Attilio Ferrone da Castellammare Adriatico (Comune soppresso nel 1927 per la fusione con Pescara. Nda) è un delinquente. Dedito soltanto al vino, al gioco e all’ozio, i suoi precedenti penali vanno dal furto alle ingiurie, dalle lesioni personali all’insubordinazione, dall’oltraggio alla mutilazione fraudolenta. Ad un certo punto della sua vita, Attilio si ritrova a San Lucido e inizia una relazione more uxorio con Antonietta Di Virgilio, dalla quale nascono diversi figli. Ma Ferrone, com’è nella sua indole e nella sua volontà d’indulgere alle sue viziose abitudini, consuma nelle bettole quel po’ che guadagna quando, qualche volta, s’induce a lavorare. E quando non lavora? Semplice, pretende di vivere sfruttando il lavoro della convivente e dei figli, che sottopone a continui maltrattamenti. E sono maltrattamenti molto duri: una volta ruppe una costola alla donna e la costrinse a non dar notizia del fatto; altra volta l’avrebbe colpita con una scure, se il figliuolo Franco non glielo avesse impedito tirandogli una bastonata in testa con tanta violenza da produrgli una considerevole lesione.
La bastonata Attilio Ferrone se la lega al dito e adesso è Franco ad essere il principale bersaglio dei maltrattamenti, fino a costringerlo ad andarsene da casa.
Gli anni passano, ormai la relazione dura (male) da ben 24 anni. I figli sono cresciuti, Antonietta si avvia alla vecchiaia, ma il comportamento di Attilio diventa ogni giorno più insopportabile. Quando verso la fine della Seconda Guerra Mondiale due dei loro figli tornano dalla prigionia, la madre e tutti i figli decidono di allontanare dalla famiglia quella causa continua di vergogna, di tormento e di miseria. Attilio Ferrone, suo malgrado, se ne va e poco dopo finisce in carcere a Bologna per un furto. Comincia a scrivere ad Antonietta molte lettere, lettere dal tono minaccioso, nelle quali le intima l’invio di denaro e di viveri, ma la donna non gli risponde neppure, sia perché non ha nulla da mandargli, e sia, soprattutto, perché non vuole più avere alcun rapporto con il suo ormai ex convivente, ora che con la sua lontananza è finalmente arrivata in famiglia un po’ di pace e tranquillità.
Scontata la pena, Ferrone torna a San Lucido, è il 7 dicembre 1946. Inaspettato, si presenta ad Antonietta, che è seduta davanti alla porta di casa, e le dice con tono di disprezzo:
– Fai da piantone? – poi sale i pochi gradini e pretenderebbe di essere riaccolto in casa per ricominciare la sua solita vita, pur promettendo di comportarsi diversamente che in passato. Ma la donna ed i figli, che tante altre volte avevano sperimentato la vanità di quella promessa, si rifiutano di riceverlo tra loro e di nuovo Attilio è costretto ad andarsene, ma subito cominciano le minacce contro tutti i familiari e specialmente contro Antonietta e Franco: li ucciderà e si ucciderà, così promette.
Per distoglierlo da propositi delittuosi, la cui serietà è da tutti avvertita e temuta, uno dei figli, che ha famiglia a parte, gli offre ospitalità nella propria abitazione, promettendogli che per il Natale avrebbe persuaso la madre a riceverlo in casa. Tentativo vano, Attilio Ferrone vuole rientrare a casa per ristabilire le vecchie gerarchie. Però accetta l’offerta di una delle figlie di lavargli la biancheria e di portargli da mangiare nel basso dove ha trovato alloggio.
I giorni passano e in lui si rafforza sempre più la volontà di far del male ai suoi due acerrimi nemici Antonietta e Franco, così comincia ad aggirarsi minaccioso nelle vicinanze della casa, studiando il miglior modo di attuare il suo disegno.
– Stasera vengo a mangiare da te – è il 12 dicembre quando promette al figlio sposato di andare a trovarlo la sera della vigilia di Santa Lucia.
Ma non si presenta all’appuntamento e nessuno sa che fine abbia fatto.
Sono ormai le 4,00 del 13 dicembre. Antonietta e i sei figli che vivono con lei nelle due misere stanzette dormono.
Un uomo si aggira furtivo nella parte posteriore del modesto fabbricato, poi sale sul tetto di un piccolo porcile e comincia ad arrampicarsi sul muro della casa per raggiungere un balconcino e da qui il davanzale di una finestra e, introducendo una mano attraverso il foro della malridotta imposta, la apre. Poi con un balzo entra nella camera.
Antonietta si sveglia di soprassalto e riconosce, all’incerto chiarore della luna che penetra dalla finestra aperta, Attilio:
– Franco, siamo morti! – urla per richiamare l’attenzione del figlio maggiore il quale, seminudo e ancora con gli occhi chiusi, accorre.
Attilio deve aver studiato per bene il suo piano perché si disinteressa della donna e attende il figlio sulla porta di comunicazione tra le due camerette con in mano un coltello a serramanico dalla lama larga e acuminatissima. Il povero Franco non ha nemmeno il tempo di capire cosa stia accadendo, che suo padre gli è addosso e con violenza estrema comincia ad accoltellarlo. Nove volte. Morte quasi istantanea.
Ora che ha eliminato il nemico potenzialmente più pericoloso, Attilio può dedicarsi ad Antonietta, scaricandole addosso la sua furia omicida, ma uno dei figli cerca di mettersi in mezzo per dissuaderlo. Poca roba, bastano una pedata e lo sventolio del coltello sotto il naso per toglierlo di mezzo.
Ora è addosso alla donna e colpisce, colpisce, colpisce. Diciannove volte. Due volte in faccia, cinque al torace, cinque all’addome e sette agli arti superiori. Anche per Antonietta la morte è immediata.
Intanto gli altri figli, atterriti, riempiono di grida la notte e cominciano ad accorrere i vicini. Il primo ad arrivare sul posto è Pietro Attinà, giusto in tempo per vedere Attilio che si tira prima un colpo di coltello in direzione del cuore e poi un altro colpo al braccio sinistro. Temendo che l’uomo possa cominciare a colpire anche gli altri figli, Attinà si preoccupa di farli uscire tutti e metterli in salvo, poi fa per andarsene anche lui, ma in questo frattempo arriva un altro figlio che vuole a tutti i costi salire in casa per vedere cosa è successo e così Attinà lo segue in casa. Qui trovano Attilio Ferrone sanguinante e in piedi col coltello ancora in mano. Non appena vede il figlio gli si scaglia addosso minacciandolo di morte, ma per fortuna ci pensa di nuovo Pietro Attinà che strattona il ragazzo e riesce a chiudere dentro l’assassino. Poco dopo arrivano i Carabinieri che sfondano la porta e arrestano l’assassino, provvedendo al suo trasferimento all’ospedale di Cosenza.
– Sono stato un buon compagno per Antonietta e un buon genitore – esordisce quando il Giudice Istruttore lo interroga in ospedale – e l’avversione della famiglia contro di me trova soltanto causa nella malignità della mia donna, sempre infedele, dedita alla vita randagia… faceva la fattucchiera…
– Spiegatemi come sono andate le cose quella notte.
– La sorpresi affacciata alla finestra in colloquio amoroso con un tal Siciliano e sono penetrato in casa per convincere i figli della disonestà della madre ed esortarli a ricevermi di nuovo in casa…
– Alle quattro del mattino? Non dite sciocchezze! L’evidenza dei fatti vi smentisce, i testimoni vi smentiscono. Se fosse come dite, spiegatemi come mai il cadavere fu trovato seminudo nelle condizioni in cui la poveretta si trovava a dormire a letto e non in quelle in cui doveva necessariamente essere per un colloquio amoroso all’aperto e per giunta a metà dicembre! Inoltre era avanti con gli anni e, ad ogni modo, per incontrarsi con un amante non avrebbe avuto bisogno, alle quattro del mattino, di disertare il letto dove dormiva con tre figli in età da poterla sorprendere. E poi, per favore, non si va a far opera di persuasione a quell’ora, penetrando in una casa dalla finestra e armato di un acuminato coltello lungo 19 centimetri!
– Così è andata… e poi il coltello l’ho estratto perché sono stato aggredito da Franco con un’arma che non distinsi e anche da Antonietta che mi ha causato con un coltello le ferite per le quali sono ricoverato!
– Si? Peccato che c’è un testimone che giura di avervi visto proprio nell’atto di produrvi volontariamente le ferite al petto e al braccio!
Da questo momento in poi Attilio Ferrone comincia a manifestare segni di squilibrio mentale e viene visitato più volte sia dai medici dell’ospedale che, poi, da quelli del carcere, i quali attestano il suo disagio, ma gli inquirenti non credono alla pazzia e lo mettono nero su bianco: egli, che della propria sanità mentale, né prima e né dopo del delitto aveva dato motivo di dubitare, conscio della sua grave responsabilità, cominciò a comportarsi in modo da accreditare una sua alienazione mentale. Pertanto, su affrettati referti e più affrettate valutazioni, si ordina il ricovero del Ferrone in un manicomio giudiziale e sia disposta perizia psichiatrica per accertare l’attuale stato mentale del soggetto.
Il manicomio prescelto è quello di Napoli e ad occuparsi del caso sarà il Direttore in persona il quale, dopo lunghe osservazioni e scrupoloso esame, conclude giudicando che le attuali condizioni di mente di Attilio Ferrone sono tali da non privarlo della capacità d’intendere e volere.
Può essere processato e lo sarà perché è subito rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con la terribile accusa di omicidio pluriaggravato continuato.
Il dibattimento non fa che confermare ciò che già è emerso nell’istruttoria e che tutti già sapevano, così la Corte può osservare:
Che Ferrone sia un pericolosissimo delinquente è dimostrato anche dai mezzi escogitati per difendersi in posizione tanto difficile, cercando di convincere di una infermità attuale di mente non esistente e di costruire nella esposizione dei fatti uno stato di legittima difesa o, almeno, d’ira per fatto ingiusto altrui del tutto inesistenti: escogitazioni di una mente maliziosa e perfettamente orientata.
Poi la Corte passa ad esaminare le aggravanti contestate e le attenuanti chieste dalla difesa:
Dalle unanimi e concordanti deposizioni dei testimoni, dalle indagini della Polizia Giudiziaria e dagli accertamenti generici non può esservi dubbio che Ferrone abbia volontariamente ucciso Antonietta De Virgilio e Franco Ferrone, suo figlio. Nessun dubbio può esservi neppure sulla premeditazione: le ripetute minacce, il comportamento di Attilio Ferrone nei giorni trascorsi dal suo ritorno a San Lucido alla notte dei delitti e le modalità con cui questi furono consumati depongono per un dolo di maggiore riflessione, per la macchinazione, per la ricerca dell’occasione più opportuna al fine dell’attuazione di un proposito, già accolto da tempo e mantenuto fermo con spietata, inflessibile determinazione. Non sussistono invece le aggravanti dei futili motivi e dell’avere agito con crudeltà. Secondo la Corte, per quanto riguarda la futilità dei motivi che spinsero Ferrone all’eccidio e al mero tentativo di por fine violentemente anche alla sua vita, questi non furono affatto futili per il venir meno di una casa, di una famiglia e di un sostegno (elementi, questi, che la Corte ammette essere funzionali alle sue consuetudini di egoismo e di viziosità). In relazione alla crudeltà contestata, questa si coglie quando il soggetto passivo sia stato sottoposto inutilmente, per ciò che riguarda l’economia del delitto, a ingiuste sofferenze, sicché nell’azione si manifesti una particolare scelleratezza dell’agente. Ora, tutto ciò non può essere sicuramente stabilito perché il colpevole ha agito in un brevissimo contesto di tempo, nel furore di un’azione che cerca, come ultima meta, la fine del colpevole stesso.
Ma non possono nemmeno essere accolte le richieste della difesa per la concessione delle attenuanti generiche, della provocazione e del vizio parziale di mente. E spiega: la estrema gravità dei delitti, la eccezionale capacità a delinquere di Ferrone e la sua struttura psichica dimostrano che non v’è alcuna ragione per ritenerlo meritevole. Di più, nulla avevano commesso d’ingiustamente offensivo contro Ferrone il suo figliolo e Antonietta De Virgilio, poiché il loro desiderio di non accogliere ancora nella loro casa, in mezzo alla loro famiglia, chi li aveva maltrattati, tormentati, sfruttati per tanto tempo, era più che legittimo. A questo riguardo si deve anche considerare che i figliuoli della De Virgilio, ormai adulti, avevano anche serie ragioni morali e sociali perché la tresca tra la oro madre ed un uomo che non era il suo marito avesse termine.
La difesa contesta questa ricostruzione e mette in campo due particolari non molto considerati né nelle indagini, né durante il dibattimento: una forbice sporca di sangue accanto al cadavere di Antonietta e una terza, leggerissima ferita su una mano di Ferrone. Bisogna approfondire perché questi due elementi potrebbero cambiare l’esito del processo in quanto proverebbero l’aggressione della donna ai danni di Ferrone.
La Corte smonta anche questo appiglio: Sangue in quello scannatoio ce n’era dappertutto ma, poiché una terza, lieve ferita alla mano dell’imputato poté, a giudizio dei periti, essere prodotta dalla forbice, non è da escludersi in modo assoluto che la sventurata De Virgilio abbia cercato di far uso di quell’arnese contro la belva che l’assaliva e avrebbe, in tal caso, ubbidito soltanto all’invincibile istinto della difesa. Difesa e non aggressione, quindi.
Adesso è tutto chiaro e si può procedere ad emettere la sentenza: Attilio Ferrone è colpevole del delitto di omicidio aggravato continuato e viene condannato all’ergastolo. È il 31 maggio 1949.
Il 16 dicembre 1952, sei anni esatti dopo la strage, la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da Attilio Ferrone.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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