I PRETESTI PER NON SPOSARSI

Nel 1940, prima di partire da Cosenza per il fronte, Antonio Muraca amoreggiava con Carolina Carà, ma, con la partenza e l’assenza di notizie per quasi tutta la durata del conflitto, l’amore, almeno per la ragazza, sembra essere finito, tanto che Carolina, per sei mesi del 1944 si fidanza con un Carabiniere.

Antonio non ha potuto dare notizie di sé perché è stato fatto prigioniero e quando, a guerra finita, viene liberato, deve fermarsi per qualche tempo a Napoli in attesa di ottenere il congedo. Ma non rimane con le mani in mano e scambia promessa di matrimonio con una signorina napoletana, Lina Di Silvio. Poi, congedato, torna a Cosenza e cerca Carolina, la corteggia di nuovo e l’amore si riaccende tra di loro.

La sera del 14 giugno 1947, durante una passeggiata ai Tredici Canali con Carolina, Antonio riesce a possederla nonostante il rifiuto di lei. Dopo pochi giorni, non si sa come, Fedele Carà, il fratello della ragazza, viene a conoscenza del fatto e la sera del 18 giugno fa venire Antonio in casa della madre:

– Tonì, devi riparare il mal fatto, vi dovete sposare!

– Fedè, stai dicendo davvero? Vedi che tua sorella quando è venuta con me non era vergine, io non me la sposo!

– Tonì, non hai capito bene: tu te la devi sposare – gli dice in tono perentorio, calcando su quel “devi”.

– No!

– Allora facciamo così: le facciamo fare una visita e vediamo da quanto tempo non è più vergine, ma se è stata sverginata da pochi giorni, perlamadonna, te la sposi subito, hai capito?

– E va bene, facciamo come dici tu – acconsente a malincuore.

La mattina dopo Carolina, sua madre e suo fratello si presentano allo studio del dottor Gallo, ginecologo, che visita accuratamente la ragazza e conclude che è stata deflorata di recente. Antonio è fottuto!

Senza perdere tempo, il giorno stesso, di comune accordo tra Antonio e Carolina, si stabilisce che le nozze saranno celebrate il 20 luglio successivo e si provvede a fare le necessarie pubblicazioni sia dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile, che davanti ai parroci Del Vecchio e Maletta.

Passano una ventina di giorni.

– Vedi che Fedele vuole sapere del matrimonio… mancano una decina di giorni – chiede Michele Baratta, quello che sarà il compare d’anello, ad Antonio.

Ci debbo ancora pensare… – ma come, mancano dieci giorni al matrimonio e ci deve ancora pensare? Che cosa gli sta succedendo?

Baratta riferisce la risposta e Fedele comincia a diventare nervoso. Ma ormai è tutto pronto, manca un giorno alla data fatidica.

La mattina del 19 luglio, però, Carolina, accompagnata da una sua amica, va dal parroco Del Vecchio e gli fa una richiesta piuttosto bizzarra:

– Vi prego, dovete acconsentire a celebrare le nozze domani mattina alle cinque e mezza…

– Alle cinque e mezza? E perché mai?

– Perché esistono dei contrasti nella famiglia dello sposo… cercate di capirmi… Antonio è d’accordo con me, ma se non si può fare, è facile che non lo facciano presentare…

– E sia!

La mattina del 20 luglio il parroco ha preparato tutto per le 5,30, ma attende vanamente l’arrivo degli sposi, che non arrivano neanche all’ora ufficiale stabilita. Qualche cosa, quindi, è intervenuta tra i fidanzati e le loro famiglie.

Un putiferio. La famiglia Muraca adduce la mancata presentazione di Antonio al fatto che, la sera del 19, Fedele Carà lo avrebbe minacciato con un coltello allo scopo di indurlo a sposare la sorella, senza consegnargli la mobilia promessa in dote. I Carà, invece, affermano che Antonio, per sottrarsi al matrimonio, intendeva mandare le cose per le lunghe.

I Carà, però, dimostrano che non è stata la mancata consegna dei mobili promessi in dote la causa della rottura, perché dopo le pubblicazioni, tramite la comune amica Giuseppina Sacco, Fedele fece sapere alla madre di Antonio che scegliesse i mobili presso il mobilificio Giuliani, fino alla concorrenza di centomila lire, avendogli prestato garanzia la ditta Talarico presso cui lavora. La donna, come risposta mandò a dire che la scelta spettava al figlio Antonio, però in quei giorni aveva “la testa stravolta” e non poteva pensare ai mobili.

Ben presto si scopre anche il motivo del malessere del promesso sposo: due o tre giorni dopo le richieste di pubblicazioni di matrimonio, si presentò dal parroco Maletta chiedendogli se poteva annullare le richieste e recarsi a Napoli ove aveva intenzione di sposare la signorina Di Silvio, appartenente a buona famiglia e con la quale aveva avuto già intimi rapporti e che non voleva sposare Carolina perché dubitava della sua condotta morale.

Questo è troppo. Fedele pretende un chiarimento definitivo. La mattina del 23 agosto va nel cantiere dove lavora Antonio e gli dà appuntamento per la sera stessa alle 20,00 in Piazza Piccola. Poi si allontana e va nel negozio di armi di Pietro Greco, dove acquista una pistola con relative munizioni per la somma di settemilatrecento lire.

Sono le 17,30. Fedele Carà sta passeggiando nervosamente intorno all’Ufficio Postale di Piazza Crispi quando vede Antonio Muraca che sale le scale per entrare nell’ufficio. Senza attendere l’ora e la località fissata in precedenza per l’abboccamento, lo avvicina e i due cominciano a parlare in modo concitato. Vola qualche insulto, uno spintone, poi Fedele caccia fuori la pistola e spara due colpi, quindi si mette a correre verso la caserma dei Carabinieri, distante poche decine di metri, mentre Antonio cade a terra, morto.

– Ho deciso di ammazzarlo perché la sera del 14 giugno scorso ha sedotto mia sorella Carolina – confessa. Omicidio volontario.

Lesione dell’aorta discendente provocata da proiettile di pistola con forame di entrata all’emitorace destro sull’ascellare posteriore, in corrispondenza del settimo spazio intercostale.

Negli ultimi giorni prima del delitto veniva a trovarmi con minor frequenza e non mi usava l’insistenza amorosa dei primi tempiavevo notato questa sua freddezza… – racconta Carolina agli inquirenti – credo che tale comportamento e i rapporti non improntati a quella cordialità dovuta all’avvicinarsi della celebrazione del matrimonio, abbiano determinato un forte risentimento nell’animo di mio fratello.

Avevo prestato garanzia a Fedele Carà per l’acquisto dei mobili che, in sostanza, non erano altro che il letto, quattro sedie, un comò e due comodini, oltre ai materassi – conferma il datore di lavoro di Fedele.

Alcuni giorni prima del delitto – assicura Giuseppe Filice, che avrebbe dovuto essere uno dei testimoni delle nozze – ebbi incarico dalla moglie di Fedele di dire alla madre di Muraca che i materassi e le vesti per Carolina erano pronti, ma mi rispose che non voleva essere infastidita

– Non è vero! Non ho risposto così! – nega la donna. Gli inquirenti non le credono, se si riflette che, se è vero che si recò a Napoli per informare la Di Silvio che Antonio non poteva più sposarla avendo sedotto la Carà, non disse, però, alla Di Silvio ed alla madre di costei se il figlio avesse deciso di rompere definitivamente ogni rapporto con lei.

Tutti i testimoni ascoltati giurano sull’onestà di Carolina e sulla moralità di Fedele, il quale negli anni dal 1940 al 1946 non volle, per evitare che potesse perdersi, che Carolina facesse la cameriera.

Ma se tutti giurano sulla moralità di Fedele Carà, la stessa cosa non può fare il suo certificato penale: condanne per lesioni, truffa, furto e porto di coltello proibito, più una diffida della Questura. Questi precedenti potrebbero aggravare la sua posizione, ma gli inquirenti non ritengono che abbia ucciso Antonio Muraca per bassi istinti delinquenziali, preordinando e preparando il delitto. Poi viene fuori che il 22 luglio 1947 Antonio Muraca si rivolse con esposto al Questore di Cosenza, denunciando che Carà, il 19 luglio, lo aveva inseguito a mano armata di coltello e minacciato che l’avrebbe ucciso se per il 20 luglio non si fossero celebrate le nozze tra lui e Carolina, ma una testimone assicura che Carà aveva in mano un arnese luccicante che le era sembrato fosse un coltello e per questo gli inquirenti ritengono che è da dubitare che si trattasse certamente di tale arma.

Insomma, tutti i tentativi per dimostrare che la mancata celebrazione delle nozze sia dipesa dai mobili e dalle minacce di Fedele naufragano miseramente, ma resta chiara e ferma la responsabilità di Carà in ordine al delitto di omicidio volontario e per questo reato, l’8 aprile 1948 viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

È sicuro che Antonio Muraca non voleva riparare col matrimonio alla seduzione della Carà, preferendo a costei la Di Silvio, che rappresentava un miglior partito per lui. Nel fatto delittuoso commesso dal Carà esiste a suo favore la circostanza attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale, ossia per la situazione disonorevole in cui rimaneva sua sorella a seguito del mancato matrimonio col Muraca. Il Muraca non aveva più ragione di procrastinare le nozze con Carolina Carà, dopo che l’imputato aveva messo a sua scelta i modesti mobili per corredare la casa coniugale. Tutto il comportamento del Muraca determinò un giusto risentimento nel Carà, sicché costui, nel pomeriggio del 23 agosto 1947, imbattutosi nel Muraca e perduta la speranza che questo si fosse finalmente indotto a sposare la sorella, lo uccise, adirato come era, per l’agire versipelle di Muraca. Conseguentemente non si può disconoscere che Carà, inoltre, agì in stato d’ira, determinato dal fatto ingiusto di Muraca. Ed infine neppure si può negare al Carà la concessione delle attenuanti generiche.

Dopo complicati calcoli di riduzione di pena per le attenuanti e di aumenti per la recidiva, la pena viene fissata in 9 anni di reclusione, più pene accessorie.

Il 16 giugno 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonata la pena di anni tre di reclusione.

Il 28 giugno 1950 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Fedele Carà.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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