qualcuno si ferma in un angolo per orinare. Stano De Luca passeggia tranquillamente attraversando il ponte di San Domenico quando la sua attenzione è attirata dallo sbraitare di qualcuno. Incuriosito, si avvicina a un gruppo di persone e vede il biscazziere (giocoliere ambulante come viene chiamato in quest’epoca), Antonio Arnieri che ha qualcosa da ridire contro i propri concittadini. Volendo capire meglio con chi, in particolare, ce l’abbia, si avvicina ancora di più e Arnieri, evidentemente ubriaco, lo vede. Subito lo apostrofa:

Dicono che vi è un tal Stanuzzo De Luca che fa il gradasso, ma io son buono a farlo stare a posto; glielo debbo mettere in culo e in bocca.

Don Stano, poco più che ventenne, non cade nella provocazione, c’è troppa gente, e lo invita alla calma, ma l’altro per tutta risposta gli dà uno spintone continuando a dirgliene di tutti i colori. La misura ormai è colma e De Luca gli molla un sonoro ceffone. Qualcuno interviene e li divide, ma non può finire così. Stano se ne va, ripassa il ponte ed entra nel Caffè del Popolo, dove la fa da padrone. È furibondo. Da dietro i vetri controlla se e quando Arnieri per tornare a casa passerà davanti al caffè e finalmente lo vede. Esce per strada, lo ferma e lo prende a braccetto per condurlo a forza nel vicolo della Mortilla che è buio e sicuro, anche se passano da lì i cocchieri di Rizzo per ricoverare animali e carrozze nelle stalle. Ma i cocchieri sono quasi tutti amici e non c’è da preoccuparsi.

I due entrano nel vicolo e Stano salta addosso ad Arnieri. La colluttazione è furibonda, i due finiscono a terra e si rotolano dandosele di santa ragione. Poi, all’improvviso, nel buio della notte il luccichio di una lama. È un attimo. Il viso di Antonio Arnieri è sfregiato per sempre. Ma il biscazziere non si dà per vinto ed estrae dalla tasca della giacca una rivoltella e fa fuoco contro Stano che si sta già allontanando, ma senza colpirlo. Spara ancora, poi viene bloccato da tre cocchieri che sono accorsi alle grida dell’uomo ferito. Mentre lo disarmano, Arnieri riesce a scappare e si dilegua nel buio come Stano De Luca.

Quando, dopo qualche giorno, Arnieri viene rintracciato, si rifiuta categoricamente di sporgere querela contro Don Stano e, a fine anno, entrambi sono rinviati a giudizio a piede libero.

Già da tempo è notorio che in città esiste un’associazione di delinquenti, la Società della Mala Vita, e che Stanislao De Luca, don Stano, ne è il capo incontrastato, anche se nessuno osa dirlo apertamente.

Tutti parlano di questa Società come di un’entità certamente pericolosa, ma nessuno che dica qualcosa di concreto, né tantomeno Carabinieri e Pubblica Sicurezza riescono a scoprirne niente. Si  continua ad arrestare molti pregiudicati per i singoli reati commessi ma non si riesce, in realtà nessuno ci pensa nemmeno, a collegarli tra di loro in modo organico.

In questa situazione Stanuzzu De Luca, ‘U Capitune come ormai lo chiamano, impone il suo potere con l’arma che gli è più congeniale: il rasoio.

La sera del 6 gennaio 1902 la befana sta per ritirarsi e andare a riposarsi dopo avere portato i suoi poveri o ricchi doni, dipende. Nel centro di Cosenza non c’è voglia di riposo e compagnie di amici affollano caffè e ristoranti. Nel Caffè del Popolo, Stanuzzo sta passando anche l’epifania, in fondo è quasi il suo quartier generale, e se ne sta seduto in compagnia di un forestiero con i baffi rossi a trattare chissà quali affari.

Accanto al tavolo occupato da Stanuzzo ce ne sono altri due. Al primo sono seduti Nicola Falbo, negoziante, Antonio ‘U Capone, calzolaio, Cesare Alemanni, caffettiere, vecchia conoscenza delle aule di Giustizia, e Gaspare Del Buono, macellaio; all’altro tavolo sono seduti Ernesto Marino, studente, Giuseppe Gervasi, Domenico Alemanni, Eugenio Pellegrini, benestante, e Vittorio Caputo Artese, benestante.

Tutti discutono tra loro di affari o di facezie, mentre piatti e bottiglie se ne vanno vuoti e tornano pieni. Poi, al tavolo dove sono seduti Cesare Alemanni e Nicola Falbo la discussione si accende. I due cominciano a litigare quando Alemanni rinfaccia a Falbo con epiteti irripetibili di averlo, tempo prima, minacciato con un coltello. Gli urla che lo avrebbe malmenato di brutto, al che Falbo gli risponde che, se ci avesse provato, gli avrebbe sparato e nel dire ciò estrae dalla tasca una rivoltella. Cesare Alemanni e il fratello Domenico gli si lanciano addosso per disarmarlo e riescono a prenderlo per le braccia, rendendolo, così, inoffensivo, mentre molti dei presenti alla vista dell’arma pensano bene di svignarsela. Stano De Luca, rimasto seduto impassibile al suo tavolo, si alza, estrae di tasca il suo inseparabile rasoio e con un movimento fulmineo mena due fendenti in faccia a Nicola Falbo, sfigurandolo per il resto dei suoi giorni. Prima di allontanarsi dal caffè lancia un avvertimento non solo a Falbo ma a tutta la città:

Dove sono io nessuno si deve permettere di cacciare armi.

Don Stano si va a nascondere dalle parti di Donnici e manda a prendere con una carrozza Cesare Alemanni per imporgli di accusarsi del ferimento di Nicola Falbo, ma Alemanni, nonostante abbia paura di Stano, non vuole sentire ragioni, spiegando che non vuole andare in galera per quella leggerezza e che, comunque, ha due fratelli pronti a difenderlo, in caso gli fosse capitata qualcosa di brutto. Non basta. De Luca insiste e due o tre giorni dopo il ferimento di Nicola Falbo, manda Francesco Sirianni a parlare con Cesare Alemanni:

Tu devi assolutamente accollarti il ferimento del Falbo, o deve accollarselo uno dei tuoi fratelli perché a voi compete il beneficio della legittima difesa.

Come, Stanislao De Luca ha avuto il prurito di ferirlo perché dice egli essere una gran cosa, e vuole ora addossare a me il reato?gli risponde, per nulla intimorito, Alemanni.

Quella stessa sera, dopo che gli si sono presentati a casa tre loschi individui per minacciarlo, Cesare Alemanni pensa di andare alla locanda De Felice dove sa che troverà un altro compare di don Stano, Francesco Cundari, che si apparta sempre lì per farsi consegnare la camorra giornaliera dai venditori ambulanti taglieggiati.

Cundari sta parlando con un tale Pasquale Cimmino, la moglie di questi e Pasquale Ranieri, impiegato nella Cancelleria del Tribunale. Aspetta che finiscano i loro impicci e lo chiama da parte.

Questo non può pretenderlo da me, né dai miei fratelli. Digli che se continua a insistere e minacciare vado a cantare tutto dal procuratore – gli dice d’un fiato senza aspettare repliche. Una vera ribellione!

 Dopo parecchi giorni Cesare Alemanni e don Stano si incontrano nella bottiglieria del vico S. Giovanni e Alemanni dice a don Stano che deve parlargli. I due scendono sulla sponda del fiume sottostante e cominciano a discutere:

Non puoi pretendere da me che sono padre di figli un sacrificio così grande – si lamenta Cesare.

Io devo rispondere soltanto dello sfregio sul viso ma della ferita che il Falbo ha sul collo e che è stata dichiarata pericolosa di vita deve rispondere Gervasi Giuseppe, poiché egli l’ha inferta – gli risponde secco don Stano. Pare proprio che il capro espiatorio sia stato trovato e Cesare, a queste parole, si sente tranquillizzato, così i due si lasciano cordialmente, almeno così sembra ad Alemanni, il quale torna nel caffè che gestisce.

Ma non è ancora finita. Poco dopo gli si presenta proprio Giuseppe Gervasi che si lamenta:

De Luca vuole ora imputare a me il ferimento del Falbo, io, giacché è questo, canterò tutto.

Che vuol dire questo cantare tutto? eravate forse d’accordo per compromettere gli altri? – Gervasi, sconsolato, senza dire nient’altro, se ne va. No, nemmeno Gervasi si presta a fare da capro espiatorio, fare la galera da innocente è brutto.

Gli inquirenti, non sapendo che pesci prendere perché nessuno parla e prove concrete non ce ne sono, arrestano Nicola Falbo, che è ricoverato in ospedale, per tentato omicidio, mentre Cesare Alemanni e Stanislao De Luca sono denunciati a piede libero.

Ma don Stano, temendo che qualcuno possa tradire, lavora ancora più alacremente per cercare di addossare la responsabilità su Alemanni e tenta, attraverso un sottile gioco di equivoci, di costruirsi un alibi.

Qualche mese dopo, nell’ aprile 1902, quando finalmente sarà interrogato dal giudice, Stano fornisce i nomi di Giuseppe Prezio e Luigi Caruso i quali, a suo dire, possono testimoniare che a ferire Nicola Falbo è stato Cesare Alemanni, ma non viene accontentato come vorrebbe, fare il carcere da innocente non piace a nessuno, lo abbiamo già detto.

Giuseppe Prezio, infatti, nega recisamente che alla sua presenza Luigi Caruso abbia mai nominato Cesare Alemanni. Riferisce però che Stano De Luca, parlando con Luigi Caruso, ha rimarcato la propria estraneità ai fatti, come a volersene scusare:

Hai visto? Tutti quanti dicono che sono stato io a ferire il Falbo, mentre te lo giuro, io non so niente del fatto perché me ne ero uscito dal Caffè del Popolo assai prima che fosse avvenuto. Tu forse, come parente del Falbo, ce l’hai con me, ma io non ho fatto nulla a lui.

Luigi Caruso conferma le parole di Prezio, affermando che mai avrebbe fatto a Stano De Luca il nome di Cesare Alemanni, ma ammette che in ospedale ha sentito Nicola Falbo, completamente ubriaco, dire di essere stato ferito da Cesare Alemanni.

Quest’ultimo è quasi quotidianamente minacciato affinché si convinca ad accusarsi del fatto, ma resiste strenuamente fino a quando, il 26 aprile 1902, trova il coraggio di denunciare tutto al giudice. E le sue parole sono esemplari per tratteggiare la condizione in cui versa la città agli inizi del 1902:

Io ebbi paura del De Luca Stanislao e cercai di accattivarmelo e tenerlo contento poiché egli notoriamente si ritiene il capo dell’associazione “La Malavita”. E le parole da lui profferite a giustificazione delle lesioni inferte a Falbo Nicola: “Dove sono io nessuno si deve permettere di cacciare armi” si spiegano appunto nel senso che esso De Luca impera sovrano nei pubblici ritrovi. Fu per detta paura che io lo accompagnai a Donnici…[1]

Siamo ormai nel pieno della primavera del 1902 e dall’Epifania molte cose sono cambiate. La situazione in città non è più la stessa di prima. Qualcosa sta per cambiare.

[1] ASCS, Processi Penali.