CAMORRISTI

Carcere di Cosenza

E’ l’agosto del 1870. Già da una settimana molti dei venti reclusi nella camerata numero 4 del carcere di Cosenza (Francesco Capizzano, Gioacchino Rango, Leonardo Lo Prete, Giuseppe Rocchetti, Giuseppe Perrotta, Michele Pataracchio, Umile Cariati, Giuseppe Tripicchio, Pasquale Cariati, Francesco Sansone, Gioacchino Chianelli, Domenico Parise, Nicola Parise, Luigi Panaro, Domenico Scarcella, Giuseppe Stilo, Francesco Sammarro, Gabriele Barletta, Giovanni Battista Copolillo, Gaetano Gesualdo) sono in fibrillazione  nel tentativo di scavare un buco nel pavimento e poi sotto il possente muro che li tiene prigionieri. Scavano praticamente a mani nude, aiutandosi solo con qualche chiodo estratto dai loro letti e con dei pioli di legno, divelti dalle pareti,  che servono ad appendere i loro panni cenciosi.

Tolti due lastroni dal pavimento, vengono via molte pietre che nascondono sotto i letti e il buco si fa sempre più profondo.

I carcerati più solerti sono quelli condannati per brigantaggio, altri hanno sulle spalle omicidi e tentati omicidi, altri ancora rapine e furti.  Nessuno, in fondo, ha  nulla da perdere, destinati come sono a scontare lunghissime condanne ai lavori forzati; quasi tutti provengono dalle province di Cosenza e di Catanzaro, uno, Giuseppe Stilo, da Africo, in provincia di Reggio Calabria.

Sanno bene che forse non riusciranno nell’impresa e anzi, nonostante i briganti gli abbiano imposto il più assoluto silenzio, sembra quasi che non vedano l’ora di essere scoperti: non  cercano di riacquistare la libertà, quanto di salvarsi dalla loro condizione di detenuti isolati dagli altri, perché ritenuti camorristi, estorsori di denaro e altre utilità ai danni degli altri detenuti. Le estorsioni all’interno delle carceri è, infatti, un grave problema nell’Italia post-unitaria e l’isolamento dei camorristi  è ordinato dal Governo con una direttiva ministeriale per risolvere la faccenda.

Un paio di questi camorristi, Giuseppe Rocchetti e Gabriele Barletta hanno già spifferato tutto a Tommaso Mostarda, una ex guardia agli arresti per aver favorito un’ evasione, e questi, a sua volta, ha raccontato  tutto al capo guardiano.

Così, quando le guardie entrano e li sorprendono a scavare, nessuno resta  sorpreso.

Il direttore del carcere, imbarazzato per l’accaduto, racconta che è venuto a sapere che costoro concertavano novellamente esercitare la loro camorra e che già davano cominciamento all’opera; ed io in esecuzione degli ordini ministeriali, prese le opportune informazioni, feci novellamente separare dalla mafia dei detenuti camorristi e li feci rinchiudere tutti in una compresa dalla quale non avessero comunicazione alcuna con gli altri.

Una specie di 41 bis ante litteram, insomma.

Il direttore racconta anche quali sono le intenzioni dei reclusi, interrogati immediatamente: essi stessi lo hanno ad una voce espressamente dichiarato: noi vogliamo uscir di qua, essere messi insieme agli altri detenuti due per compresa, vogliamo la carta, vogliamo l’uso libero dei denari, vogliamo tutto quello che vogliamo, altrimenti non staremo mai quieti e romperemo tutti quei muri in cui ci rinchiuderete.

I detenuti con la loro azione rivendicano, dunque, alcuni benefici che gli consentano di continuare l’esercizio della camorra nel carcere, pena le continue azioni di sabotaggio nel carcere. Gli albori della trattativa Stato-mafia.

Esattamente un anno dopo la storia si ripete, ma questa volta non più nel carcere centrale bensì nella succursale ricavata nel vecchio castello svevo.

Il capo guardiano si insospettisce, ha notato troppa tranquillità tra i camorristi (Calogero Ricciardolo, Nicola Parisi, Arcangelo Capparelli, Giuseppe Tripicchio, Gioacchino Chiarelli, Luigi Antonio Amatuzzi, Umile Cariati, Serafino Conte, Pietro Paese, Luigi Panaro, Leonardo Pugliese, Camillo Sarro, Giuseppe Gallo, Luigi Marra, Nunziato Abate, Francesco Saverio Cortese, Giuseppe Santoro, Antonio Gaudio) e, avendo ricevuto la soffiata che quei detenuti hanno contattato un muratore, Saverio Sica, per farsi suggerire quale sia il punto migliore per aprire un varco nel muro, decide di raddoppiare la sorveglianza. Teme, infatti, qualche brutto scherzo, anche se il buon senso gli dice che sarebbe stato impossibile, senza mezzi adeguati, praticare un buco largo abbastanza da introdurci una persona in quei muri spessi quasi due metri.

Il suo intuito gli suggerisce, invece, che avrebbero potuto aggredire gli agenti di custodia durante l’orario delle visite tentando un colpo di mano per evadere e predispone dunque degli accorgimenti.

La guardia Pasquale Pugliese, al contrario, pensa che quei malfattori stiano  pensando di scavare il muro per evadere. Il 7 agosto 1871, come ogni mattina, si reca nella camerata chiamata La cittadella dove sono rinchiusi i camorristi e li trova stranamente docili e ubbidienti. Come sempre li passa in rassegna e li fa uscire nel cortile, poi torna nella camerata e si mette a battere sui muri perimetrali e sul pavimento con un bastone per accertare che sia tutto in ordine. E così gli sembra. Ma l’istinto gli dice che deve indagare meglio e, ritornato indietro, ricontrolla la camerata. Per caso gli capita di guardare verso il soffitto e, con sorpresa, nota che dove la volta del tetto si inserisce nel muro esterno, qualcuno ha attaccato un foglio di carta e capisce che quella è la via scelta dai detenuti per tentare la fuga.

Subito li fa rientrare in cella e interroga gli scopini che, proprio quella mattina, hanno riferito al capo delle guardie di tenere gli occhi aperti perché i camorristi stanno organizzando qualcosa.

Lo scopino Angelo Leone, condannato a dieci anni di reclusione per reati politici, racconta ciò che è accaduto quella notte:

La notte dal 6 al 7 agosto ultimo ero nella corsia grande o Cittadella nella quale si trovavano rinchiusi i famosi Camorristi (…). In una certa ora che non ricordo con precisione, il Capo di essi Calogero mi fu sopra e ponendomi la punta di un coltello a piega mi impose di rimanere nel punto in cui mi trovavo e di non dire ad anima vivente quanto in quella notte doveva praticare coi suoi compagni. Dopo poco tempo in mezzo alla corsia riunirono i loro letti formando una specie di piramide fino a raggiungere la volta formando un foro con lo scopo di giungere al suppegno e da colà evadere, ma vedendo far giorno situarono nel già formato foro un foglio di carta bianca per nascondere il loro operato, per ripigliarlo poi la notte seguente; io però unitamente al compagno Castiglia ne dammo segretamente avviso al Capo Guardiano.

Una testimonianza determinante. Angelo Leone rivela, in tal modo, che i camorristi hanno un capo, Calogero Ricciardolo di Palma di Montechiaro, condannato a 15 anni di lavori forzati per tentato omicidio e che nel carcere i camorristi hanno a disposizione delle armi, probabilmente fornitegli da un soldato di guardia. Possibile? In effetti, più volte è stato segnalato di aver visto una guardia discutere con due detenuti rinchiusi nella Cittadella, ma nessuno è mai stato in grado di identificare la guardia.

Ricciardolo, nel frattempo, viene trasferito nel carcere di Catanzaro dove viene interrogato, fornendo le sue motivazioni:

Io mi trovavo in Cosenza nel carcere centrale e da questo fui trasportato nel carcere del Castello dove stavo assai male insieme con gli altri compagni ivi detenuti. Nel solo fine adunque di ritornare al carcere centrale si concordarono di fingere una evasione. Pertanto nel sei agosto 1871, verso due ore di giorno, accumulando i pagliericci dei letti e tavole rispettive, alcuni detenuti vi si inerpicarono sopra ed operarono una lieve lesione nella lamia della compresa. Il Guardiano di nulla si accorse; un detenuto riferì il fatto quando già si era compiuto, mentre il fatto medesimo non doveva aver seguito pel comune intendimento di far cosa simulata e non reale. E si aggiunga che se noi avessimo voluto evadere realmente, avremmo tentato la evasione di notte e non di giorno; e poi la evasione era impraticabile atteso la solidità di costruzione del Carcere[1].

Questa è gramigna dura da estirpare.

[1]  ASCS, Processi Penali.