IL TETRO FANTASMA DELL’ODIO

Chi non sa che volga odio in core calabrese, non per volgere di tempo o per variar di condizione lo si dilegua giammai, che anzi come tetro fantasma spesso si affaccia alla mente e avvelena il pensiero.

 

Quando ancora l’idea dell’unità italiana era solo il sogno di qualche sovversivo, a Magli un certo Pasquale Carravetta, venuto a contesa con Raffaele Ferro lo uccise in mezzo alla strada davanti ai paesani accorsi ad assistere alla lite.

Fin da quel giorno, Domenico Ferro, figlio dell’assassinato, giurò di vendicarsi e cominciò a nutrire un odio sordo e implacabile contro la famiglia Carravetta, in particolare contro Filippo, nipote dell’uccisore. Ad acuire questo odio contribuì un fatto accaduto nel 1857 quando Domenico Ferro, in una rissa tra diverse persone, tirò contro Bernardo Carravetta, padre di Filippo e fratello dell’assassino, e contro Giuseppe Vitelli, un nipote di Bernardo,  un colpo di arma da fuoco. Fu allora che Filippo, per difendere il padre e il cugino esplose a sua volta un colpo di pistola contro Domenico, che andò a vuoto. Dopo qualche minaccia sembrava che la questione si fosse ricomposta e i due di tanto in tanto si scambiavano anche qualche parola. Ma Domenico, con determinazione, seppure con grande fatica, fingeva. Fingeva aspettando l’occasione buona per vendicarsi.

Domenico non era un uomo col quale si poteva trattare scherzosamente, tant’è che lo chiamavano Secuta Cristi. La tragica morte del padre lo aveva segnato indelebilmente rendendolo una persona rude e incline alla violenza. Era povero ma pronto a tutto pur di garantire alla moglie, Emanuela Imbriani, la possibilità di prendere i bagni a San Lucido. Più volte venne denunciato, arrestato e processato per piccoli furti, minacce, lesioni ed estorsioni ai danni di compaesani e dalle sue violenze non si salvò nemmeno il fratello maggiore Salvatore. Così Domenico provò anche il fresco della prigione di Spezzano Grande e provò anche la ubriacante felicità di riconquistare la libertà attraverso l’evasione. Ma nel frattempo l’Italia stava per essere appiccicata pezzo per pezzo e il re borbone, avendo bisogno di braccia da armare, concesse un’amnistia che lo tolse dalla galera un paio di anni prima del dovuto.

Filippo Carravetta, da parte sua, veniva da una famiglia benestante e la sua condizione di unico discendente avrebbe fatto confluire nelle sue mani tutto il patrimonio che metteva il suo casato una mezza spanna sopra i paesani.

In gioventù perse la testa per una ragazza che non era della sua condizione, Palma Bruno, e le tolse l’onore. I tre fratelli di lei pretesero che la sposasse anche contro la volontà dei Carravetta; pretesero e ottennero che Palma non andasse ad abitare in casa loro e che Filippo non convivesse con lei. Ma con la scusa che ormai era sposata, nemmeno i fratelli la vollero più e così Filippo la sistemò in una casetta isolata dove, di tanto in tanto, si avventurava di notte a riscuotere i suoi diritti di marito.

I Carravetta, però, avevano bisogno di un erede a cui tramandare la roba che Filippo avrebbe lasciato, e ccà a cent’anni,  alla sua morte e così lo convinsero a ricorre alla Curia per fare annullare il matrimonio per difetto di consenso, essendo chiaro che gli fu estorto e questo avrebbe dovuto testimoniarlo la moglie, per cui Filippo fu costretto ad accordarsi con i cognati, i quali gli assicurarono che non si sarebbero opposti all’annullamento e in questo modo avrebbe potuto sposare una donna del suo stesso lignaggio e avere l’erede di cui aveva bisogno.

Domenico Ferro, come tutti in paese, lo seppe e pensò che poteva essere una buona occasione per la sua vendetta. Voleva cominciare col far fallire i progetti del nemico e cominciò a insinuare strane cose nella testa di Salvatore Bruno, il cognato più giovane di don Filippo, arrivando a chiamarlo “cornuto e svergognato” per aizzarlo contro don Filippo. Salvatore, esasperato, si recò alla Curia e aspettò il canonico Raffaele Morrone davanti il palazzo Arivescovile e non appena lo vide, gli si avvicinò e gli disse:

– Monsignore, siete una persona buona e timorata, fate la cosa giusta per mia sorella Palma… il matrimonio deve restare valido! – il Canonico restò un po’ sorpreso da quelle parole, ma il sangue gli si gelò nelle vene non appena Salvatore, puntandogli contro l’indice come se fosse un’arma, continuò con una velata minaccia – Monsignore… io sono appena uscito di galera…

E il matrimonio non fu annullato. Ma a Domenico questa piccola vittoria non bastava; cominciò a parlare in modo insistente di uccidere don Filippo dicendo a Salvatore Morrone che gli avrebbe caricato personalmente l’arma e che lo avrebbe fatto aiutare da suo fratello Bonaventura il quale, non volendo essere coinvolto in quella brutta storia, ne informò il fratello maggiore Salvatore. Questi, di indole buona, e addirittura amico della famiglia Carravetta, la avvisò del progetto del fratello, facendo saltare tutti i piani.

Domenico ora temeva la vendetta di don Filippo per cui si risolse di ucciderlo con le proprie mani. Doveva, però, distogliere i sospetti  dei Carravetta su di sé e andò a trovare Filippo a casa, stando attento che nessuno lo vedesse perché altrimenti avrebbe perso la faccia, e prostrandosi gli chiese perdono per quel brutto pensiero.

Così, il 25 luglio 1863, era sabato, i due si ritrovarono per caso a scendere a Cosenza insieme, ognuno per sbrigare le proprie faccende. Era l’alba ma l’aria era già calda, l’afa non dava tregua; lungo i vari viottoli che dai Casali del Manco portavano in città, molte persone erano già in strada.

Da Magli si poteva scegliere se passare per la Cava dei Valli o Cava Sottana, molto isolata, lungo la scarpata a nord del paese, che si incrociava con la strada che andava a Pedace e sbucava poco sopra i Campitelli, oppure percorrere un viottolo più ripido ma più breve che da poco più sotto la chiesa di S. Elia, scendeva direttamente fino a Catena e che tutti chiamavano l’Aria dei Morti.

Filippo, a cavallo del suo mulo e Domenico, vestito con pantaloni e giacca di fiandina neri, a piedi, si incamminarono giù per le colline. Lungo la strada parlarono del più e del meno e si fecero anche qualche risata sparlando di questo o di quella. A Cosenza si separarono dandosi appuntamento dopo qualche ora per tornare insieme in paese.

“Meno male” pensò Filippo, “si è messo l’anima in pace… non ce la facevo più a tenere gli occhi aperti giorno e notte!”.

“Ci vedremo più tardi, ohi puarcu fricatu, e faremo i conti una volta per tutte!” pensava invece Domenico, stringendo i denti per resistere all’impulso di ucciderlo lì, davanti a tutti, come era stato ucciso suo padre.

Filippo incontrò don Francesco Piraino, il parroco di Verticelli, e insieme presero una limonata nel Caffè Tropeano intavolando un’accesa discussione per un credito che avevano in comune. Poi la campana del Duomo batté le dieci e Filippo scese al ponte della Massa per incontrare Domenico.

Il viaggio di ritorno fu anche più allegro dell’andata. Incontrarono un sacco di gente che conoscevano e Filippo, per andare al passo di Domenico, scese dal mulo e camminò a piedi fino quasi a Catena poi, stanco, rimontò in sella.

Delle donne sedute a riposare li salutarono quando passarono loro davanti. Poco oltre, giunti all’imbocco della cava dei Valli, Domenico si allontanò dicendo a don Filippo:

– Don Filippo, col vostro permesso vado a mangiare qualche fico qui sopra, statevi bene

– Attento che i fichi sono caldi e potrebbero farti venire la cacarella! – lo sfotté, spronando il mulo.

Domenico si inoltrò negli alberi di fichi mangiandone qualcuno, e, non appena il rivale non poteva più vederlo, con quattro salti andò ad acquattarsi dietro un cespuglio di ginestra, si tolse il fucile dalle spalle, con movimenti rapidi versò la polvere nelle due canne, spinse dentro il feltro con la bacchetta, poi quattro pallettoni per canna e di nuovo i feltri a comprimere il tutto. Mentre comprimeva l’ultima canna uno schianto lo avvisò che la bacchetta con la testa di ottone, ‘u vattapalla come la chiamavano, si era spezzata. “maledizione!” pensò mentre metteva lo schioppo a canne in giù per fare uscire il legno spezzato. Uscì subito. Tirò tre o quattro respiri profondi per calmare l’ansia, quindi si mise in posizione di sparo.

Don Filippo arrivò qualche secondo dopo fischiettando allegramente, pregustando i maccheroni che la madre gli stava preparando quella mattina. Sentì un fruscio in alto alla sua destra e istintivamente girò lo sguardo in quella direzione. Fu un attimo. Gi sembrò di vedere luccicare qualcosa, poi un lampo nella luce di mezzogiorno e un colpo secco. Probabilmente non ebbe nemmeno il tempo di sentire il dolore delle due prime palle che gli si conficcavano in testa. Le altre due palle lo colpirono mentre stava cadendo dal mulo, ma ormai non sentiva più niente.

– Ti ho fatto, ohi puarcu fricatu! E pure la razza tua ho sistemato… andateli a comprare al mercato i figli… Oggi i Carravetta sono morti con te! – disse rivolgendosi al morto e sputandogli tra i piedi – ‘u tata miu non si gira più nella fossa – riferendosi al padre. Si fece il segno della croce e si dileguò tra gli orti scoscesi.

Rosaria Rogato era in casa a cucinare dei maccheroni per il figlio e, accortasi che era passato mezzogiorno, cominciava a chiedersi come mai Filippo non fosse ancora tornato da Cosenza.  Contemporaneamente a questi pensieri udì due colpi di arma da fuoco, uno immediatamente dopo l’altro, che le sembrarono provenire dallo stesso fucile. Si affacciò alla finestra che dava sulla sottostante strada verso tramontana e vide un uomo che correva nella direzione opposta alla sua casa con in mano uno schioppo a due colpi. Indossava un calzone lungo nero e una giacca dello stesso colore. Alla statura, alle movenze ed anche agli abiti, le sembrò che quell’uomo fosse Domenico Ferro. Il sangue le si gelò nelle vene al pensiero che suo figlio quel giorno era in compagnia di quell’uomo e che sarebbe dovuto passare proprio da quella strada a quell’ora. Presagendo una sciagura si precipitò in strada chiamando a gran voce il figlio.

Quei due o trecento metri che la separavano dal luogo dove aveva visto l’uomo scappare le sembrarono interminabili e li percorse correndo col cuore in gola. E il cuore le si fermò quando vide la mula incustodita e, poco oltre, proprio dove c’era la scaletta di legno per accedere alla vigna di Gaspare Longo, il figlio disteso per terra che sembrava nuotare nel suo stesso sangue.

Urlò, si strappò i capelli, pianse tutte le lacrime che aveva per aver perduto l’unico frutto del suo seno e maledisse Domenico Ferro, accusandolo davanti a tutto il vicinato, accorso alle sue prime grida, di averle ucciso il figlio.

Ma nel pianto e nella disperazione il suo sguardo fu attirato dal luccichio di un oggetto ai piedi di un cespuglio di ginestra e si lanciò a raccattarlo. Era un pezzo di bacchetta di schioppo con attaccato un batti palla di ottone.

Con l’aiuto dei vicini portò il cadavere in casa e buttò chissà dove quel pezzetto di legno. Le visite cominciarono ad arrivare e lei doveva piangere il figlio.

 

Domenico girò intorno al paese e scese fino al Cardone come se niente fosse accaduto, sicuro che lì sotto la notizia dell’omicidio non poteva ancora essere arrivata. Andò al mulino di don Raffaele Vence di Scalzati e ordinò al mugnaio Antonio Mazzei di deviare un rivolo d’acqua per irrigare un fondo di sua proprietà. Quando se ne andò, salutò anche le lavandaie del suo paese che sciacquavano i panni.

Decise di andare a Pietrafitta dove c’era un armiere per farsi accomodare lo schioppo e poi, giacché era lì, sarebbe andato a rifugiarsi nella torre colonica della contrada Canale dove abitava sua sorella. Seguì per un tratto il corso del Cardone e poi, sotto Perito, attraversò il ponticello di legno e si inerpicò lungo i fianchi scoscesi della collina.

La porta della bottega di armiere di Gaspare Bianchi era aperta e lui non si accorse che qualcuno era entrato e stava osservando i suoi movimenti, rapidi ma precisi, atti a riparare il cane di una scoppietta.

– Salute, Gaspare! – l’esplosione improvvisa di quel vocione lo colse di sorpresa facendolo sobbalzare.

– Chi cazzo è? – fece l’armiere portandosi una mano al cuore, poi vedendo di chi si trattava continuò – Tu sei? Mi hai fatto venire un colpo!

– Eeeeeeeeeeeecome la fai lunga! – lo rimproverò scherzosamente Domenico, calmo e allegro come non lo era da tempo.

– Si… si… come dici tu… che vuoi? – gli chiese l’armiere.

– Guarda – fece Domenico mostrandogli la bacchetta rotta del suo schioppo – s’è spezzato ‘u vattapalla

– Forse sei fortunato… giusto stamattina ho fatto due bacchette… ma che legno è questo? – chiese osservando il legno rossastro della bacchetta rotta – non lo avevo mai visto prima…

– Che ne so io? Muoviti perché non posso aspettare – rispose Domenico, che cominciava a diventare impaziente.

– Hai ammazzato qualcuno che hai tutta questa fretta? – scherzò l’armiere all’oscuro di ciò che era accaduto qualche ora prima.

– Hai proprio indovinato… ho ammazzato qualcuno… – fece Domenico con tono grave, gelando il sangue nelle vene dell’armiere, quasi impaurito da quella affermazione.

– Ci devo adattare una testa di ottone… non te la posso dare subito, vieni stasera sul tardi…

– Che sia stasera, mi raccomando – gli disse e se ne andò senza salutare.

Uscito dalla bottega dell’armiere, prese deciso la strada per Canale e, ad Acqua di Melo, si imbatté nel pastore Ferdinando Aquino che aveva portato lì il suo gregge di pecore. Subito gli balenò in mente un’idea che  lo avrebbe messo al riparo da una eventuale denuncia dell’armiere:

– Salutiamo! – fece Domenico all’indirizzo del pastore.

– Salutiamo! – gli fece eco quello – che ci fai qui? Sei venuto a trovare tua sorella?

– Si, ma m’è successo un guaio. Mi è caduto lo schioppo e si è rotto ‘u vattapalle. Sono stato da mastro Gaspare e mi ha detto che ci vorrà stasera per la bacchetta nuova… me lo fai un piacere? Ci puoi andare tu a ritirarla perché io ho da fare? Qui ci sono i soldi, venticinque grana per la bacchetta e cinque per te. Eccoti il fucile… ci vediamo qui a notte fatta…

– Va bene, a te non posso dire di no – rispose il pastore sorridendo.

In realtà Ferdinando Aquino aveva acconsentito a sbrigare quella faccenda perché in passato aveva fatto arrestare il brigante Giovanni Leonetti e temendo che Domenico Ferro potesse essere in contatto con i briganti che volevano vendicarsi di lui per lo sgarro subito, non voleva aggiungere problemi ai problemi.

Verso il tramonto, sistemate le pecore, scese al paese e sbrigò l’affare e subito ritornò ad Acqua di Melo dove già Domenico lo aspettava, gli restituì l’arma con la bacchetta nuova e se ne andò a dormire tra le sue pecore.

L’armiere, che aveva già appreso la notizia dell’omicidio, pensò bene di non buttare via la bacchetta rotta pensando: “Non si sa mai… non si sa mai…”.

La sorella di Domenico, quando lui le raccontò cosa aveva combinato, cominciò a urlare e inveire contro il fratello che portava quella sciagura nella sua casa. Doveva proprio farla quella scelleratezza? Non lo sapeva che lei era sposata con un Carravetta, un parente di don Filippo e che voleva la pace?

– L’ho dovuto fare – rispose Domenico con un lampo sinistro negli occhi – Vedevo sempre l’anima di nostro padre davanti a me che mi diceva va… va… ammazzalo…

– Tu sei pazzo! – lo apostrofò la sorella che, nel frattempo, doveva anche dedicarsi a calmare il marito.

 

Il lunedì successivo all’omicidio, Innocenza Vitelli, cugina della buonanima di don Filippo, scese a Cardone per lavare un po’ di lana. Canticchiava quando si accorse della presenza di un uomo alle sue spalle. Piena di paura si girò e riconobbe Domenico Ferro, armato del suo schioppo a due canne che le disse, facendole segno di non interromperlo:

– Lo sai che sono stato io, mi arrestassero e lo pagherò! – esordì con un ghigno – E ti raccomando di dire a tuo fratello Giuseppe che mi aggiusti questo guaio, altrimenti è meglio che se ne va da Magli e pure da Cosenza perché non sarà più padrone della sua roba. Digli anche che io ormai sono come un fantasma e ad uno ad uno…  – e si passò l’indice sulla gola per avvertire Innocenza della sorte che avrebbe riservato loro.

– Si… si… faccio come dici tu,,, dico a mio fratello quello che vuoi tu, ma lasciami stare per l’anima dei morti!

– State attenti a quello che fate ché io non sono un fesso, diglielo a tutti che parlassero bene di me perché conosco gente che mi dice quello che i testimoni raccontano alla legge. E sono un fantasma pure per loro…– le fece l’occhiolino e scomparve nella boscaglia.

Domenico andò ad appostare anche il parroco di Scalzati Costantino Tancredi con il quale era in buoni rapporti per raccontargli ciò che stava facendo per trarsi d’impiccio e per mandare, velatamente, un messaggio alla famiglia del morto. Verso l’imbrunire, quando don Costantino tornava a casa dopo aver fatto una passeggiata, i due si incontrarono:

– Buonasera a vossignoria – lo salutò portandosi due dita alla fronte. “Uhm… e ora che vuole questo qui?” pensò il parroco, infastidito da quell’incontro.

– Buonasera a te – rispose finalmente – cosa fai qui a quest’ora di notte? – continuò cercando di proseguire il suo cammino per avvicinarsi all’abitato.

– Non lo sapete? Dicono che ho ammazzato don Filippo, ma io non c’entro niente! – gli rispose Domenico con tono aspro e un sorriso beffardo, mettendosi le mani sui fianchi.

– Se sei innocente perché non ti presenti alla Giustizia degli uomini? Quella divina già lo sa cosa sei… – lo punzecchiò il prete.

– Oh! Si… si… ci sto pensando ma intanto ho mandato a dire ai Carravetta che aggiustassero la situazione, altrimenti, perso per perso, li ammazzo tutti! – sembrava un fiume in piena mentre sta per travolgere tutto quello che incontra lungo il suo corso e continuò – Lo sapete cosa mi hanno risposto?

– No, cosa?

– Che per amore della pace aggiusteranno tutto! Si stanno cacando addosso per la paura! – terminò esplodendo in una risata sguaiata.

Don Costantino, che non vedeva l’ora di uscire da quella situazione, sapendolo un uomo disperato e capace di tutto, farfugliò mentre si incamminava velocemente:

– Bene, bene… ora vattene, qualcuno potrebbe vederti e non si aggiusterebbe niente… mi capisci

– Buonanotte a vossignoria – lo salutò Domenico proseguendo per la sua strada, verso il convento dei padri Riformati, mentre continuava a ridere sguaiatamente.

Ormai era un uomo solo e braccato che viveva nascosto nella boscaglia. Tentò di entrare nella banda di Pietro Monaco e Ciccilla ma il capo banda in persona lo mandò via ritenendolo un potenziale traditore perché parlava troppo.

Così Domenico divenne uno scorridore di campagna e cominciò a mettere a segno delle piccole estorsioni ai danni dei suoi compaesani, non fidandosi di allargare il raggio d’azione per paura delle ritorsioni dei briganti, quelli veri.

Nonostante gli sforzi impiegati per arrestarlo, restava sempre uccel di bosco e fu rinviato a giudizio in contumacia. E col passare del tempo si cominciò anche a sospettare che fosse stato ammazzato e si sospettò che Bernardo Carravetta avesse incaricato qualcuno di eseguire la sentenza privata di morte, tanto che il vecchio fu arrestato e processato. Ma senza un cadavere i sospetti restarono tali e il vecchio Bernardo fu assolto.

Trascorsero molti mesi e poi, verso la fine di maggio del 1864, un uomo di passaggio rinvenne vicino alla chiesetta di Canale il cadavere di un uomo che qualcuno sostenne essere quello di Domenico Ferro. Lo presero, lo portarono nella chiesa parrocchiale di Pedace e furono chiamati alcuni abitanti di Magli e Scalzati per procedere al riconoscimento. Si, era proprio lui. Poi lo seppellirono senza che nessuno si fosse preoccupato di iscriverne la morte nei registri comunali, né in quelli della parrocchia.

Siccome tra gli intervenuti per il riconoscimento del cadavere qualcuno disse che c’era anche Bernardo Carravetta, si sospettò che fosse il mandante dell’omicidio perché, interrogato, disse che era stato eccitato da Ferro a non uscir di casa per non essere dallo stesso massacrato. Ma sia la vedova di Domenico Ferro che i suoi parenti esclusero di avere sospetti nei confronti del vecchio Carravetta, ma di averne nei confronti di Michele Porco di Rovito perché, così avevano saputo, negli ultimi tempi scorreva le campagne insieme al morto. Poi si accertò che Bernardo Carravetta non era presente al riconoscimento, ma era presente suo cognato Angelo Salatino di Scalzati. La deduzione degli inquirenti fu che Bernardo Carravetta diede mandato a suo cognato Angelo Salatino per incaricare Michele Porco di uccidere Domenico Ferro.

Il risultato fu che tutti e tre finirono sotto processo. Ma il 31 agosto 1864 le accuse contro il vecchio Carravetta caddero perché secondo i giudici tutto resta nella sfera dei puri sospetti, non sorretti d’alcuna pruova né diretta né indiziaria per la realtà del mandato. E se non si trovò la prova del mandato, anche Angelo Salatino dovette essere scagionato. Restava Michele Porco il quale avrebbe benissimo potuto uccidere Ferro per proprio conto, ma a suo carico nessuna pruova pure si è raccolta, neppure si è potuto assodare che precedentemente all’omicidio esso Porco scorrea armata mano la campagna in unione del Ferro, né tampoco si sono provate relazioni tra esso Porco, Carravetta e Salatino.[1]

Questioni tra briganti, forse…

[1] ASCS, Processi Penali.

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