L’ASSALTO AL BORDELLO

Verso la fine del mese di agosto 1897, una banda di dieci o undici giovinastri di insedia, fin dalle otto del mattino fino a sera, nel bordello gestito da Carolina Briccone in Via Santa Lucia a Cosenza, pretendendo che le ragazze si concedano loro gratuitamente e che, alla fine della giornata, gli consegnino buona parte dei soldi incassati.

Questa storia va avanti per oltre due mesi e le ragazze sono esasperate, ma donna Carolina non ha molta voglia di fare questioni. Sa che quei giovinastri potrebbero distruggerle il locale e si accontenta di rimetterci qualcosa, pur di non fare scoccare una fatale scintilla. Eppure scocca.

La sera del 2 novembre, una pattuglia di guardie di città composta dagli agenti Carmelo Guarnieri e Ambrogio Petronio è comandata di servizio a controllare i locali pubblici. Dopo aver visitato i caffè e le cantine di Piazza Valdesi, i due agenti salgono lungo Via Santa Lucia per controllare il quartiere delle prostitute. Entrano nel bordello della Briccone e si trovano davanti gli undici giovinastri, che gli agenti conoscono molto bene perché li vedono spessissimo nei locali della Delegazione. Gli intimano di stare fermi perché devono perquisirli uno ad uno. I malviventi non ci stanno, sentono la forza del gruppo, si danno un’occhiata e scattano in piedi brandendo bastoni e coltelli.

Gli agenti devono indietreggiare, poi decidono di ritirarsi per chiedere rinforzi e mentre escono prendono anche qualche bastonata sulle spalle. Gli undici si barricano dentro, minacciando di morte sia donna Carolina che le ragazze se si azzarderanno ad aprire agli agenti. È un fuggi fuggi generale dal salone. Ragazze e clienti ignari si chiudono nelle alcove, tremanti di paura mentre spiano dai vetri per vedere cosa accade fuori.

Fuori, gli agenti sparano quattro colpi in aria come segnale convenzionale di soccorso. Subito si radunano davanti al bordello agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, finanzieri e militari.

Ernesto Barone, delegato di pubblica sicurezza, intima ai malviventi di uscire ma riceve in risposta solo un coro di sonore pernacchie.

È troppo. Si decide di chiamare un fabbro che scardina il portone e gli agenti irrompono nel bordello. Nel salone trovano gli undici comodamente seduti su divani e poltrone, come a sfidarli simbolicamente. Ad uno ad uno li identificano e li arrestano:

1 D’Andrea Francesco, fu Giacinto, di anni 24 da Cosenza abitante in Via Rivocati.

2 Greco Filippo fu Giuseppe, di anni 20 da Cosenza, abitante nella Via Fontana Nuova.

3 Bianco Luigi, di Carmine, di anni 21, qui nato e domiciliato nella Via Concerie.

4 De Rose Raffaele, di Francesco, di anni 18, nato e domiciliato in Cosenza in Via Carmine

5 Florestano Oreste, di Ignoti , di anni 19, nato in Cosenza ed ivi domiciliato in Via Revocati.

6 Vuono Luigi, di Ignoti, di anni 20 da Bisignano e qui domiciliato in Via Fontana Nuova.

7 Salvati Francesco, di Raffaele, di anni 23 da Cosenza domiciliato  in Via Spirito Santo.

8 Teano Domenico, di Ignoti, di anni 23, nato a Marzi, qui abitante  in Via Rivocati.

9 Cavalcante Giuseppe, di Celestino, di anni 25 da Lattarico, qui abitante in Via Paparelle.

10 Amato Pietro fu Francesco, di anni 18, qui nato e domiciliato in Via S. Lucia.

11 Rendano Raffaele, di Francesco, di anni 24, da Mendicino, qui guardia daziaria e tutti gli altri oziosi.

Nessuno sottoscrive, però, che tutti quei giovinastri appartengono alla malavita e che proprio in quel periodo stanno cercando di organizzarsi in una vera e propria associazione per delinquere.

Francesca Bianco, 22 anni da Crotone; Olivia Abate, 28 anni da Reggio Calabria; Rosaria Bruni, 22 anni da Pisticci; Santina Perri, 22 anni da Colosimi, le quattro prostitute operanti nel postribolo, rendono alla Pubblica Sicurezza dichiarazioni concordanti:

Da circa due mesi viene una comitiva di giovinastri per l’appunto quelli da voi arrestati ieri sera i quali si recano sul postribolo dalle 8 di mattina sino a mezzogiorno, poi ritornano e passano tutta la giornata e la serata sul detto locale, dandoci una continua molestia pretendendo con minaccia di vita di abbandonarci nelle loro braccia, per indi estorquerci quanto da noi lucrato. Non volendo noi altre sottostare a tale atto di prepotenza, siamo malmenate dai medesimi con percosse e continue minacce di tagliarci la faccia. Ieri sera appunto quando è venuta la pattuglia delle Guardie di P.S. gli individui sopra indicati si sono alle medesime ribellati ed hanno minacciato tanto le Guardie ad armata mano quanto a noi hanno imposto di tacere e detto fatto hanno messo fuori le guardie ed ànno chiuso il postribolo, profferendo al nostro indirizzo che qualora noi avessimo aperto la porta alle Guardie ci avrebbero ammazzate. Noi povere donne vedendoci in preda di undici soggetti di quella fatta ci impaurimmo appunto che piangevamo dirottamente vedendo in rischio la nostra vita…

Carolina Briccone, che sa come va il mondo, prima conferma le parole delle ragazze e poi, davanti al giudice, ritratta tutto:

Non è vero che quei giovinastri ci avessero estorto o tentato di estorcerci denaro e solo pretendendo fare gli spasimanti molestavano le ragazze. Non intendo esporre querela contro i suddetti individui e non ho testimoni da offrire

A questo punto tre ragazze, Olivia Abate, Santina Perri e Rosaria Bruno, pur non ritrattando, scelgono di non presentare querela contro la banda. Solo Francesca Bianco lo fa, ma per le minacce subite, non per l’estorsione, scagionando Filippo Greco, Raffaele Rendano e Luigi Bianco.

Di certo qualcuno sarà andato a fare una visita al postribolo per consigliare alle donne di lasciare perdere.

Il 7 novembre, sapendo che tra gli arrestati c’è Francesco D’Andrea, si presenta in questura un certo Francesco Salerno e racconta che:

Verso le ore 22 del giorno 31 ottobre ultimo scorso, mentre giuocavo una partita alla scopa con altri tre compagni, si presentò a noi un certo D’Andrea Francesco, fu Giacinto, di anni 24, muratore, il quale pretendeva che io gli avessi dato 20 centesimi, poi ne chiese 50. Gli domandai sotto quale titolo voleva da me quei soldi, ma egli mi disse che essendo camorrista, pretendeva quella moneta da me per camorra [nel gergo, la camorra rappresenta l’estorsione e camorrista è colui il quale la esige. Nda] e qualora io mi fossi rifiutato, egli mi avrebbe ammazzato. Io, non volendo sottostare a tali atti di minacce e di prepotenza, non gli volli dar nulla ma egli effettivamente con un coltello indistinto inveì contro di me e mi produsse tre ferite leggiere in varie parti del corpo

Il delegato Ernesto Barone, ascoltando questa dichiarazione, salta letteralmente sulla sedia. Pensa che sia proprio quello che gli serve per dare una severa lezione  al capo dei giovinastri, ma si rende conto ben presto che le prove raccolte non basteranno a supportare le sue accuse.

Così, mestamente, dichiara al Giudice Istruttore:

Tengo a dichiarare che parlai di estorsioni per le lamentanze di quelle donne; e non è poi da meravigliarsi che cotesta gente dica e disdica. Tutti quelli undici sono gente di poco buona fama, solevano insieme frequentare quella brutta casa, uno di essi come risulta in processo è anche imputato di un atto di camorra, dalle quali cose posso argomentare che la loro unione non è a fin di bene; ma fatti speciali a costituire una vera associazione di malfattori non mi sono noti. Del resto io da pochi mesi soltanto sono in questa residenza

Ecco, adesso il Delegato ammette la propria impotenza davanti ai camorristi, attestando che l’associazione esiste, ma non ha prove sufficienti per dimostrarlo. Con queste premesse, è inevitabile che il Pubblico Ministero Perfetti, formulando le richieste di rinvio a giudizio, scriva:

(…) nessun elemento di prova si è raccolto per i reati di associazione a delinquere, tentata estorsione e di minacce in danno delle prostitute intese quali parti lese: tanto vero che costoro ànno smentito quell’addebiti ed il Delegato di P.S. non à saputo né specificare fatti, né somministrare prove (…).

E la Camera di Consiglio fa propri questi rilievi assolvendo tutti gli imputati per i reati più gravi contestati, ma rinviandoli tutti a giudizio, tranne Luigi Bianco, per i restanti capi di imputazione.

Sembra un fatto di scarso rilievo, una bravata di pochi giovinastri come per anni fatti del genere sono stati classificati, ma invece rappresenta un fatto decisivo. Se è vero che Pubblica Sicurezza e Magistratura ammettono la propria impotenza, è pur vero che, finalmente, c’è un cittadino e alcune prostitute (ovviamente senza credibilità per definizione in quell’epoca) che senza paura mettono nero su bianco l’esazione della camorra come un fatto acquisito in città e accusano D’Andrea di essere un camorrista. Forse addirittura il capo dei camorristi.

Dunque, i camorristi, che fino ad ora si credeva praticassero le estorsioni solo in carcere ai danni degli altri detenuti, sono passati alla strada. Anche a Cosenza l’evoluzione della malavita è in atto.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.