IL MACABRO CORTEO DELLA NOTTE

È la mattina del 31 maggio 1948. In contrada Sotto lo stretto nel territorio di Fuscaldo due uomini stanno risalendo il corso del torrente Sirriventola, che scorre al fondo di una gola di monti. Quando arrivano alla base di un dirupo profondo circa sessanta metri rispetto ad una stradella che si svolge sulla sommità di esso, uno dei due lancia un urlo di terrore: sull’argine del torrente c’è un uomo sfracellato. Resistendo alla tentazione di allontanarsi il più velocemente possibile per non essere costretti a guardare quell’orrendo spettacolo, i due si avvicinano trattenendo i conati di vomito per capire di chi si tratti:

– È Ernesto Santoro! – esclama uno dei due.

– Si, è proprio lui. Sicuramente è precipitato da lassù – conferma l’altro, indicando la stradella in alto – andiamo ad avvisare i Carabinieri.

I militari, accompagnati dal Pretore e dal medico legale arrivano, trafelati, qualche ora dopo.

La palpebra superiore sinistra più bluastra; sul volto sangue aggrumito, specialmente agli orifici auricolari; macchie bluastre sul torace, al ginocchio ed alla gamba sinistra; sull’occipite una vasta ferita a margini frastagliati profonda fino al tavolato osseo, che leggermente cede alla pressione dello specillo, del diametro di centimetri cinque, i tessuti sottostanti scollati con evidenti segni di contusioni. – detta il perito, che continua – Giudico che la morte sia stata cagionata dalla ferita lacero-contusa sulla volta cranica per la frattura del tavolato osseo e per le gravi contusioni interne.

– A quando risale la morte? – gli chiede il Pretore.

– Direi meno di ventiquattro ore. Probabilmente nella serata di ieri, ma sarò più preciso dopo l’autopsia.

– Ma si sa quanti anni aveva? – fa il Pretore, rivolto al Maresciallo Pierino Perona.

– Quarantasette.

– Bene. Fate perlustrare il dirupo in cerca di indizi che confermino la disgrazia.

E gli indizi ci sono, infatti sul tronco di un castagno i militari trovano una macchia di sangue frammista a capelli.

Ormai la notizia della disgrazia si è diffusa e quando i Carabinieri arrivano a casa della vittima in contrada Costa della Pietra, la trovano affollata di vicini che fanno le condoglianze alla vedova ed ai figli. Chiamano i familiari in disparte per fare luce sugli orari.

Mio marito partì da casa nelle prime ore pomeridiane di ieri, recandosi nell’abitato di Fuscaldo, donde ripartì diretto alla propria abitazione verso le ore ventuno in istato di grave ubriachezza, che gli era quasi abituale – racconta la fresca vedova Elisabetta Pecora, che tra le lacrime aggiunge un particolare sconosciuto – soffriva di attacchi epilettici

Con questi elementi, il 2 giugno, il Maresciallo può azzardare una ricostruzione dei fatti e chiudere le indagini: lo stesso, solitamente ubbriaco, la sera innanzi, nel ritirarsi a casa e nel passare per una stradetta angusta che serpeggia alla sommità, era caduto e rotolando per la gola del dirupo era arrivato giù di peso, andando a battere con la testa contro il tronco di castagno sul quale è stata riscontrata una macchia di sangue frammista a capelli e quindi continuato a ruzzolare sino al fondo del burrone stesso, rimanendovi cadavere. Trattasi di morte accidentale, escludendo qualsiasi responsabilità penale di terzi.

Passano una ventina di giorni e il Maresciallo va in contrada Costa della pietra per vedere come se la passano i familiari del morto, ma nota qualcosa che gli sembra strana: i congiunti del defunto, mentre sono intenti a lavorare la terra, non appena lo vedono si allontanano. Saranno andati a casa. No, a casa c’è solo la figlia minore la quale, senza che le venga fatta alcuna domanda, gli dice:

Nulla so circa la morte di mio padre, la gente ci vuole male

Insospettito da ciò, il Maresciallo torna in caserma e convoca formalmente tutti i componenti della famiglia Santoro e li fa chiudere in camera di sicurezza dopo aver fatto nascondere sotto i tavolacci due Carabinieri. Credendosi soli, si mettono a parlare:

Hanno fermato anche Peppino? Chiede, allarmata, la vedova.

– No – le rispondono i figli Pasquale, Rosa e Stella.

Siamo tutti rovinati, San Francesco aiutaci! – esclama la vedova.

Forse non è stata una disgrazia, bisogna vederci più chiaro. Il Maresciallo pensa che l’anello più debole sia la vedova e la mette sotto torchio finché ammette:

– È stato Peppino, lo ha colpito con un legno alla testa…

– Com’è andata esattamente?

La sera del 30 maggio mio marito rincasò ubriaco fradicio e senza alcun motivo dapprima rovesciò con un calcio la pentola col cucinato e quindi minacciò di morte me ed i nostri figli Pasquale, Rosa e Stella. Poi mi buttò per terra e mi percosse, tanto che mi dovette soccorrere Pasquale. Io, per sottrarmi ad ulteriori violenze uscii di casa con Rosa, mentre Stella andò a chiamare Peppino, il fratello maggiore, che abita con la moglie a circa un chilometro e che subito accorse per calmare il padre. Costui, però, persistendo nel suo comportamento minaccioso ed aggressivo, si avventò nuovamente contro di me dandomi un morso ad una mano e rivolse minacce di morte anche a Peppino il quale, reagendo, gli lanciò contro un pezzo di legno colpendolo alla nuca e facendolo cadere a terra. Poi, per sottrarci alle conseguenze del commesso delitto, subito dopo decidemmo di trasportare il cadavere sino al burrone e buttarvelo in modo da far apparire che fosse caduto accidentalmente mentre transitava dalla stradella. Io, Peppino, Pasquale e Rosa abbiamo attuato tale decisione, mantenendo il più assoluto riserbo.

La confessione di Elisabetta Pecora viene confermata dai tre figli fermati con lei e quindi i Carabinieri vanno ad arrestare Peppino.

Ho colpito mio padre alla testa con un tizzone quando ha rivolto minacce di morte non solo a me ma anche a mia moglie che era accorsa in mia compagnia e che si trova incintanon volevo ammazzarlo ma solo intimidirlo… per il resto confermo quello che hanno detto mia madre e i miei fratelli e aggiungo che mio padre da tempo maltrattava non solo mia madre, ma tutti i familiari.

Anche la moglie di Peppino, interrogata, conferma la versione dei fatti e aggiunge un altro tassello alla storia.

La mattina successiva mio padre, fratello dell’ucciso, informato dell’accaduto consigliò di mantenere il segreto, insistendo sulla versione della caduta accidentale

In seguito a queste dichiarazioni, Elisabetta Pecora e i figli Peppino, Pasquale e Rosa vengono arrestati con l’ipotesi di concorso in omicidio aggravato e il fascicolo passa nelle mani del Pretore che interroga formalmente tutti gli indagati, i quali confermano le precedenti dichiarazioni aggiungendo però un particolare inedito: Peppino ha colpito suo padre solo dopo che questi gli si era avventato contro con una scure in mano. In un nuovo interrogatorio, però, la vedova ritratta e dice:

– Sono stata io a colpire mio marito nell’atto in cui con una scure tentava di strangolare Peppino. Poi uscì di casa tutto sanguinante dicendo che si sarebbe recato dai Carabinieri ed invece non tornò più perché passando per la stradicciola sopra il burrone dovette esservi caduto.

A questo punto il Magistrato ordina la riesumazione del cadavere per eseguire l’autopsia, ma il perito, avendo trovato i resti in istato di avanzata putrefazione, coperto di vermi e con la cute e i tegumenti esterni in completo disfacimento colliquativo, può solo riscontrare sulla regione occipitale, in corrispondenza del suo limite inferiore, una larga frattura a margini irregolari sfrangiati della lunghezza di otto centimetri e un segmento osseo che si affonda in cavità.

La frattura è stata prodotta da trauma diretto energicamente, esercitato con un corpo contundente a superficie ristretta e di compatta consistenza. La morte fu istantanea e la causa fu la profonda commozione cerebrale unita all’imponente ed improvvisa emorragia endocavitaria – riferisce il perito al Magistrato.

Gli inquirenti dubitano che Elisabetta Pecora sia stata in grado di sferrare il corpo mortale e pensano che la donna stia tentando di salvare suo figlio addossandosi la responsabilità del delitto. Ma ad intorbidire ancora di più le acque ci pensa la quindicenne Stella che, due mesi dopo il fatto, ritratta la sua precedente versione con la quale accusava il fratello Peppino e adesso dice:

– Il colpo lo tirò mio fratello Pasquale, Peppino non c’entra…

Anche i suoi fratelli ritrattano, ma per confermare la nuova versione della madre: è stata lei a colpire il padre che, sanguinante, andò via di casa per recarsi dai Carabinieri, senza fare più ritorno. Il loro problema, però, è che a questa versione non crede nessuno e gli imputati, ai quali vengono aggiunti la moglie-cugina e lo zio-suocero di Peppino, vengono rinviati a giudizio per concorso in omicidio, aggravato dalle relazioni di parentela.

Durante il dibattimento le dichiarazioni di vari testimoni, tra i quali la madre della vittima e del Maresciallo Perona, vanno in un’unica direzione e descrivono Ernesto Santoro poco amante del lavoro, dedito al vino e proclive alla violenza e alla prepotenza, maltrattava sistematicamente i suoi familiari, trascendendo a violenze inaudite e a scenate terrificanti che rendevano la vita infernale. Abbrutito dal vizio del vino che beveva quasi ogni giorno, Ernesto Santoro non solo si disinteressava inumanamente di provvedere ad alcunché della sua famiglia, quanto pretendeva avere dalla malcapitata moglie – e ciò da tempo – il danaro che ella assieme ai figli si procurava dai servizi più umili e più pesanti. Vagabondo, osava offendere nel modo più infame moglie e figli verso i quali, perfido, non aveva mai una parola di dolcezza, di amorevolezza, di bontà e, immemore dei doveri più sacri della paternità in ordine all’assistenza morale e materiale, non sapeva, non riusciva che a distribuire soltanto asprezza insana e violenza, la più cruda.

È in questo contesto che Peppino e sua madre rendono le proprie deposizioni alla Corte:

Davanti ai Carabinieri ed al Pretore mi sono assunto la responsabilità dell’omicidio al solo e unico scopo di salvare mia madre e i miei fratelli – dichiara Peppino.

– L’unica responsabile sono io – conferma Elisabetta, che aggiunge – e l’ho fatto per liberare me stessa ed i miei figli dalla violenza che il bruto attuava. Peppino non fu chiamato quella sera, bensì la mattina dopo e non partecipò nemmeno al trasporto del cadavere nel burrone

Tra la sorpresa generale vengono portati a testimoniare due vicini che, si scopre, hanno assistito alla scena del delitto, o almeno hanno sentito le voci dei protagonisti. I due riferiscono che effettivamente Peppino accorse dopo essere stato chiamato dalla sorella minore; che realmente, prima dell’arrivo del figlio, Ernesto Santoro era sul punto di malmenare la moglie e gli altri figli, tanto che i due testimoni per circa dieci minuti sentirono le voci dei malcapitati, le invocazioni di Elisabetta, la frase pronunciata da Ernesto: “Per i morti di San Francesco non mi toccate altrimenti vi faccio arrestare” poi le grida che si placarono e di nuovo le voci esclamare ad alta voce: “Disgrazia, è morto!”. Quindi, dopo un quarto d’ora, videro portare fuori dalla casa dei Santoro una lanterna, la cui luce si diresse per la strada che, scendendo lungo il fiume, conduce a Fuscaldo. Il macabro corteo della notte!

Appare evidente, in base a queste testimonianze, il coinvolgimento di tutti o quasi i familiari. C’è un problema: come determinare le singole responsabilità? Una brutta gatta da pelare per la Corte, ma prima che il dibattimento sia dichiarato concluso, Peppino chiede di fare delle dichiarazioni:

Confermo in ogni sua parte la confessione fatta ai Carabinieri e al Pretore. Ammetto di avere colpito mio padre allorquando, accorso alle grida, lo sorpresi con una scure in mano in atto di colpire mia madre, mia sorella e mio fratello, minacciandoli di morte… sono stato spinto a tanto dall’urgente necessità di allontanare i miei familiari da quel grave pericolo. Mio padre era un bruto e anche quella sera era come al solito ubbriaco fradicio e fortemente agitato, fuori di sé, come non mai esaltato – confessa guardando la madre con gli occhi lucidi, nel silenzio assoluto dell’aula.

Adesso appare tutto più chiaro: tutti gli elementi acclarati danno la piena e tranquillante prova che a cagionare la morte di Ernesto Santoro è stato il colpo inferto con violenza da Peppino. Non deve sorprendere – continua la Corte – che i prevenuti abbiano, lungo le fasi istruttorie e anche in dibattimento, tentato di mutare le loro dichiarazioni e per ultima Elisabetta Pecora, pietosamente, abbia voluto lei sola assumersi la responsabilità dell’evento, scagionando tutti i figli, in particolare Peppino, accusandosi sola e unica autrice della morte del marito! È tutto facilmente spiegabile ed è naturale l’immensa, bella, luminosa pietà della madre in difesa dei figli. Tutto ciò però non può fuorviare la verità che scaturisce dalla confessione spontanea, chiara, esauriente, inconfondibile resa da Peppino Santoro nell’ultimo momento del dibattimento.

Per la giuria è arrivato il momento di decidere: intanto il reato viene derubricato in omicidio preterintenzionale, responsabile del quale è il solo Peppino Santoro, al quale va concessa l’attenuante della provocazione grave. Ma la Corte lo ritiene anche meritevole della concessione delle attenuanti generiche, in considerazione dei suoi ottimi precedenti penali, della condotta e della vita dello stesso prima del delitto, da tutti descritto come giovane di carattere buono, dedito al lavoro e alla famiglia. La pena da infliggere? Secondo il titolo del reato sarebbe di 15 anni di reclusione, aumentata di 1/3 per l’aggravante della relazione di parentela. In tutto 20 anni, dai quali vanno sottratti 6 anni per le due attenuanti concesse. 14 anni di reclusione. A questi bisogna aggiungere 1 anno per il reato di concorso in occultamento di cadavere. In tutto 15 anni, ma Peppino beneficia dell’indulto di 3 anni stabilito dal DP 23/12/1949 e ne sconterà, quindi, 12.

Gli altri imputati dovranno scontare (in realtà l’hanno già scontata con il carcere preventivo) 1 anno di reclusione per l’occultamento del cadavere.

Poi la Corte sente il dovere di spendere qualche parola per Elisabetta Pecora:

Sventura sconfinata, dolore immenso (vi sono dolori che non finiscono mai), da anni sovrastavano la misera casa ove la disgraziata Elisabetta Pecora, rassegnata e prona, viveva la sua vita tanto triste, sorretta dalla sola fede e dal grande attaccamento verso i figli, cui prodigava tutte le sue povere energie fisiche nel guidarli, sostentarli e proteggerli con tutto il suo immenso, profondo affetto di madre! Generosamente ella si sostituisce in pieno al marito nei doveri verso i figli, spontaneamente si accolla tutto il peso grave della famiglia e in silenzio si strugge in lagrime amare che il bestiale marito le fa versare! Eterna, sublime, commovente e superba poesia vi è nella vita e condotta di questa madre cui, in contrappeso netto e reciso sta il contegno detestabile, raccapricciante, ignominioso di un uomo che mai – in nessun momento – si dimostrò padre e marito! Questo il quadro della famiglia Santoro in cui giganteggia, si eleva la luminosa figura mesta di una sposa e di una madre e, in contrasto, la bieca, losca figura di un uomo che non ha mai sentito di essere padre! È in tale ambiente, in tale amaro clima che sorgono le ragioni prime, i motivi profondi dell’avversione che diviene sempre più grave da parte di Elisabetta Pecora e dei figli verso Ernesto Santoro. E il comportamento, il contegno di ogni giorno di costui che man mano, come è naturale, scuote fortemente i rapporti della moglie e dei figli verso di lui e quanto più egli diviene violento e aspro, tanto si riduce, degrada la sopportazione dei malcapitati che avvertono la vita come un enorme insostituibile peso e vi si muovono come esagitati nell’inferno! E così egli, imprudentemente e senza ragione alcuna, si era voluto porre contro le sacre, eterne, profonde leggi dell’amore, della comprensione, della bontà paterna e contro i doveri più elementari e precipui che al padre fanno capo. Man mano diviene un tollerato, un sopportato, temuto soltanto e perciò fuori dal gruppo familiare, un estraneo nella casa ove avrebbe dovuto essere circondato dalla benevolenza della moglie e dei figli, elemento importante e preminente.

È il 22 novembre 1950.

Il 23 aprile 1952 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato.

Il 5 aprile 1954 la Corte di Appello di Catanzaro dichiara, in base al DP 19/12/1953, condonati 3 anni della pena per il reato di omicidio preterintenzionale ed estinto per amnistia il reato di occultamento di cadavere.[1]

La pena resta così fissata in 8 anni di reclusione, dei quali quasi 5 già scontati.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Cosenza.

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