O LO PAGHI TU O LO PAGO IO

– Cinque!

– Sette!

– Quattro!

– Tre!

Nella cantina del signor Federico Rebecchi a Cervicati alcuni avventori stanno giocando alla morra. È il 19 marzo 1898. I più accaniti sono i fratelli Salvatore e Saverio Riggio, Angelo Posterivo ed Emanuele Porco. Tra un grido e l’altro il vino scende abbondante nelle gole per schiarire la voce, ma più si schiarisce la voce, più si annebbia il cervello. Infatti, quando Saverio Riggio urta inavvertitamente il braccio di Emanuele Porco e gli fa cadere di mano il bicchiere pieno di vino, cominciano i problemi.

Chi cazzu fa, merda! – gli urla.

– Non l’ho fatto apposta, deficiente! – si giustifica Saverio.

– Deficiente lo dici alla puttana ‘i mammata!

Inevitabile, scoppia subito la rissa. Emanuele tira fuori un coltellino a serramanico e fa per scagliarsi addosso ai fratelli Riggio ma questi, evitando i fendenti, lo bloccano, lo disarmano e lo buttano a terra avventandoglisi contro, armati anche loro di coltello. I tre se le danno di santa ragione e più che darsi coltellate si mordono come bestie feroci. Rantoli, sbuffi e urla di dolore si sovrappongono. A Emanuele staccano mezzo orecchio, Saverio viene azzannato alla bocca e mezzo labbro gli pende; non solo: quando per il dolore si porta una mano alla bocca, Emanuele gliel’azzanna e per poco non gli stacca un dito. Il sangue comincia a imbrattare il locale e la rissa non promette nulla di buono.

Angelo Posterivo, che fino a questo momento è stato semplice spettatore, vedendo che i suoi amici Riggio non riescono ad avere la meglio sull’avversario, estrae un coltello e, mentre Emanuele Porco è impegnato a tirare morsi come un animale feroce, gli mena una coltellata alle spalle che gli fa mancare il respiro.

I fratelli Riggio si rialzano e Saverio, prima appioppa un calcione in mezzo alle gambe dell’avversario, poi raccoglie da terra il suo coltello e gli sfregia la fronte. I tre rimangono a guardare Emanuele per qualche secondo mentre si contorce per il dolore, poi vanno a nascondersi per non farsi trovare dai Carabinieri.

Ma dura poco, anzi, pochissimo. I tre vengono presi e chiusi nel carcere di S. Marco Argentano. Ovviamente viene arrestato e piantonato nel letto di casa sua anche Emanuele Porco, che per fortuna se la cava. Ci sarebbe da aspettarsi che il carcere preventivo prima e la condanna subita da Emanuele Porco, Saverio Riggio e  Angelo Posterivo poi, sia servita da lezione a tutti, ma è una speranza vana.

Infatti, non appena uscito dal carcere, Emanuele pensa bene di volersi vendicare e aspetta nascosto, armato di un revolver, Saverio Riggio. Ma sbaglia persona e colpisce l’incolpevole Vincenzo De Parsio. Rientra in carcere per scontare i tre anni di reclusione a cui viene condannato, ma esce quasi subito perché gode dell’amnistia concessa per l’ascesa al trono del nuovo re Vittorio Emanuele III°. Nonostante tutto sembra che Vincenzo De Parsio non nutra alcun rancore nei confronti del suo feritore: i due si salutano, bevono insieme un bicchiere ogni tanto e addirittura si scambiano anche qualche favore. Addirittura Emanuele presta 60 centesimi a Vincenzo.

Ma la brace cova sotto la cenere. E se Vincenzo sente di essere nel diritto di vendicarsi, prima o poi, Emanuele lo ritiene colpevole di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, impedendogli la vendetta contro Saverio il quale, paradossalmente, non viene più percepito come suo nemico.

Nonostante le apparenze, se fossero sicuri di non pagare dazio, i due si sbranerebbero come bestie.

La pace precaria si incrina quando ad un certo punto Emanuele comincia a parlare in giro dei soldi che avanza da Vincenzo e questi, al contrario, risponde di non avere debiti con chicchessia. Frecciatine scagliate a mezzo di terze persone, un bicchiere rifiutato, qualche sguardo fuori posto. La bomba sta per scoppiare.

Il 3 giugno 1900 c’è molta umidità. Anche se sono solo le 9 di mattina fa molto caldo e De Parsio, per asciugare il sudore, va nella cantina di Vincenzo Greco a bere un bicchiere di vino. Lì ci trova già Emanuele, che di sudore deve averne asciugato parecchio visto che la bottiglia sul tavolo dove è seduto è quasi vuota.

– Ah! Il nostro Vincenzino bello! – esclama appena lo vede, alzando il bicchiere – ti ricordo quel nostro affaruccio… – continua sfregando l’indice e il pollice della mano destra.

Quella richiesta diretta, fatta davanti agli avventori della cantina, è molto pericolosa. Emanuele è ubriaco e potrebbe reagire male di fronte a un rifiuto, ma pagare significherebbe ammettere pubblicamente il debito. Vincenzo ci pensa su per qualche secondo, poi, per evitare guai, toglie dal taschino una lira e, senza dire niente, la lancia verso Emanuele che la raccoglie. Dal suo taschino caccia, non si capisce perché, 70 centesimi e li lancia a sua volta verso Vincenzo, e questi lanci di monetine, ai più, sembra proprio un duello al coltello con affondi da una parte e dall’altra. Ma tutto finisce lì. Vincenzo non vuole guai e non apre bocca; alla fine prende i settanta centesimi, paga il bicchiere di vino che ha bevuto d’un fiato e se ne va.

Il resto della giornata scorre tranquilla come la maggior parte delle giornate di Cervicati. Vincenzo De Parsio va in campagna a zappare ed Emanuele Porco smaltisce la sbornia sotto un albero.

Al ritorno dalla campagna, verso l’imbrunire, Vincenzo è stanco e sente il bisogno di scolarsi un mezzo litro per tirarsi un po’ su. Passa davanti alla cantina di Luigi Gramano, entra, ordina e si siede tranquillo a un tavolino nell’angolo più nascosto per stare da solo a pensare ai fatti suoi.

Poco dopo entra nella cantina anche Emanuele Porco, ancora visibilmente alticcio, che aveva notato il rivale entrare. Si dirige verso di lui e gli dice:

– Vincenzì, ci dobbiamo bere un litro io e te, o lo paghi tu o lo pago io!

Lassami jire, vavatinni e fatti i cazzi tui, sei ubriaco e non voglio avere a che fare con te – gli risponde alzandosi e uscendo dalla cantina, mentre pensa che non è quello il momento giusto per fare questioni.

In mezzo alla strada cava di tasca un mozzicone di sigaro, lo accende, si sistema la giacchetta su una spalla sola e si incammina verso casa. Emanuele Porco si sente offeso e lo segue, a pochi passi di distanza, lungo la strada Magazzino, e, proprio davanti alla cantina di Domenico Coppolillo, lo chiama:

– Vincenzì, o lo paghi tu o lo pago io – continua con la sua litania.

Lassami fricare t’haju dittu – lo zittisce Vincenzo.

Non lo avesse mai detto! Emanuele con due salti gli è davanti, lo afferra per il petto e gli molla un sonoro ceffone, facendo il gesto di dargliene ancora. Vincenzo gli afferra le mani e gli urla:

Ma chi cazzu fa? Come ti permetti? Io non ti ho fatto niente… vavatinni ca sì ‘mbriacu – termina lasciando l’avversario e allontanandosi.

– Mi hai offeso, un finiscia ccà – lo minaccia agitandogli contro un pugno.

Ormai è fatta. La scintilla è scoccata e ogni momento sarà quello buono per fare scoppiare la bomba.

Vincenzo si allontana. Si è mantenuto calmo ma la rabbia cresce a ogni passo che fa e ne sente il caldo che gli sale alla testa. Sa che quello schiaffo preso sarà causa di sfottò in paese; immagina già i risolini di scherno che lo accompagneranno ogni giorno della sua vita e decide che deve accelerare i tempi e vendicarsi subito per mettere tutti a tacere. Appoggiato al muro della casa di suo suocero scorge un pezzo di legno abbastanza lungo per usarlo come un bastone, lo afferra e torna verso la cantina di Coppolillo, dove è sicuro che il rivale si è fermato. Un attimo prima di imboccare la stradina che dà sulla cantina si ferma ad ascoltare la predica che il cantiniere sta facendo a Emanuele e capisce che questi, al di là della sbronza, ha preso proprio male il suo rifiuto all’offerta di bere insieme e questo lo convince ancora di più che deve troncare subito la questione, altrimenti gliene verrà del male. “Unn’è ca l’haju e ammazzare…”, non lo devo ammazzare, pensa. Una bastonata basterà a calmare il rivale e a non fargli perdere la faccia. Decide che è meglio aspettarlo dietro la cantonata e pararglisi davanti senza dargli il tempo di prepararsi alla zuffa.

L’haju minatu pecchì un me vò dare i sessanta centesimi c’avanzu e se lo incontro di nuovo, gli farò la stessa cosa che gli ho fatto l’anno scorso! – dice, intanto, Emanuele al cantiniere, alludendo ai colpi che aveva sparato per sbaglio contro Vincenzo.

Comunque, dopo un bel pezzo, anche grazie all’intervento della guardia municipale Carmine Lattari, Emanuele si avvia a malincuore verso casa. Vorrebbe avere tra le mani Vincenzo per fargli una bella paliata, ma non fa che pochi passi: davanti a lui c’è il suo rivale che brandisce un bastone.

E bravu… bravu… ti vanti di avermi schiaffeggiato… – gli dice con gli occhi iniettati di sangue mentre alza il bastone sopra la testa.

Emanuele è sconcertato. Quella mossa da Vincenzo non se la sarebbe mai aspettata. Anche se è ubriaco capisce che non potrebbe farcela contro uno armato, quindi si gira di scatto e cerca di fare di corsa quei pochi passi che lo separano dalla cantina dove può mettersi al sicuro, ma De Parsio è più svelto e fa partire la bastonata che colpisce Emanuele nel mezzo delle spalle.

– Ahhhh! – nei vicoli intorno risuona, agghiacciante, l’urlo di dolore e immediatamente molti si affacciano alla finestre o escono in strada, giusto in tempo per vedere Emanuele perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra battendo la testa sul gradino della porta di casa di Rosa Gatto.

Vincenzo è come paralizzato col bastone in mano. Vorrebbe scappare ma resta a guardare il rivolo di sangue che esce dalla tempia dell’avversario spaccata in due. È incredulo. Gli sembrava di non aver colpito la testa e neppure di aver tirato troppo forte ma, si sa, in quei momenti uno non è più sicuro di niente.

Dalla cantonata spuntano correndo la guardia municipale e un passante. Vedono Emanuele a terra con la testa fracassata e Vincenzo immobile come una statua con ancora in mano il bastone. La guardia gli si butta addosso, lo disarma e lo dichiara in arresto chiudendolo in una stanza del Municipio.

Emanuele Porco lo portano a casa sua. Ha gli occhi aperti che guardano tutt’intorno ma non riesce a parlare. Il medico del paese, Salvatore Canonico, non può che assistere impotente alla lenta agonia del ferito.

– Che qualcuno vada a chiamare il prete – ordina il medico verso le 3 di notte – ormai è vicino…

Ma Emanuele Porco non riceverà mai l’estrema unzione. Il parroco potrà solo benedirne la salma.

Vincenzo De Parsio, processato per omicidio premeditato, andrà assolto dalla Corte d’Assise di Cosenza il 29 novembre del 1900, salvato da Francesco Salerno che, unico e solo testimone, ha visto con certezza Emanuele Porco battere la testa sul gradino.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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