‘U BACCU

– Questo carico da undici me lo prendo io e con questa siamo a tre partite. Che fai, compare? Giochi ancora o mangiamo? – dice Francesco De Marco, in arte ‘U Baccu, soprannominato così in onore del nonno paterno, il primo, vero capo della mala cittadina, battendo le nocche sul tavolo da gioco.

– Mangiamo, compare, tre partite le ho perse con te e due con mio cognato… ho perso già abbastanza… – risponde Luigi Amato con una venatura di delusione negli occhi. Guarda il figlio di otto anni che gli è accanto con gli occhi lucidi, poi continua rivolgendosi all’ostessa – Portate i broccoli e il pane!

I due sbocconcellano dallo stesso piatto le rape e finiscono di bere una bottiglia di vino, la posta messa in palio con la briscola. Ma ‘U Baccu ha già vinto e bevuto dell’altro vino nelle partite giocate col proprio fratello Raffaele e con un altro avventore. Le idee, con gli ultimi bicchieri, gli si annebbiano del tutto e all’improvviso, senza alcun motivo sbotta:

Compare, paga da carogna!

È un’offesa grave ma Luigi non se la può prendere. Sa che De Marco è un tipo pericoloso, poi c’è il suo bambino e non ha nessuna intenzione di farlo assistere a una zuffa. China il capo e risponde docilmente:

– Si, compare, ho perso e pago…

‘U Baccu ormai è partito e continua imperterrito a provocare:

– Si, mangia tutto e paga. E ringrazia che non ti sfregio perché c’è il bambino davanti – sibila mentre estrae un coltello a serramanico e mima un taglio in faccia ad Amato che, vista l’aria che tira, prende per mano il figlio e se ne va.

Forse non doveva andarsene, forse gli sarebbe convenuto farsi umiliare ancora un po’ e poi l’avversario si sarebbe calmato, ma adesso è una furia scatenata. Gli va dietro, lo ferma in mezzo alla strada, lo strattona da una spalla per farlo girare e lo aggredisce col coltello in mano mentre con disprezzo gli urla in faccia:

– Compare, tu di fronte a me non sei niente e te l’ho detto già altre volte!

Luigi Amato spinge lontano il figlio e cerca di difendersi con l’ombrello che ha in mano colpendo ‘U Baccu in faccia, ma non riesce a evitare i tre colpi che l’avversario gli sferra sul collo. Finalmente qualcuno si decide a intervenire e i due contendenti vengono divisi. Luigi, premendosi il fazzoletto sul collo sanguinante, cerca di rassicurare suo figlio che, terrorizzato, piange a dirotto. Si siedono sopra un gradino in attesa che arrivi qualche soccorso mentre Francesco De Marco si tampona il sangue che gli esce dal naso e continua a sbraitare.

Qualcuno ha provveduto a chiamare per telefono i Carabinieri che arrivano in Via Cavour 11, davanti alla cantina di Maria Ferro, dopo appena una decina di minuti.

È il progresso, siamo nel 1936.

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Non manca molto al tramonto e l’aria è ancora molto calda il 5 settembre 1941. Dalla chiesa di San Francesco di Paola giungono fino in Piazza Ferrovia i rintocchi della campana a morto.

Un gruppo di cocchieri sosta sonnacchiosamente davanti alla stazione in attesa di clienti. All’improvviso tra due di questi, Giuseppe Filice e Vincenzo Mosciaro, scoppia un alterco.

– Compà, ti ho dato due lire e mezzo una settimana fa per la medicina del cavallo e ancora né mi hai portato la medicina, né mi hai ridato i soldi. Mò vedi tu, o mi dai subito le due lire e mezzo o ti rompo il culo a te e a tutti quelli che si immischiano! – sbotta Giuseppe Filice, deciso a fare la questione anche da qualche bicchiere bevuto in più.

– E vieni a rompermelo sul ponte di Alarico! – gli risponde l’altro.

– Andiamo!

I due si avviano, sono pochi metri, minacciosi l’uno con l’altro. Sembra che debba succedere l’irreparabile ma nessuno degli altri vetturini sembra crederci molto, infatti nessuno si preoccupa di dissuaderli. E hanno ragione perché Vincenzo Mosciaro, appena imboccata la strada del ponte, si ferma, tira fuori il portamonete e allunga al rivale le due lire e mezzo.

– Mi devi scusare, compà, ecco i tuoi soldi…

– Ti sei cagato addosso dalla paura! – esclama Giuseppe, ormai visibilmente ubriaco.

– E come no! Non lo vedi come tremo? – ironizza l’altro.

In realtà, Vincenzo Mosciaro ha intravisto, in lontananza, che il corteo funebre è partito dalla chiesa dirigendosi verso di loro e sa che la legge non scritta del popolo vuole che si rispetti il dolore altrui col silenzio e un contegno adeguato.

I due, quindi, tornano davanti alla stazione a prendersi cura delle rispettive carrozze. Ma Giuseppe Filice non sa e non può trattenersi. Sguaiatamente si mette a raccontare agli altri che ha messo paura al rivale e si è fatto ridare i soldi.

– Perlamadonna se qualcuno avesse parlato gli avrei rotto il culo! – urla per farsi sentire da tutti.

Lo sente anche Francesco De Marco, ‘U Baccu, che, in quanto uomo d’onore, non le manda a dire.

– Pure a me rompi il culo? Finiscila di sbraitare che sta passando il funerale ed è vergogna.– lo redarguisce.

– Si, pure a te rompo il culo! – urla ancora più forte Giuseppe.

De Marco si avvicina minaccioso e lo sfida.

– Vediamo come me lo rompi!

Giuseppe fa per prendere lo staffile dalla sua carrozza ma ‘U Baccu è più veloce. Gli mette le mani in faccia e lo spinge violentemente. Il caso vuole  che Filice sia in blilico sul bordo del marciapiedi, inciampi e cada pesantemente a terra. Adesso è De Marco che prende lo staffile e sta per percuotere il rivale ma questi lo implora di non fargli male.

– Ahi! Ahi!… ti prego, basta, non picchiarmi che mi sono rotto una gamba – urla.

Chiudi quell’altoparlante che sembri una radio! – sibila ‘U Baccu gettandogli addosso lo staffile e sputandogli tra i piedi. Poi, con calma, torna alla sua vettura, soddisfatto per avere, ancora una volta, ribadito la sua autorità.

Quattro anni dopo ‘U Baccu verrà ucciso in un duello rusticano da don Luigi Pennino, dopo averlo sfidato per sostituirlo come capo della mala. [1]

[1] ASCS, Processi Penali.