IL SUOCERO

È la mattina del 13 ottobre 1948, una donna sta raccogliendo erbe selvatiche in contrada Mandria Vecchia del comune di Panettieri. Quando sposta un cespuglio, la sorpresa le fa piegare le ginocchia. Lascia cadere il paniere terrorizzata e le sue grida riecheggiano sinistramente nel bosco. A circa 30 metri dalla mulattiera che dalla Sila conduce a Panettieri c’è il cadavere di un uomo con la testa fracassata. La donna, con le mani tra i capelli, corre in paese per avvisare le autorità.

Il cadavere è quello di Domenico Chiodo e presenta due ferite lacero-contuse: una alla regione parieto temporale di sinistra ed altra più piccola alla regione occipitale di sinistra.

Frattura della teca cranica con conseguente lesione dell’arteria meningea media e delle meningi, in uno con lo schok traumatico – dice il medico già al primo esame del corpo, circondato da molti curiosi e dai familiari del morto. Il Maresciallo dei Carabinieri nota tra i presenti una donna che sembra ostentare commozione, fingendo di piangere. Gli dicono essere una nuora della vittima, Carolina Torchia, e subito nella sua mente comincia a suonare un campanello d’allarme. Che sia questa la pista buona da cui far partire le indagini?

Dalle prime informazioni parrebbe di si, infatti risulta che la sera precedente alcuni pastori avendo inteso dei lamenti, rinvennero Domenico Chiodo ferito e boccheggiante. Alla loro domanda rispose che a ferirlo era stata “’a Tumma”, nomignolo col quale è conosciuta Carolina Torchia.

Tombola! L’intuizione del Maresciallo ha trovato conferma.

Carolina finisce in camera di sicurezza e, dopo vari tentativi andati a vuoto, finisce per raccontare:

Ero con mia figlia… mio suocero mi aveva atteso in contrada Mandria Vecchia e mi ha insultata colle parole “Gran puttana, finalmente è giunto il momento che io mi possa vendicare!” e mi colpì col dorso della scure qui – dice indicando il costato dietro la zona ascellare sinistra – al che io, riuscii a disarmarlo e col dorso della sua stessa scure gli assestai due colpi… anzi uno solo alla testa… mi sono dovuta difendere… non volevo ammazzarlo…

– Uno o due? Il medico ne ha riscontrati due, quindi lo avete colpito due volte!

– No, una volta sola, l’altra più piccola fu causata dalla caduta a terra di mio suocero.

Un problema è risolto, ma le parole che Carolina ha attribuito a suo suocero – finalmente è giunto il momento che io mi possa vendicare – aprono nuovi scenari che potrebbero influenzare tutto il processo: perché Domenico Chiodo doveva vendicarsi? Cosa era accaduto tra i due?

Le indagini a questo riguardo sono abbastanza complesse, ma sia attraverso prove documentali che testimoniali, gli inquirenti riescono a ricostruire tutta la storia: tra Domenico Chiodo, il figlio Serafino e la nuora Carolina Torchia dal giugno 1948 esistevano gravi dissapori per contrasti d’interessi ed assenza di quell’affetto e comprensione che avrebbero dovuto esistere tra stretti congiunti. Infatti Domenico Chiodo con atti pubblici del Notar Mastroianni, in data 5-5-1948, aveva venduto alla nuora una casetta e due appezzamenti di terreno con la riserva dell’usufrutto per sé e per la moglie. Gli appezzamenti di terreno erano condotti a colonia dal figlio Serafino e dalla nuora ed i primi contrasti furono originati dal fatto che Domenico pretendeva tutti i frutti del terreno, mentre il figlio e la nuora volevano dargliene la metà perché l’altra metà loro spettava come coloni. Il 20 luglio 1948 Domenico Chiodo convenne la nuora in giudizio davanti al Pretore di Scigliano chiedendo la remissione della vendita; in seguito a dichiarazione d’incompetenza del giudice adito, il 3 settembre 1948 la causa venne trasferita al Tribunale di Cosenza.

Non solo. Forse per ritorsione e mentre la causa era in corso, il 27 agosto 1948 Serafino aveva denunciato suo padre per i reati di minaccia grave e porto abusivo di fucile. E da questo momento la lite diventò una vera e propria guerra di carte bollate, infatti Domenico, a sua volta, il 13 settembre fece notificare a Serafino una diffida perché uno dei due fondi di cui il giovane era mezzadro non era ben coltivato in quanto non era stata fatta la rincalzatura del granone e dei fagioli.

Poi, nei primi giorni di ottobre Domenico, ossessionato dall’idea di trovare ogni minimo appiglio per danneggiare il figlio e la nuora, si mise a calcolare la quantità di granone che avrebbe dovuto fruttare il fondo e notò che ne era scomparsa una certa quantità. Ovviamente sospettò che autori della sottrazione fossero stati il figlio e la nuora e per sincerarsi di ciò, il 12 ottobre 1948, Domenico, dopo avere assistito alla raccolta del granone andò via un po’ prima, sostando nei pressi ove fu trovato ucciso, al fine di accertare se sua nuora asportasse del granone a sua insaputa. Ed effettivamente Carolina col suo asino trasportava tre sacchetti di granone.

Ecco, ci siamo: la convinzione degli inquirenti è che da quest’ultimo fatto deve per forza essere scaturita la scintilla che ha portato all’uccisione di Domenico Chiodo, così il 19 novembre 1949 Carolina Torchia viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio aggravato dalla relazione di affinità tra l’uccisore e la vittima.

Ma, iniziato il dibattimento, le cose non appaiono così lineari come si è creduto finora.

Osserva la Corte che permane grave dubbio sulla volontà omicida da parte di Carolina Torchia, sia perché venne adoperata la scure non dalla lama ma dal dorso, sia perché l’imputata, appena atterrato l’avversario, si allontanò senza accertarsi se costui fosse morto, tanto che Domenico Chiodo, sopravvissuto alcune ore, poté indicare ai pastori il nome della sua feritrice; date le modalità del fatto e per il santo principio della presunzione del minor male, deve ritenersi che l’imputata non abbia avuto volontà omicida, ma solo quella di ledere e quindi deve rispondere di omicidio preterintenzionale.

I difensori, aperta la falla nell’impianto accusatorio, si spingono oltre e insistono perché sia dichiarato lo stato di legittima difesa che significa una sola cosa: assoluzione.

Secondo la Corte, però, non si trattò di legittima difesa perché fra lei ed il suocero ci fu un “tira-tira”; il suocero scivolò e cadde per terra e la scure dello stesso rimase nelle mani di Carolina Torchia, che lo colpì alla testa. Domenico Chiodo, 76 anni, principalmente mirava ad accertare la sottrazione del granone e non ad aggredire la nuora. Comunque, la reazione della stessa non è stata difensiva, ma pienamente offensiva poiché determinata dallo stato d’ira in lei suscitato dalle parole offensive rivoltele dal suocero, nonché dal calcio e dal colpetto col dorso della scure.

È un altro passo avanti in favore dell’imputata. Carolina Torchia, per la Corte, è meritevole dell’attenuante della provocazione che, date le modalità del fatto, va dichiarata equivalente alla circostanza aggravante del vincolo di affinità esistente fra la vittima e l’imputata.

È il momento della quantificazione della pena.

Quanto alla pena, stimasi equo, vagliate tutte le circostanze del fatto e la figura dell’imputata, fissarla in anni dieci di reclusione.

È il 16 dicembre 1950.

Il 22 dicembre 1951 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso dell’imputata.

Il 15 luglio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonata la pena di anni 1, mesi 9 e giorni 20, come disposto dal D.P. 19/12/1953, N. 922.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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