IL PREMIO INFAME

Carmela Faraone, giovane contadina di Luzzi, di temperamento sanguinario e di modi procaci che ne rilevano gli istinti sessuali, è sposata con Angelo Falbo dal 1931. Sebbene il matrimonio abbia prodotto il suo frutto, Carmela finisce per disgustarsi del marito e quindi, senza rendersi conto della gravità dell’atto che sta per compiere, trascinata dalla tendenza alla vita gaia ed avventurosa, si allontana dal tetto coniugale conducendo con sé il figlioletto e inizia a convivere con l’amante Francesco Martire, anch’egli coniugato con figli  prendendo in fitto, in una contrada del comune di Luzzi, una casetta composta da una stanza da letto e da una cucinetta antistante.

A chi le chiede perché abbia abbandonato il marito, non ha difficoltà a rispondere:

– Mi ha attaccato una malattia venerea…

A tutti sembra strana questa affermazione perché della malattia di Angelo non sa niente nessuno, ma Carmela è irremovibile: l’ha contagiata e basta!

Beh, almeno adesso con Francesco vivrà serenamente. Nemmeno per sogno. Carmela non è soddisfatta nemmeno dell’amante e, dopo pochi mesi di convivenza, comincia a lamentarsi:

– Mi maltratta, minaccia di uccidermi… ha detto che farà morire mio figlio come hanno ammazzato quella bambina a Rose poco tempo fa… (si tratta del barbaro omicidio della bambina Ida Aiello, che non troverete nel sito ma nel Volume III di Antichi Delitti. nda)

– Ma perché ti maltratta? – le chiedono.

Sono caduta in disgrazia perché ho resistito ai suoi continui tentativi di mettermelo nel culo, hai capito?  – risponde, superando con rara sfrontatezza gli ultimi residui di pudore che la sua scandalosa condotta le ha lasciato nell’anima, poi continua – ha pure minacciato di bruciare tutti i mobili della casa se non avessi acconsentito… hai capito? Adesso ho paura!

In molti obiettano che, seguendo lo stesso sistema adottato col marito, avrebbe potuto sottrarsi alla posizione in cui si è venuta a trovare troncando la tresca con l’amante e allontanandosi non solo dalla casa di lui, ma anche dal comune. In verità Carmela avrebbe anche un’altra possibilità, quella di tornare col marito, che le ha fatto sapere di essere disponibile ad una riappacificazione. Ma Carmela non intende seguire nessuna delle due strade. Risolverà la questione a modo suo.

Confidando sull’effetto che il suo fascino e la sua sensualità esercitano sugli uomini, riesce ad attrarre a sé Carmine Aquino, cugino di suo marito e, abilmente comportandosi, non tarda a ridurlo ai suoi voleri pur, così dice, non concedendosi.

Carmela, aiutata da Aquino, comincia col modificare il contratto di locazione della casa, in modo da far figurare lei stessa come unica titolare del diritto di locataria, ottenendo che il contratto sia rinnovato e, a datare dal 15 gennaio 1936, lei sola sia riconosciuta come locataria. Probabilmente lo fa per provocare una reazione di Francesco Martire e poterlo cacciare legalmente da casa, ma l’amante non se ne adonta, anzi dice al proprietario che se Carmela verrà meno agli obblighi assunti, la pigione la pagherà lui stesso col prezzo di un maialino che avrebbe venduto.

Conseguito lo scopo di far figurare l’amante come suo ospite, ma fallita la provocazione, Carmela deve escogitare un altro piano per cacciarlo di casa. E se dovesse fallire anche questa volta? Beh, allora bisognerà sopprimerlo!

Carmela, ben presto, si indirizza verso la soluzione finale visto che Francesco continua con la sua condotta irriflessiva ed i suoi modi impulsivi e comincia a parlarne con Carmine Aquino per convincerlo ad ammazzare l’amante.

Carmine, che non è né coraggioso né impulsivo, non si mostra disposto ad aiutarla per solo scopo di cavalleria, per cui Carmela capisce che con lui le arti della seduzione sono insufficienti e quindi è necessario toccare altre corde, per esempio quelle del denaro.

– Carminù, senti, ti ricordi quella cambiale di mille lire che tuo suocero mi ha firmato?

– E certo che me la ricordo!

– Bene, se mi aiuti a fare quella cosa con Francesco, la cambiale la giro a te e poi ne fai quello che vuoi… anzi, in più ti darò in colonia quella vigna che ti è sempre piaciuta, che ne dici?

Carmine è allettato e vacilla. Pensa anche che dissimulando la sua presenza in casa di Carmela con gli affari potrebbe anche arrivare, col tempo, a goderne i favori. Ma c’è un problema per lui insormontabile: se le cose dovessero andare male, a marcire in galera sarà lui e non la donna.

– Facciamo così – allora gli propone Carmela – se per tristo caso il delitto si fosse scoperto, assumo l’impegno di accollare su di me ogni responsabilità confessandomi unica autrice del delitto e, in ogni caso, ti fornirò aiuti e denari se ne dovessi avere bisogno per liberarti di un eventuale procedimento penale

– E va bene, accetto!

Per Carmela il primo scoglio è superato, adesso bisogna stabilire come uccidere il suo amante senza destare sospetti, giacché è interesse comune dei due che il delitto rimanga occulto, ciò che ben può avvenire facendo figurare l’omicidio con suicidio. I due non formulano nessun piano preciso per raggiungere lo scopo, ma sono d’accordo che bisognerà aspettare qualche occasione favorevole e senza alcuna fretta.

Con questa finale e formale promessa, il fatto delittuoso è definitivamente suggellato e Carmine Aquino comincia a preparare i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato. Si impossessa di un fucile calibro 12 ad una canna appartenente al suocero; va a Cosenza a comprare le cartucce e poi si mette a battere le campagne alla ricerca della vittima designata per sorprenderlo da solo ed eseguire il suo macabro compito.

Carmela, da parte sua, nonostante si sia imposta di non avere fretta, è sempre più assillata dal desiderio di finirla una buona volta con l’amante e perciò, presi accordi con Carmine Chiappetta, contadino anziano, da lei sedotto con le armi della libidine, il mattino dell’otto febbraio 1936, essendo rimasta da sola in casa, raccolti i pochi indumenti dell’amante, li depone nella cucinetta – che serve anche da antisala –, chiude la porta della camera da letto e, lasciando aperta la porta della casa, si avvia con Chiappetta verso Rose, dove andrà dai Carabinieri per denunciare i maltrattamenti che subisce dall’amante.

Fatti appena qualche decina di metri, i due si imbattono in Carmine Aquino e Carmela gli dice:

Se Martire mi brucia le robe, difendimi! – poi riprende la strada col suo compagno.

Poco dopo Francesco Martire torna a casa e trova la sua roba nella cucinetta; la camera da letto è chiusa a chiave. Chiede ai vicini che fine abbia fatto Carmela e quelli gli rispondono che è andata a Rose in compagnia di Chiappetta. Capisce le intenzioni della donna e va su tutte le furie; dice ad un suo amico di correre verso il paese per intercettare Carmela e indurla a tornare indietro, ma è ormai troppo tardi, i due sono praticamente davanti alla porta della caserma.

Martire adesso sembra un pazzo: urla, bestemmia, tira calci e spallate alla porta per sfondarla ma non ci riesce. Allora prova con un’acrobazia ad entrare da una finestrella e gli va bene. Sul viso gli si stampa un sorriso diabolico mentre, uno alla volta, tira fuori tutti i mobili che ci sono e li ammucchia davanti alla casa, appiccando il fuoco come aveva promesso.

I vicini assistono impotenti, impauriti da quell’uomo che sembra il diavolo in persona mentre salta e balla tra i mobili in fiamme. Tra gli spettatori c’è anche Carmine Aquino il quale pensa che sia proprio quello il momento buono e così, non visto, corre a casa a prendere il fucile caricato a pallini e poi, gatton gattoni e quasi strisciando per non essere veduto da qualche persona non attratta dallo spettacolo dell’incendio, si dirige verso il punto dove Martire alimenta le fiamme gettando nel mucchio gli ultimi arredi. Quando è a quattro o cinque metri di distanza, spiana l’arma contro il suo bersaglio e tira il colpo, centrando Martire alla testa, al collo e alle spalle, facendolo stramazzare a terra, praticamente nel fuoco.

Sicuro di averlo ucciso torna a casa, depone il fucile e, con la piena certezza di non essere stato veduto da alcuno, torna sul luogo del delitto e, mischiandosi alla folla, comincia a compiangere il destino di Martire che, così si mette a dire, si è suicidato. Ma i presenti al fatto sostengono che sia impossibile questa ipotesi, che si tratta di omicidio e corrono a chiamare i Carabinieri di Luzzi che iniziano accurate ricerche e fermano diverse persone.

Il solerte Comandante della stazione di Rose, che intanto ha raccolto le dichiarazioni di Carmela Faraone circa i maltrattamenti da lei lamentati, ma di cui non può occuparsi perché commessi fuori dalla sua giurisdizione, ha notato che la donna è in stato di evidente emozione e sospetta che sia coinvolta nel delitto, perciò telegrafa al collega di Luzzi che, appena Carmela arriva davanti casa, la fa arrestare. Ben presto i sospetti, per le testimonianze raccolte, cadono anche su Carmine Aquino e, quando gli trovano in casa il fucile, sospettano anche di suo suocero. Il risultato è che anche loro vengono arrestati e rinchiusi nella stessa cella. Lo scopo dei Carabinieri è evidente: aspettare che i due, parlando tra loro, dicano qualcosa di compromettente. E così avviene.

Luigi Falbo, il suocero di Carmine, credendo di non essere ascoltato, gli dice:

Vedi a che punto mi hai condotto col tuo procedere?

Chi me lo prova che l’ho ucciso io? – gli risponde.

Te lo prova quel mio maledetto fucile col quale tu, da diversi giorni, sei andato in giro per la campagna facendo il maggiordomo con quella donnaccia!

Ma io andavo a caccia

Ti fosse caduta una quercia addosso, uno di quei giorni che andavi a caccia!

Con la conferma della responsabilità di Carmine, il Maresciallo ha bisogno della sua confessione per incastrare anche Carmela e comincia a torchiarlo. Poi, ad un certo punto, Aquino dice:

Datemi una sigaretta, vi dirò tutto…

Il “tutto” comprende anche il mandato ricevuto da Carmela, compromettendo gli accordi presi. Adesso è lei a dover spiegare come sono andate le cose. Attenendosi scrupolosamente all’impegno assunto con Aquino, la donna addossa su di sé l’intera responsabilità del fatto. Ma c’è un “piccolo particolare” che non quadra: come ha fatto ad uccidere l’amante se è certo che è andata dai Carabinieri in compagnia di Chiappetta?

In un certo punto, ho interrotto il viaggio per Rose lasciando solo Chiappetta, sono tornata indietro, ho ucciso Martire e quindi sono tornata a Rose – sostiene.

L’assurdità di tale versione è presto e facilmente dimostrata ed allora la donna arriva a tal grado di perfidia da attribuire il reato al suocero di Aquino, dopo di che, vedendo che ormai le prove hanno raggiunto un’evidenza schiacciante, confessa il fatto nei più minuti particolari, riconoscendo – e confermando sempre – di avere dato ad Aquino mandato di uccidere Martire, promettendogli come premio la rimessione del debito di lire mille che vanta verso il suocero di lui e impegnandosi altresì a concedergli in colonia una vigna. Siccome poi, non soddisfatto di tale promessa, Aquino si mostrava freddo e indolente, ella, per ottenerne l’adesione, si obbligò ad assumere su di sé la responsabilità del delitto, se ciò fosse stato necessario per preservare Aquino da ogni pericolo.

Tutto chiarito.

No, nemmeno per sogno! Interrogati dal Giudice, i due imputati negano ogni addebito, sostenendo che i Carabinieri li avevano costretti alla confessione mediante pressioni e violenze.

Carmela e Carmine, però, non tengono conto che gli interrogatori a cui li hanno sottoposti i Carabinieri si sono svolti davanti a testimoni terzi e questi negano ogni pressione o violenza dei militari per ottenerne le confessioni. Non solo. Il suocero di Aquino ammette di aver detto ciò che gli attribuiscono i Carabinieri durante il colloquio con Aquino in camera di sicurezza, ammette che il fucile con cui è stato ucciso Martire è di sua proprietà e che era nella disponibilità di suo genero.

Può bastare. Il 18 giugno 1936 i due imputati vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con accuse che fanno rischiare loro la pena di morte: concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti.

Durante il dibattimento, Carmine Aquino tenta di diminuire le proprie responsabilità:

Per me Francesco Martire era come un fratello… Carmela veniva ogni giorno a trovarmi a casa e, con costante insistenza, mi dava incarico di uccidere Martire, adducendo che costui la maltrattava e minacciava di ucciderla come era stata uccisa una ragazza di Rose. Con la sua insistenza si rese insopportabile e io le dicevo: “lascialo andare, non te ne occupare…”, ma quella ripeteva le esortazioni sino a rendersi noiosa… l’otto febbraio ero presente quando Martire faceva bruciare i mobili e, visto che nessuno si mostrava disposto a muoversi per spegnere le fiamme, mi armai del fucile di mio suocero, mi avvicinai a Martire con la sola intenzione di indurlo a desistere dal fomentare il fuoco; ma poiché egli si mostrava riottoso e, tenendo in mano una scure, minacciava di uccidermi se non mi fossi allontanato. Vista la mia vita in pericolo, tirai contro di lui un colpo che lo fece stramazzare a terra e mi allontanai riportando a casa il fucile… non ho ricevuto nessuna promessa da Carmela Faraone.

Anche Carmela tenta di diminuire le proprie responsabilità:

Confidai a Carmine Aquino, davanti a sua moglie, i maltrattamenti, le minacce e i tentativi di congiunzione contro natura… ho invocato il suo aiuto, unicamente perché intervenisse con le buone maniere presso Martire e lo inducesse a trattarmi bene e senza mai fare promesse di denaro o di altre utilità

La conseguenza di queste nuove dichiarazioni è che i due vengono messi a confronto, ma non si risolve nulla perché ognuno resta sulle proprie posizioni e allora la Corte osserva che, viste le risultanze processuali, sulla responsabilità degli imputati non cade dubbio. La Faraone volle far uccidere l’amante per dare sfogo all’odio concepito contro di lui durante i cinque o sei mesi di coabitazione. Se avesse voluto soltanto sottrarsi all’azione di lui, avrebbe potuto allontanarsi dalla casa ed anche dal comune di Luzzi, o ritornare presso il marito, che non l’avrebbe respinta. Se non avesse avuto in mira di far sopprimere l’amante, non si sarebbe rivolta ad uno spara-fucile come Aquino, non gli avrebbe promesso la remissione del debito cambiario, né la concessione della colonia, giusta la prima dichiarazione di entrambi gli imputati. Aquino è ugualmente responsabile: accettò la remissione del debito, la colonia e accettò che la donna, a fine di rassicurarlo, assunse l’impegno di addossarsi la responsabilità del fatto. Ma Aquino, pur avendo accettato il mandato ad uccidere, non aveva prefissato alcun termine all’esecuzione del delitto, onde la Faraone continuò a sollecitarlo. Aquino aspettava l’occasione propizia e se non si può dubitare della sua volontà omicida, secondo la Corte ci sono forti dubbi circa la premeditazione del delitto da parte dei due imputati: nessun piano preciso per eseguire il delitto con specifica determinazione di tempo, luogo, mezzi, modo di consumare l’omicidio ed espedienti per assicurarsi l’impunità. Esiste chiara solo la determinazione ad uccidere e per questo la Corte afferma che non si può confondere la determinazione della volontà al delitto con la premeditazione. La prima può essere anteriore di parecchi giorni all’esecuzione del delitto, senza che questo sia stato preceduto dalla formazione del piano delittuoso e dalla costante persistenza di questo nell’animo dell’agente. Quindi l’aggravante della premeditazione deve essere esclusa.

Ma esiste l’altra aggravante, quella dei motivi abietti, almeno a carico di Carmine Aquino in quanto non solo non fu mosso da alcun motivo di particolare valore morale o sociale, ma agì sotto l’impulso del lucro, del prezzo di sangue, dell’utilità economica che gli perveniva dalla cambiale e dalla colonia, per ottenere la quale egli si prestò a troncare la vita ad un padre di famiglia che nessuna offesa gli aveva recato e che, anzi, era vissuto con lui in amichevoli ed affettuosi rapporti. Uccise per eseguire il mandato conferitogli da Carmela Faraone e per conseguire il premio infame promessogli. Motivo più abietto di questo è difficile trovare, simili atrocità di animo non si riscontrano ad ogni piè sospinto.

Per Carmela Faraone, invece, vale il ragionamento opposto: nel dare il mandato di omicidio ad Aquino, agì in stato d’ira in lei determinato dall’ingiusta condotta di Francesco Martire perché, quantunque immorale fosse la loro relazione, questi aveva sempre il dovere di usarle i riguardi dovuti alla persona umana, per sé stessa, in qualunque stato e in qualunque condizione di vita si trovi e, nel suo caso, i riguardi dovuti ad un’amante a lui accomunata dalla passione sensuale e dall’adulterio che entrambi commettevano.

Per questi motivi la Corte ritiene Carmine Aquino colpevole di omicidio volontario commesso per motivi abietti e di porto abusivo di fucile e lo condanna alla pena dell’ergastolo, più pene accessorie; ritiene Carmela Faraone colpevole di concorso in omicidio volontario per avere determinato Carmine Aquino a commetterlo, con l’attenuante dello stato d’ira e la condanna a 23 anni di reclusione, più pene accessorie. Entrambi dovranno risarcire le parti civili e pagare le spese del processo. Inoltre, la sentenza dovrà essere affissa nei comuni di Luzzi, Rose e Cosenza e pubblicata nel giornale “Il Mattino”.

È il 18 gennaio 1937.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.