IL RISPETTO DELLE CONSUETUDINI

Sono quasi le 5,00 del 26 febbraio 1946 quando l’Appuntato dei Carabinieri Giovanni Pugliese sta arrivando alla stazione ferroviaria di Scigliano, tenendo attaccati con la catenella due detenuti da trasferire nel carcere di Cosenza.

Aiuto! Aiuto! – si sente gridare dalla stazione. Poi il rumore dei passi di un uomo che corre nella direzione dell’Appuntato.

– Alt, chivalà? – urla all’uomo che, rasentando il margine della strada, gli sbuca davanti tutto trafelato.

Niente, niente… fesserie, fesserie… – gli risponde lo sconosciuto, cercando di proseguire la sua corsa.

L’Appuntato Pugliese lo afferra per un braccio e lo blocca.

– Vedremo se sono fesserie, intanto vieni con me alla stazione!

Arrivati sul piazzale esterno della stazione appare subito evidente che non si tratta affatto di fesserie: a terra c’è un morto.

– Sei stato tu?

– No… io non ho fatto niente! – si giustifica lo sconosciuto. Ma ora il debole chiarore di qualche minuto prima si sta trasformando in luce e, in più, c’è l’illuminazione del lampione e non può più nascondere il sangue che gli imbratta le mani e i polsi.

– Ah! Così non hai fatto niente? – insiste il militare, che continua – dimmi le tue generalità.

– Linza Antonio.

– E lui chi era? – gli chiede indicando il morto.

– Il farmacista Fausto Gualtieri…

I due detenuti che stavano per essere trasferiti aspetteranno un altro giorno, bisogna tornare in caserma con Antonio Linza, interrogarlo e poi cominciare le indagini.

– Perché lo hai ucciso? – gli chiede il Maresciallo Damiani.

Principalmente perché il padre di don Fausto, proprietario del fondo agricolo “Cotura” tenuto a colonia dalla mia famiglia, ha preteso che gli fosse lasciato il fondo dopo la sentenza del Pretore di Scigliano… e don Fausto gli dava ragione!

– E quindi? Mi pare giusto, ha vinto la causa e vi ha cacciati – obietta il Maresciallo.

– E no Martescià! Lui ci ha cacciati senza voler riconoscere, non ostante le consuetudini locali, il diritto di noi coloni ai maggesi. Abbiamo zappato, abbiamo piantato e quando è arrivato il raccolto se lo prende tutto lui? No! Così ho deciso di uccidere uno della famiglia Gualtieri e stamattina, appena ho visto nel piazzale esterno della stazione il farmacista, l’ho colpito due volte con un coltello.

– Che coltello?

Nu scannaturu Marescià!

– Dove lo hai messo?

– Lo trovate qualche metro prima del posto dove mi ha bloccato l’Appuntato…

– Hai detto che avevi già deciso di uccidere uno dei Gualtieri. Sai che questa si chiama premeditazione? Pre me di ta zio ne – scandisce bene le sillabe.

– Marescià, ho preparato il coltello, l’ho affilato e l’ho fatto, come si chiama non lo so!

Ma oltre all’improvvida dichiarazione di Antonio Linza, a metterlo seriamente nei guai sono le dichiarazione di qualche testimone, secondo i quali la sera precedente al delitto, Linza sentì che il mattino successivo Fausto Gualtieri sarebbe partito col treno alla volta di Cosenza. Quindi non un delitto d’impeto e casuale, ma premeditato, come sostiene il Maresciallo. E poi c’è il tentativo di fuga.

Secondo gli inquirenti, quella mattina Linza si appostò quando era ancora buio sul piazzale esterno della stazione, attese Fausto Gualtieri e lo accoltellò.

E Antonio Linza cambia versione:

– Non è andata come pensate. Io volevo andare col treno a Rogliano, per questo ero alla stazione…

– Il biglietto lo avevi fatto?

– No perché poi decisi di andare a piedi…

– Non ci credo! – gli urla in faccia il Pretore – col treno a disposizione mi vuoi far credere che ti eri deciso a fare tutti quei chilometri a piedi e per giunta con quel freddo?

– È così… anzi vi dico un’altra cosa, il vero motivo per cui ho fatto quello che ho fatto… venni a sapere che o don Fausto o suo fratello Ezio avevano sedotto mia sorella Vincenzina…

Bisogna verificare, se così fosse le cose potrebbero cambiare per l’imputato in quanto ci sarebbe di mezzo una questione d’onore. In attesa di farla sottoporre a visita medica, Viene chiamata a testimoniare Vincenzina:

– No… non mi hanno dato fastidio, né toccata, solo molto tempo fa don Fausto tentò di possedermi senza riuscirvi.

Brutto colpo per Antonio, ma Vincenzina, un paio di giorni dopo, si presenta dal Pretore e cambia versione:

– Mi vergognavo, ma la verità è che sono stata violentata da don Ezio Gualtieri, che in seguito mi ha posseduta consensualmente…

La dichiarazione di Vincenzina dà modo ad Antonio di modificare ulteriormente la sua confessione:

– In realtà volevo uccidere don Ezio che violentò mia sorella e credevo che quella mattina nel piazzale della stazione fosse lui e non don Fausto… non l’ho riconosciuto perché era ancora buio, è stato un errore di persona…

Per gli inquirenti il fatto che sbagliò persona perché era ancora buio è una menzogna evidente perché l’Appuntato Pugliese, teste ineccepibile, precisa che quella mattina, a breve distanza, le persone si potevano ben distinguere.

Ma il vero colpo di grazia alla ricostruzione di Antonio arriva dall’esito della visita ginecologica alla quale è stata sottoposta sua sorella Vincenzina: è vergine e quindi non ha potuto subire alcuna violenza sessuale!

Adesso Antonio è veramente nei guai e viene rinviato a giudizio per omicidio premeditato. E questo è anche l’orientamento della Corte, che osserva: esiste la premeditazione e non può essere assolutamente esclusa, di fatti Linza dichiarò che si era preparato il coltello e ne aveva affilato la lama; sapeva che Fausto Gualtieri  sarebbe partito col treno perché lo aveva sentito la sera precedente; nel cennato mattino si appostò sul piazzale esterno, attese Gualtieri e lo accoltellò; scelse un’ora mattutina quando gli era più facile dileguarsi, come aveva tentato di fare, se non fosse intervenuto provvidamente l’Appuntato dei Carabinieri Pugliese; non confessò subito il delitto.

Chiarito questo aspetto, la Corte analizza i motivi che spinsero Antonio Linza al delitto: quale fu la causale di questo? Evidentemente il fatto che i Gualtieri non volevano che i Linza, già coloni nel fondo Cotura, utilizzassero i maggesi, secondo la consuetudine locale, pur dovendo lasciare il fondo in virtù della sentenza del Pretore. Se Linza avesse agito per il preteso motivo di particolare valore morale, intendendo salvare l’onore della sorella e della famiglia, appena fermato dall’Appuntato Pugliese lo avrebbe manifestato e avrebbe precisato che aveva scambiato Fausto Gualtieri per Ezio Gualtieri e non avrebbe risposto con le evasive parole: “niente, niente, fesserie, fesserie” e negato di essere l’autore del misfatto.

Ma la Corte non può non riconoscere che l’imputato ha agito in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto dei Gualtieri (Filiberto e Fausto) i quali, negando ai Linza di usufruire dei maggesi secondo la consuetudine locale, venivano essi Gualtieri a beneficiare dei lavori per i detti maggesi, effettivamente fatti da Giovanni Linza, senza che costui ne restasse in atto indennizzato in qualche modo. Ciò costituisce, a parere della Corte giudicante, fatto ingiusto commesso in danno della famiglia di Giovanni Linza, di cui faceva parte il figlio Antonio, imputato, laonde dovendosi allo stesso concedere l’attenuante della provocazione. Alla pena dell’ergastolo va sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni e la Corte ritiene giusto infliggergli ventuno anni di reclusione, che pare anche giusto ridurre ad anni diciassette, per effetto delle attenuanti generiche da concedersi all’imputato, avendo riguardo dei suoi buoni precedenti.

È il 19 novembre 1948.

Sei anni e mezzo dopo, il 15 marzo 1954, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonati all’imputato 3 anni di reclusione in virtù del D.P. 19 dicembre 1953, numero 922.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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