L’ARTISTA PAZZO E SUA SORELLA

Nel giorno 8 novembre 1895, un fatto atroce conturbava la quiete del pacifico paesello di San Pietro Apostolo. Guglielmo Tomaini, approfittando che suo fratello trovavasi a letto perché affetto di gotta, armatosi di un grosso bastone, si appiattò dietro una porta ove soleva passare la sorella Mariannina e la colpì ripetutamente alla testa, producendole una ferita contusa e bislunga sulla regione fronto-temporale destra ed un’altra più vasta sulla regione occipitale con frattura dell’osso sottostante e con fuoriuscita di sangue e sostanza cerebrale, per cui la poveretta morì all’istante. Ciò fatto si mise a guardarla come se nulla fosse avvenuto. Accorse persone del paese, cercarono di impadronirsi del fratricida, ma egli, sempre armato del bastone, menava colpi a tutti e solo dopo molta fatica ed usando la massima circospezione, si riuscì ad arrestarlo e ad assicurarlo ben bene.

– Perché avete ucciso vostra sorella?

Perché dovevo ucciderla

Nessun’altra risposta si poté avere.

Interrogati anche i familiari, riferiscono che Guglielmo avrebbe detto loro di avere ucciso la Mariannina mala e non la buona.

E siccome è notorio che l’artista soffre di disturbi mentali, il Giudice Istruttore del Tribunale di Nicastro, competente per territorio, senza perdere tempo ordina un giudizio peritale sullo stato di mente di Guglielmo Tomaini al momento del reato e ne ordina il ricovero nel manicomio provinciale di Girifalco. L’artista, accompagnato dai Carabinieri, il giorno dopo il delitto viene internato e affidato al professor Silvio Venturi.

Ma chi è Guglielmo Tomaini? Guglielmo Tomaini non è una persona qualsiasi, appartiene ad una distinta famiglia ed è perciò che i genitori, accortisi del suo ingegno, lo avviarono agli studi superiori.

La ricercatrice Virginia Silvano [http://www.icsaicstoria.it/tomaini-guglielmo/ consultato il 18/03/2020] ne ricostruisce la biografia e questo è un passaggio fondamentale per comprendere al meglio ciò che leggeremo più avanti: ultimo di cinque figli, nacque a San Pietro Apostolo il 6 aprile 1854. Il padre Anselmo, avvocato, partecipò attivamente ai moti rivoluzionari del 1848. La madre, Giuseppa Gaetana Vittoria Cefaly, oltre a provenire da una colta famiglia cortalese, dalla quale aveva ricevuto una formazione eclettica capace di guardare alla pittura e alla musica, era anche sorella di Andrea Cefaly, pittore, scultore, poeta, patriota e uomo politico di assoluto rilievo nell’ambiente napoletano. È nell’Istituto Artistico Letterario fondato da suo zio a Cortale che Tomaini iniziò ufficialmente i suoi studi artistici dopo aver conseguito, il 14 agosto 1868, presso il Reale Liceo Galluppi di Catanzaro, il titolo ginnasiale. Poi, nel 1871, si trasferì a Napoli per studiare nell’Istituto di Belle Arti. Memore dell’impegno militare svolto dal padre e dallo zio, nel 1872 decise di arruolarsi come volontario nell’esercito italiano prestando servizio come soldato al 27° Distretto di Napoli e l’anno successivo tornò in Calabria per terminare il servizio militare. Le fonti non consentono di ricostruire con certezza gli anni dal 1876 al 1880, anno in cui Tomaini tornò definitivamente in Calabria. Ciò che è emerso è un discreto successo che l’artista ottenne negli ambienti culturali romani, non solo come pittore, ma anche come commediografo. Il soggiorno romano iniziò, con ogni probabilità, nel 1876, anno in cui Andrea Cefaly assunse la carica di Deputato del Parlamento d’Italia. È all’interno di questa parentesi che si può collocare l’opera più complessa del repertorio dell’artista. La permanenza a Roma, tuttavia, fu piuttosto breve, considerando che nel 1878 pubblicò a Napoli un volume di versi intitolato Diciassette Novembre, in riferimento all’attentato avvenuto ai danni di re Umberto I per mano dell’anarchico Giovanni Passannante, accaduto il 17 novembre 1878 proprio nella città partenopea. Nel 1880, come dicevamo, l’artista ritornò definitivamente in Calabria a causa dell’aggravarsi di alcuni disturbi psichici che avevano già iniziato a manifestarsi a Roma.

I disturbi psichici. Guglielmo Tomaini è ora internato nel manicomio di Girifalco e tocca all’alienista Silvio Venturi continuare il racconto.

A Roma Tomaini cominciò subito a mettersi in vista. I colleghi, gli amici lo amavano e lo stimavano assai ed un avvenire brillante gli sorrideva. Scrisse commedie pregevoli che a Roma furono rappresentate con successo. Sempre allegro, di animo mite, di eletto ingegno, era l’anima della compagnia. A Roma fu affetto da sifilide, malattia che non si curò mai radicalmente. Un giorno, in una riunione di pittori fu eletto Presidente ed invitato a fare un discorso. Siccome non la parola pronta, fu forse per ischerzo deriso ed egli se la pigliò così a male che cominciò ad insultare tutti e a non volere più trattare con nessuno. Un altro giorno si recò a trovare lo zio, commendator Andrea Cefaly ed il commendator Grimaldi, lamentandosi che una comitiva di giovinotti andasse ogni sera ad insultarlo ed a provocarlo. Non ebbe soddisfazione e cominciò allora a sfidare a duello principi, Ministri, Deputati, il Re stesso. Ciò un 15 anni or sono. La famiglia, accortasi che il cervello del povero Guglielmo cominciava a dar di volta, lo richiamò a San Pietro Apostolo, ove per 15 giorni circa si mantenne calmo e tranquillo. Ma poi cominciarono le idee di persecuzione e le allucinazioni. Rifiutava il cibo perché lo credeva avvelenato. Viveva da solo, non voleva contatti con alcuno. La pietà del fratello Domenico e, giornalmente, della sorella Mariannina avea impedito che fosse rinchiuso in un manicomio. Ordinariamente, però, Guglielmo era tranquillo: fumava, passeggiava e non si incaricava d’altro.

Dopo i primi accenni, la malattia, manifestatasi a Roma, soleva essere preceduta da una preoccupazione d’indole paranoica. Più innanzi, verso il 1880, ad essa si associarono delle allucinazioni uditive: sentiva voci che lo chiamavano, che lo ingiuriavano ed altre che gli dicevano delle cose strane. Viveva schivo di ognuno, giocava se invitato e tutto ad un tratto sospendeva il gioco per uscire e vedere se di fuori ci fossero persone che lo chiamavano. Di notte non dormiva che di rado, ma si alzava e guardava fuori delle finestre. Coi familiari poco alla volta cominciò a farsi minaccioso perché credeva fossero altre persone.

Passato alquanto tempo in tale stato di disordine paranoico con contenuto allucinatorio e delirante di persecuzione e in stato di preoccupazione melanonica e sospettosa, poco alla volta si insinuarono nel suo spirito un sentimento ed un concetto di orgoglio, segno che il delirio sistematizzato facea evoluzione verso lo stato di demenza. Guglielmo era pericoloso e dovette essere isolato dal commercio coi sani e tenuto chiuso in un appartamento isolato della casa, guardato da inferriate alle finestre ed alle porte d’ingresso, assistito da qualche persona di servizio in prima e poi dalla sorella Mariannina, che ne divenne poco alla volta la sola infermiera e la sola ad avere accesso nell’appartamento ed alla quale il pazzo erasi fatto ubbidiente, passivamente ubbidiente, non ostante le interiori energie, le quali lo avrebbero spinto alle azioni di una vita autonoma violenta, vittima delle impulsioni volitive e delle suggestioni allucinatorie. Era fra lui e la Mariannina il rapporto che vi ha fra il domatore e la belva domata, che rugge di umiliazione, ma a cui apparisce gigantemente terribile il tenue frustino che schiocca sopra il suo capo. Non di rado Guglielmo, all’infuori del dominio della sorella, si rese temibile e si fece pericoloso per gli altri di casa o di fuori. Invero nessuno si avvicinava a lui ché ne temea le violenze e sulla via sottoposta alle finestre egli un giorno, avendo per caso un revolver, sparò minacciando gente che passava. La sorella lo tenea soggetto con l’arte e con la pietà, per le quali s’era fatta capace d’interpretare e prevenire i desideri ed i bisogni innocui del povero pazzo. Più volte la famiglia avrebbe voluto liberare sé stessa e Mariannina da quell’imminente pericolo e da quell’impossibile sacrificio di custodire il folle in casa e l’avrebbe voluto mandare nel manicomio. Fu Mariannina che si oppose sempre, dicendo ch’essa s’era votata alla sua assistenza e non avrebbe voluto affidarlo ad altri. Opponeva, quel raro spirito di donna, a coloro che la lusingavano con la promessa che il fratello in manicomio sarebbe guarito o migliorato, che sarebbe male egli avesse a migliorare così che avesse a conoscere lo stato suo misero, tanto più amaro dopo esser caduto da tanta altezza di mente, era anzi pietà. Essa opponeva il lasciarlo vivere così, di quella florida vita nutritiva dalla quale la scarsa mente ritraeva soddisfazioni e gioie ignorate da chi pensa, vede e soffre.

Mariannina era colta, si era educata da sé, conosceva la lingua ed era conoscente di storia; era nello stesso tempo uno spirito che, trascurati i destini ove l’avrebbero dovuta condurre e fare aspirare il sesso e la posizione sociale, errava fuori via, fascinato da idealità peregrine ed alte, oltre le quali e dalle quali si nutrisce così di sovente il destino paranoico degli ereditari e delle quali episodicamente talvolta si costituisce l’eroismo ed il genio.

La sorella, convivendo in tali condizioni di mente e di luogo col fratello, avea stretto con lui rapporti che francamente si potevano dire essere sulla via di quelli che danno motivo alla costituzione della pazzia a due. Lei il soggetto attivo, lui il passivo; convivenza continua, sentimento da parte della sorella, di dovere di sé integrare la personalità morale mancante del fratello. Non, come ordinariamente, attenzione del destino consensuale (che non potrà essere perché tra il fratello già demente e lei, intelligentissima, sarebbe stata soverchia la distanza) ma visione integrativa delirante.

Ma il contegno di Mariannina rispetto al fratello non restò sempre uguale e un brutto giorno di maggio usò i mezzi per ottenere una più pronta e supina obbedienza e, all’arte fino allora adoperata, ella aggiunse la minaccia con un’arma in mano (scure o bastone). E poiché ottenne gli sperati effetti, da allora in poi continuò, di quando in quando, nel sistema. Ora non occorreva più nulla perché tra lei ed il fratello corressero rapporti simili a quelli fra domatore e belva.

Il pazzo, atterrito dal nuovo modo, obbedì con sommissione cupa e con represso lamento, che somigliò a ruggito foriero di reazione e di vendetta. Nell’animo del pazzo il dominio della violenza suscitò e accumulò energie intime di ribellione, le quali ebbero per effetto, grado grado, di far sorgere in lui un nuovo opposto stato di coscienza rispetto alla sorella, determinandone uno analogo al nuovo modo di essere di lei rispetto a lui. Odiò quella sorella che lo minacciava con l’arma, egualmente come prima amava quella che lo blandiva con la pietà. Ma tale mutamento non si fece collocandolo lungo la linea del tempo. Il pazzo non ebbe una Mariannina mala attuale ed una buona passata, ma contemporaneamente due Mariannine, una mala ed una buona, le quali si alternavano.

Soggetto di costituzione scheletrica buona. Pannicolo adiposo molto sviluppato. Statura m. 1,69. Pesa 103 Kg. Ha capelli castani e la calvizie, avuto riguardo alla sua età (44 anni) è molto pronunciata. Un uomo completamente diverso da quello del suo autoritratto. La fronte è ampia e in tutto l’assieme si ha una testa di persona intelligente.

Scambia, per lo più, le persone che lo curano e lo sorvegliano e le chiama con nomi di persone forse a lui conosciute. Sembra che vada soggetto a disturbi sensoriali sia come illusioni che come allucinazioni. Ciò si sospetta dal contegno e dallo speciale modo che tiene nei soliloqui. Crede d’essere a casa sua. Non esprime giudizio su ciò che lo circonda, tanto diverso da quello cui era abituato da tanti anni. La compagnia dei pazzi non lo interessa, né piacevolmente, né spiacevolmente. Parlandogli del delitto compiuto o non risponde o risponde con frasi fatte, senza né commuoversi, né dare indizio di pensieri o di sentimenti che lo abbiano determinato al fatto. Tutto ciò dimostra che egli è indebolito d’intelligenza.

Di solito ubbidisce facilmente ai comandi di chi lo assiste. Egli è renitente quando è preso dal desiderio d’uscire dal luogo dov’è, o per recarsi al piano superiore, ove crede sia il suo appartamento, o fuori dalla porta. Ha spesso delle ossessioni che si rivelano nella tendenza ostinata a fare certi atti o sconci o insignificanti. Né piange, né grida, né ride, è sempre lo stesso. Non parla con alcuno ma fa soliloqui e si avvicina a questo o a quello per ubbidire a impulsioni spontanee. Non cura la toilette, la veste, la persona; strazia spesso gli abiti e spesso si sporca addosso. Nessuna traccia di quelle distinte capacità e propensioni artistiche.

Non si è osservato che abbia erezioni o sia onanista. Non parla di donne, però qualche giornata è dominata dall’ossessione invincibile d’inginocchiarsi davanti a questo o quel malato o sano e fare atto di volergli sbottonare i calzoni onde fare sconcezze sui genitali. Insieme a ciò ripete spesso automaticamente parole che accennano a tendenze pederastiche, senza però che queste abbiano potuto convincerci che rispondano, in realtà, a desideri o a bisogni sessuali organici. Ciò perché, invero, egli non andò più in là del dir parole o far gesti salaci, mentre non apparve mai che fisicamente egli abbia avuto bisogni o sfoghi sessuali.

In manicomio spesso è violento, allora che gli salta il ticchio di andare qua e là a danno del personale di custodia e, poiché è assicurato col busto di forza e con le pastoie, dà degli urti di gomito che talvolta rischiano di essere pericolosi.

I dialoghi sensati con lui non riescono che a fargli dare delle risposte monosillabiche le quali non esprimono sempre che egli abbia coscienza di ciò che gli si domanda. Al contrario, vi ha una spontaneità infrenabile all’espressione di parole monotone, senza significato, e di neologismi dei quali più frequente è la parola onina, che forse neppure per il malato stesso ha un significato.

Rispetto alla memoria e alle impressioni in lui determinate dal delitto compiuto, si riscontrò che mai una volta le domande direttegli in proposito ebbero effetto di determinare reazioni emotive od espressioni di dolore o di giustificazione. Una volta disse che aveva ucciso la sorella perché così gli avevano ordinato ed al comando degl’imperatori si doveva ubbidire. Un’altra volta disse che l’ha uccisa e ha fatto bene ad ucciderla e l’ucciderebbe ancora, se fosse il caso. Tutto ciò disse senza emozione e senz’alterazione dell’ordinaria fisionomia, aperta, serena, sorridente.

Quando si tentò di commuoverlo ricordandogli la bontà della sorella defunta ed il bene che gli voleva ed i sacrifici ch’essa faceva per lui, non si ebbero emozioni, né parole in proposito. Nessuna coscienza, in lui, della sua posizione giuridica, né del manicomio ove si trovava, se non una tendenza incosciente ad uscire per ritrovare i luoghi ove per tanti anni fu abituato a stare.

Oggidì egli è tuttavia nello stesso stato di mente e di corpo: incosciente, taciturno, vittima delle impulsioni ossessionali, distratto da un continuo lavoro di allucinazioni e di mobilità, incurante di tutto, incapace di coscienza e di dominio di sé e di giudizio sulle persone e sulle cose, indifferente alle memorie della vita passata e refrattario alle emozioni spontanee o provocate, forse in balìa di idee e sentimenti deliranti.

Tutto ciò porta il professor Venturi a ritenere che Guglielmo Tomaini sia affetto da una psicopatia che ha i caratteri della demenza, che però non è nelle condizioni dell’incapacità generale e minuta delle attività psichiche poiché nell’ambito di essa resiste viva ancora l’energia delle attività psichiche medesime. La demenza di cui parla Venturi è costituita non sulla base della debolezza delle singole attività psichiche fondamentali (intelligenza, memoria, volontà, attenzione, sensorialità, linguaggio, poteri apercettivi ed espressivi) i quali tutti, isolatamente considerati, hanno energia di attività per quanto agiscano con sproporzione e senza misura, ma è sulla base del lavoro armonico degli uni cogli altri allo scopo degli obiettivi della vita mentale, per l’interesse dell’individuo in sé stesso e in società che vi ha la debolezza mentale. Adoperando un esempio, spiega Venturi, lo stato psichico del Tomaini, rispetto alla demenza da cui egli è affetto, è da paragonarsi a quello di un organismo collettivo, come sarebbe una fabbrica industriale, nella quale i singoli operai, tutti capaci ed attivi, lavorassero per loro conto, senza scopo e coordinazione col lavoro di altri, senza direzione, senza ordine, senza freno. Ne verrebbe, da tali condizioni di cose, che la fabbrica non funzionerebbe nello scopo cui sarebbe destinata e sarebbe da considerarsi, perciò, non esistente.

Tutto ciò per il lusso di analisi. Clinicamente e praticamente, però, l’Alienista si limita a dichiarare che Guglielmo Tomaini è affetto da Demenza generale, presso che completa. Presso che completa nel senso che ancora sopravvivono delle capacità psichiche che, pur lavorando isolatamente, possono rendere servigi alla vita di relazione.

Bene.  Quelle descritte da Venturi sono le condizioni riscontrate dopo il delitto. Ma resta ancora da rispondere al quesito principale postogli dal Giudice Istruttore: quali erano le condizioni mentali dell’imputato nel momento in cui commise il delitto?

Per rispondere al quesito, Venturi parte da lontano e comincia con l’anamnesi della famiglia di Guglielmo: la madre morì pazza; la sorella uccisa era pure strana. Fra i parenti notansi molti pazzi dal lato paterno e materno (nella quale furono frequenti i pazzi, gli epilettici ed i nervosi). Poi continua:

L’isolamento completo e così prolungato valse a rendere sempre più intenso il procedimento delirante e, poco alla volta, vivendo di sé stesso, Guglielmo restrinse nella cerchia della propria esperienza mentale ogni esercizio di mentalità: poche e inefficaci impressioni della vita reale, nessuna varietà di vita, monotona la conversazione con chi lo assisteva, per nulla autorevoli le critiche allo strano modo suo di giudicare ed agire, determinarono sempre maggiormente l’isolamento psichico del malato si che, rendendoglisi sempre meno desiderati gli obbiettivi della vita mentale, perdette poco alla volta il dominio sopra di sé e il processo di degenerazione agì rompendo la combinazione armonica del lavoro mentale, cui mancava lo scopo sintetico, e producendo però la dissociazione e la disorganizzazione degli elementi attivi.

Restò sufficiente e florida quella vita di lui che non suole avere bisogno di rapporti, la vita vegetativa la quale, anzi, attinse maggior vigore dalle sempre diminuenti influenze delle preoccupazioni dello spirito; ond’egli si arrobustì fisicamente ed ingrassò, come non altrimenti avviene dell’albero che invigorisce il tronco man mano che venga esonerato dall’incarico di dar nutrimento ai rami.

Il delitto di fratricidio fu commesso da Guglielmo Tomaini recentemente, l’8 novembre, quando egli era nelle identiche condizioni mentali in cui egli apparisce oggidì sotto la nostra osservazione. E tali condizioni mentali (demenza consecutiva a delirio cronico paranoico) erano già, come nello stato attuale, costituite presumibilmente fino almeno 8 o 10 anni a questa parte.

Il delitto fu un atto nuovo della sua vita mentale, atto in apparente contraddizione con l’ordinaria maniera di sentire, di giudicare, di agire e di reagire di esso in quell’ambiente di vita monotona ch’egli conduceva colà, in rapporto psichico abituale con la sorella. Rapporto di soggezione e di spontanea simpatia, che avea radici e motivo di azione dalla tendenza monotona a ricevere le stesse impressioni ed a rispondere analogamente. Perché in tale condizione di meccanismo mentale, che solea esprimere la personalità morale dell’imputato, sia avvenuta la determinazione all’omicidio, occorre sia avvenuto un mutamento interiore corrispondente e corposo. Noi, analizzando gli ultimi atti della vita dell’imputato Guglielmo Tomaini, vediamo di radunare le fila per rintracciare le sorgenti della nuova disposizione mentale, la quale creò l’energia che diede nel giorno fatale lo scoppio violento criminoso.

Non fu Guglielmo Tomaini un pazzo delinquente nel senso inteso oggidì dalla nuova Scuola antropologica criminale (Del Greco), ma commise l’uccisione della sorella in condizioni non d’abituali disposizioni pazzesche all’omicidio, sibbene in un momento di obbedienza allucinatoria, determinata sul fondamento di una mutata coscienza affettiva, sorta sul terreno di un’antica demenza post-paranoica.

Detto ciò, scaturisce evidente la completa irresponsabilità giuridica di Guglielmo Tomaini nell’uccisione della sorella Mariannina, avvenuta l’8 novembre 1895.[1]

È l’11 gennaio 1896 e ci sono voluti 59 giorni di osservazione.

Guglielmo viene dimesso e il Tribunale emette una sentenza di non luogo a procedere. La famiglia, però, a casa non lo vuole più e lo fa internare nuovamente nel manicomio di Girifalco dove resterà fino alla sua morte, il 17 dicembre 1909.

Di lui restano molte tele conservate in vari musei e collezioni private di tutta Italia.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Miscellanea Processi Penali.

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