LO SCIANCATO

Antonio Chiodo aveva appena finito di accudire il gregge di pecore che aveva in comune con Basilio Scarpino quando questi rientrò, dopo la mietitura, nell’ovile di montagna dove avevano portato le pecore per l’estate. Mancava una mezzoretta al tramonto e l’anziano Scarpino si buttò a terra nel fresco del pagliaio per riposarsi e bere un po’ d’acqua fresca; prese l’orciolo ma lo trovò vuoto e cominciò a sbraitare contro il figlio, il trentasettenne Domenico, perché non era ancora andato a prendere l’acqua da bere:

– Sei un vagabondo, un buono a nulla, che campi a fare sciancato di merda? – in genere usava termini molto più violenti per rimproverare il figlio e spesso gli improperi erano seguiti dalle percosse.

Domenico, che era un po’ – per usare la solita brutta espressione – ritardato di mente e per di più camminava a fatica a causa di una malformazione alla colonna vertebrale – per questo motivo era stato anche riformato alla visita di leva – rimase anche quella volta in silenzio e continuò a mungere le pecore, ma se suo padre lo avesse guardato bene, si sarebbe accorto che aveva cominciato a digrignare i denti per reprimere la rabbia, perché lui le cose le capiva, capiva ciò che era bene e ciò che era male, solo che ci metteva un po’ più di tempo rispetto al normale. Ma quella volta decise di far sbraitare suo padre più del solito e non si mosse per eseguire l’ordine di andare a prendere l’acqua. Anzi, terminata la mungitura fece anche la cagliata e solo dopo, con tutta calma, andò alla fontana a riempire gli orcioli accompagnato da Antonio Chiodo.

– Stavolta è incazzato davvero, non potevi lasciare tutto e andare a prendere l’acqua?

– E sempre sciancato di qua, vagabondo di là, Totò, me signu cacatu ‘u cazzu! – sbottò Domenico.

– Hai ragione, ma è un vecchio… perdonalo.

– E lui mi ha perdonato per essere nato storpio? È tata miu, ‘u sacciu, ma m’ha cacatu ‘u cazzu!

L’acqua era davvero bella fresca e Basilio poté finalmente dissetarsi; poi, toltisi gli scarponi, si sedette fuori dal pagliaio a godersi il venticello fresco che nel frattempo si era alzato e si mise a  disegnare distrattamente con un bastoncino dei cerchi nella polvere.

Domenico entrò  nel pagliaio senza parlare, si sedette sopra un basto e cominciò a giocherellare come un bambino con una coppa di legno. Antonio Chiodo, invece, si era messo a preparare il formaggio seduto accanto al fuoco.

Sembrava tutto tornato tranquillo quando il vecchio diede un’occhiata a Domenico, cancellò stizzosamente i disegni fatti sulla terra e sbottò all’indirizzo del figlio, sputando per terra:

Mangi il pane e non lavori, sei un vagabondo buono a nulla e ti vuoi anche sposare! Ma chi cazzo lo vuole uno sciancato come te?

– Questi sono affari che non ti riguardano, sono grande io! Che ci posso fare se il Signore mi ha fatto così? – gli urlò in faccia Domenico.

– Ma guarda! Hai pure il coraggio di parlare! Ma chi ti vuole che quando cammini sembri ciampare l’ova! Ma non te ne accorgi che la zoccola che vorresti sposare non ti guarda nemmeno perché guarda gli uomini sani? – replicò il padre tirandogli contro un bicchiere di legno che colpì Domenico in piena fronte facendolo cadere a terra tramortito e col sangue che gli cominciava a colare sul viso. Non ancora soddisfatto gli tirò addosso anche gli scarponi, lanciandogli anche l’offesa che faceva più male a Domenico:

Vafanculu tu e mammata!

La mamma proprio no!

In un attimo i due si trovarono a lottare ferocemente per terra. Il padre sopra e il figlio sotto a difendersi. Domenico, consapevole della propria forza, mentre si riparava dai colpi, pensava “È tata miu… non gli voglio fare male…”.

Invece Basilio, con gli occhi iniettati di sangue da sembrare lui un pazzo scatenato, saltava con le ginocchia sul petto del figlio per togliergli il respiro e contemporaneamente lo tempestava di colpi sulla testa con uno scarpone. Finalmente intervenne Antonio Chiodo a separarli, ormai stanco di quell’andazzo quotidiano.

Ma non appena Domenico fu liberato dalla morsa del padre, pulitisi alla meglio gli occhi impastati di sangue e e terra, cominciò a sbuffare come un toro serrando i pugni per trattenersi. Qualche interminabile secondo, poi urlò, cavando di tasca un coltello a serramanico:

Mò m’ha cacatu ‘u cazzu! – suo padre lo guardava con un ghigno di scherno; il balzo improvviso di Domenico lo colse di sorpresa e se lo ritrovò addosso senza potere evitare le coltellate che gli tirava all’impazzata, dando sfogo al rancore represso per anni e anni.

Quando il coltello gli recise la carotide, Basilio, con gli occhi stupefatti, ebbe solo il tempo di portarsi la mano sulla ferita per cercare di fermare il sangue che zampillava tutto intorno e di fare i pochi passi che lo separavano dall’uscio del pagliaio, che stramazzò al suolo. Con gli occhi cercò lo sguardo di Domenico che, fermo davanti a lui con il coltello in mano che colava sangue, gli occhi di fuori, sbuffava ancora come un toro che ha appena caricato.

Il vecchio, con la voce che sembrava un gorgoglio per il sangue che gli usciva dalla bocca, con una mano protesa verso Domenico, disse:

Figliomuoio… – ed esalò l’ultimo respiro.

Antonio Chiodo si era appiattito contro le assi del pagliaio, terrorizzato da quella furia cieca e stava immobile e in silenzio, quasi senza respirare, per non attirare l’attenzione di Domenico, temendo che potesse prendersela anche con lui. Poi lo vide entrare con quella sua andatura goffa e sparire nel pagliaio. Ecco, era proprio quello che ci voleva. Con un balzo felino fu davanti alla porta. Guardò dentro e vide Domenico che respirava a pieni polmoni, ma notò soprattutto il contrasto tra la sua espressione finalmente soddisfatta e la maschera di sangue e terra mischiati, stampata sul suo viso. Chiuse alla meglio il pagliaio e corse via in cerca di aiuto.

Ma le case più vicine erano a circa mezz’ora di cammino e quando lui e qualche altro temerario arrivarono al pagliaio, trovarono solo il morto. Di Domenico nessuna traccia.

Infatti, dopo circa un quarto d’ora che era chiuso nel pagliaio, non sentendo più alcuna voce intorno a lui, riuscì ad infilare un braccio in un interstizio della porta e a sollevare il paletto che la teneva chiusa. Era calmo, adesso, e si avvicinò al padre steso accanto all’uscio che non dava più segni di vita, lo guardò incredulo come se non sapesse o non ricordasse ciò che era accaduto e quindi, frastornato, si allontanò nella notte col suo passo incerto.

Sul far del giorno seguente, il Pretore di Scigliano, avvisato nella notte dell’accaduto, partì con i Carabinieri per raggiungere il luogo del delitto, quando per strada si fece loro incontro Domenico, docile come un agnellino. La vasta ferita sulla fronte, sulla quale le mosche banchettavano, ancora sanguinava.

Qualche domanda, ma nessuna risposta. Poi l’invito a porgere i polsi per essere ammanettato, cosa che Domenico fece docilmente. Strada facendo, come se parlasse da solo sembrò cominciare ricordare vagamente qualcosa, ma senza capire il perché di quanto era successo.

Il Pretore ed il Maresciallo dei Carabinieri, che ancora non si fidavano temendo uno scoppio d’ira improvviso, lo osservavano attentamente per capirne le intenzioni ma bastarono le poche parole chiare che Domenico riuscì a pronunciare prima di chiudersi in uno stato di totale indifferenza a tutto ciò che lo circondava, per far apparire chiaro che le sue condizioni mentali erano molto più precarie, ma molto più diverse, di quanto sospettassero. Era come un bambino privato di tutto e desideroso di affetto, così si presero cura di lui.

Dall’autorità giudiziaria giunse, qualche giorno dopo, la disposizione perentoria di ricovero coatto nel manicomio giudiziario di Aversa.

Davanti ai medici che lo visitarono rimase incerto e incapace di comprendere le ragioni di quella visita, restando impassibile e inespressivo.

Un anno dopo, i dottori Mirabella e Cantelli lo dichiararono in uno stato di infermità di mente, nel momento in cui commise il delitto, tale da togliergli completamente la coscienza e la libertà dei propri atti.

E dal momento che lo Scarpino è epilettico e quindi pericoloso per se e per gli altri, per tanto ha bisogno di essere curato e custodito in un manicomio.[1]

Pericoloso per sé e per gli altri.

[1] ASCS, Processi Penali.

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