GLI ULIVI CONTESI

È il 14 marzo 1950. Oreste Guglielmo va, come ogni mattina, a zappare nel suo fondo in contrada Sciusa, nei pressi di Macchia Albanese. Verso le 10,30 lo raggiunge Demetrio Bellucci per chiedergli un favore

– Mi puoi aiutare a spostare due piante di ulivo?

Oreste, trattandosi di amico e più ancora per essere compare e meritando, lascia ciò che sta facendo e lo segue. Strada facendo, però, Demetrio fa presente al compare che le piante sono piuttosto pesanti e che se fossero in tre ce la farebbero con minore sforzo. Lì vicino sta lavorando il comune amico Francesco Marchianò e lo vanno a chiamare. Adesso sono in tre.

Giunti nel fondo di Bellucci stanno per iniziare il lavoro, quando soraggiunge Michelangelo Barci, cognato di Bellucci, con la mano destra in tasca, il quale, con voce molto pacata, dice a Demetrio

Le hai tirate le piante?

Si, le ho tirate perché l’avevo riservate tutte e quattro, come all’atto della divisione del fondo; del resto le tolgo di qui per trapiantarle nello stesso fondo e non le debbo vendere o dare ad alcuno, se eventualmente ho torto, pago – gli risponde Demetrio continuando a dare di zappa

Gli altri due amici si guardano e capiscono che potrebbe nascere una lite tra i cognati, così intervengono e la tensione scema.

Michelangelo Barci però, invece di tornare al suo lavoro rimane a guardare le operazioni di spostamento delle piante e tutto procede bene per i primi tre alberi. Resta solo l’ultimo ulivo. Demetrio, dalla parte delle radici prende la pianta, mentre Oreste l’abbraccia dalla punta e Marchianò se ne sta vicino per aiutarli dopo tolta dal fossato; Michelangelo Barci è fermo all’orlo superiore della buca, mentre con la zappa fa finta di smuovere la terra per coprire il fosso. Demetrio e Oreste stanno sollevando la pianta, quando Michelangelo improvvisamente alza la zappa e colpisce violentemente alla testa suo cognato che stramazza a terra senza un lamento. Oreste scatta per afferrare Michelangelo il quale, con la zappa alzata, minacciosamente, gli urla

Vattene se non ne vuoi uno anche tu!

Oreste è costretto a retrocedere e allora Michelangelo continua a infierire sul cognato colpendolo alla testa col dorso della zappa, sfogando così la sua brutale malvagità.

Oreste e Marchianò sono sconcertati e quasi inebetiti dall’atto inumano che si è svolto sotto i loro occhi, senza aver potuto intervenire e vietare il delitto anche perché disarmati ed in posizione d’inferiorità, trovandosi nella parte bassa del terreno e convinti che il Barci, oltre alla zappa, ha in tasca la pistola.

Michelangelo, soddisfatto della sua azione bestiale, si mette la zappa sporca di sangue sulla spalla e si allontana dal posto lentamente, andando verso la sua abitazione, distante non più di 200 metri.

Oreste, ripresosi dallo sbigottimento,  si fa coraggio e, presa da terra una scure, insegue Michelangelo il quale butta a terra la zappa, mette la mano nella tasca dei pantaloni e dice all’inseguitore

Non venire ancora avanti perché ti ammazzo!

Oreste ha paura e si ferma, mentre l’assassino riprende il cammino verso casa. Ma dalla posizioni in cui è stato costretto a fermarsi, Oreste vede, seminascosto dietro una quercia ad una settantina di passi, Domenico Antonio Barci, il fratello di Michelangelo, che sta osservando tutta la scena.

– Aiuto! Soccorso! – comincia ad urlare Marchianò correndo a destra e sinistra con le mani nei capelli. Subito accorrono molti contadini che stanno lavorando nei dintorni, mentre Oreste corre a Macchia Albanese per fare avvisare i Carabinieri.

Alle 11,10 del 14 marzo 1950 insistenti colpi alla porta della caserma dei Carabinieri di San Demetrio Corone fanno pensare al Maresciallo Capo Francesco Bajeli che non sarà una giornata tranquilla

– Marescià, vi vogliono al telefono da Macchia Albanese! È urgente! – gli dice, trafelato, l’uomo che è stato mandato ad avvisarlo

Bajeli, ricevuta la notizia dell’omicidio, parte immediatamente a piedi con due suoi uomini, ma fuori l’abitato di S. demetrio, incontrata una autovetturetta “Topolino”, guidata dal signor Vincenzo Sprovieri, con questo può raggiungere le vicinanze del luogo del delitto. Percorrendo le ultime centinaia di metri a piedi notano che molte persone vi accorrono e, man mano che la distanza diminuisce, cominciano a sentire anche le grida di dolore e pianto disperato. Sul posto c’è molta confusione di gente che va e viene. Qualcuno fa strada e accompagna i militari oltre un piantato di fave dove, accanto ad una pianta di ulivo distesa a terra giace morto Demetrio Bellucci, bocconi, con varie ferite alla testa e con la tempia destra coperta di sangue coagulato. Il cadavere è senza giacca, con le maniche della camicia tipo militare color kaki rimboccate sopra il gomito. Anche il pantalone è di tipo militare, ma già tinto di scuro, e i piedi sono calzati con un paio di scarpe pesanti chiodate. I piedi sono nel fosso dove era stata sradicata la pianta, le gambe leggermente piegate. Testa e spalle sono più in basso del dorso a causa del terreno in declivio. Ad una ventina di metri c’è la zappa intrisa di sangue al dorso.

Secondo quanto dicono i presenti, Michelangelo Barci non dovrebbe essere lontano, forse in una zona cespugliosa ed alborata nelle vicinanze, così il Maresciallo ordina ai suoi uomini di andarlo a cercare. Il sentore non è infondato perché dopo un certo tempo i due Carabinieri notano un giovane uomo, vestito in chiaro con un berretto in testa ed apparentemente disarmato, che guardingo si avvia in direzione di un folto bosco in montagna. Disposto il servizio di accerchiamento, Michelangelo viene raggiunto e fermato dopo aver oltrepassato la strada carrozzabile San Demetrio – San Cosmo. Qualcuno, molto curioso, segue l’arresto dell’assassino e ne dà notizia alla gente che è sul luogo del delitto e quasi tutti accorrono nella località dell’arresto con l’intento di linciare il brutale assassino. A fatica i Carabinieri riescono a sottrarre Michelangelo alla folla e ed a portarlo di corsa nella camera di sicurezza della caserma di San Demetrio.

Intanto il Maresciallo Bajeli è stato avvisato da Oreste Gugliemo che un fratello dell’omicida era appostato dietro una quercia mentre accadeva la tragedia, così va a casa dei Barci e dichiara in stato di fermo sia Domenico Antonio Barci, che l’altro fratello Tommaso, sul quale comincia a gravare qualche sospetto di complicità. I due, agli occhi di Bajeli, appaiono calmi ma non sereni. È proprio in questo momento che arriva la Guardia Municipale Demetrio Bellucci (omonimo della vittima) che, con alcuni amici fidati, è incaricato di perquisire l’abitazione. I fratelli Barci fanno ritrovare un vecchio fucile ad avancarica, quasi inservibile e continuano ad insistere che non hanno altre armi ma, quando si accorgono che il Maresciallo non si accontenta e fa continuare la perquisizione nei locali adiacenti alla casa, cominciano ad innervosirsi. E ne hanno tutte le ragioni: nell’attiguo fienile viene rinvenuto altro fucile e questo a retrocarica calibro 12, a due canne, carico e pronto per l’uso

– E questo? – fa loro il Maresciallo, mostrando l’arma

Nessuno dei due risponde.

Adesso la folla, abbandonata l’idea di linciare Michelangelo, accarezza quella di linciare gli altri due fratelli e qualcuno tenta di sfondare la porta di casa Barci. La Guardia Municipale, con la rivoltella in mano, riesce a riportare la calma e insieme al Maresciallo a condurre anche gli altri due fratelli a San Demetrio, passando in mezzo alla folla inferocita.

Dai primi accertamenti si scopre che tra la vittima e la famiglia di sua moglie i rapporti erano pessimi per questioni di interesse e ciò avvenne subito dopo la morte del capofamiglia Domenico Barci che alla sua morte lasciò un discreto compendio ereditario immobiliare, rustico ed urbano ai suoi cinque figli, tra i quali Mariantonia, fresca vedova Bellucci. Nel 1949 era stata operata una divisione di fatto, sicché i germani Barci si erano tra loro diviso bonariamente le proprie quote.

Secondo l’avvocato Antonio Berlingieri, difensore dei fratelli Barci, Demetrio Bellucci, tipo irascibile, scontroso, violento, prepotente, si era arbitrariamente impossessato di quelle quattro piante di ulivo ricadenti nella quota ereditaria dei suoi cognati, per trapiantarle nella quota destinata a sua moglie. Bellucci, alla richiesta di spiegazioni da parte di suo cognato Michelangelo tentò di aggredirlo e questi reagì colpendolo più volte con la zappa.

Secondo l’avvocato di parte civile Vincenzo Chiodi, al contrario, sono i Barci a godere fama di gente avara e poco socievole, tanto da nascondere i denari delle pingui rendite nei buchi della loro casa e che vivessero come bestie appunto per accumular ricchezze e appagare la loro insaziabile bramosia di denaro. L’avvocato Chiodi racconta che quando il giovane Bellucci chiese ai Barci in sposa Mariantonia, i fratelli e la madre non accolsero di buon grado la proposta perché subito pensarono che il matrimonio sarebbe costato del denaro e che avrebbe portato, come conseguenza, la sottrazione di parte del patrimonio accumulato. È significativo che un’altra sorella dovette scappare di casa perché la madre e i fratelli si opponevano al matrimonio, poi conchiuso con la fuga. Ma per evitare che anche Mariantonia facesse la fujitina, le nozze furono concordate. Ma occorreva allestire il corredo. E il corredo costava, specie alcuni anni fa. E i Barci, pur navigando nell’abbondanza, pensarono di trovarne uno già allestito e rivolsero gli occhi sulla casa di un povero contadino che coll’onesto lavoro era riuscito a mettere insieme un modesto corredo per la figliuola che doveva convolare a nozze. Profittando che la famiglia del contadino abitava in campagna, i Barci penetrarono di notte nella casa e fecero man bassa di ogni cosa. Scoperti per puro caso, vennero processati e condannati. Ne subì le conseguenze anche il povero Bellucci che, nel desiderio di aiutare i cognati e la suocera, aveva cercato di nascondere la refurtiva. Denunziato per favoreggiamento, venne infine assolto. Continua l’avvocato Chiodi: maritata Mariantonia al Bellucci, era naturale che costui chiedesse la quota ereditaria spettante alla moglie e detenuta dai cognati. Cominciarono allora gli aperti risentimenti di costoro. Finalmente si procedette a un progetto di divisione e l’ucciso entrò nel possesso provvisorio di una quota non ancora ben definita. Il risentimento dei Barci si acuì e forse pensarono che, uccidendo il cognato, i loro beni non avrebbero subito falcidie perché la sorella si sarebbe accontentata di un poco di denaro. La sentenza di questo processo viene acquisita agli atti.

I tre fratelli vengono interrogati e forniscono tre versioni completamente diverse, ma Domenico Antonio riferisce un particolare che inguaia sua madre: è stata lei ad avvertire tutti e tre i figli che Demetrio stava tirando le piante e fu lei, d’accordo con Tommaso e Domenico Antonio, a mandare Michelangelo per “fugare” il cognato (farlo cioè desistere dal tirare le piante e farlo allontanare).

L’anziana nega, ma viene arrestata come istigatrice del delitto. Ad avvalorare questa ipotesi c’è il verbale del Maresciallo Capo Bajeli dove viene riferito che Tommaso, Domenico Antonio e la loro madre, dopo la consumazione del delitto da parte di Michelangelo, si sono riuniti in casa guardigni e pronti a reagire in caso che qualche congiunto del morto si fosse ivi recato per chiedere conto o realizzare vendetta e lo dimostra il fatto di aver rinvenuto il fucile carico e pronto per l’uso. Inoltre, per Bajeli, è molto sospetto il fatto che la famiglia Barci  non ha mostrato nessun segno di dolore, di pentimento, di angoscia, mantenendosi sempre calmi e indifferenti.

– Mi ha minacciato con il manico del bidente – si difende Michelangelo

Circa la voluta minaccia denunciata dal Michelangelo, verbalizza Bajeli, si chiarisce che detto manico non era in mano al Bellucci in quanto esso già alzava la pianta per essere spostata. Tale provocazione, se tale fosse stata, può giustificare l’azione delittuosa.

Il 23 febbraio 1951, il Procuratore Generale della Repubblica chiede il rinvio a giudizio di Michelangelo Barci con l’accusa di omicidio volontario e il proscioglimento  dei suoi familiari per insufficienza di prove. Richiesta accolta dal Giudice Istruttore del Tribunale di Rossano competente per territorio. È il 21 luglio 1951. 

Il dibattimento si terrà presso la Corte di Assise di Castrovillari a partire dal 16 febbraio 1952 e Mariantonia Barci, vedova Bellucci, non si costituisce parte civile. Una serie di legittimi impedimenti non consente di iniziare la discussione in aula e il dibattimento, per decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, viene spostato a Cosenza.

Si comincia il 15 maggio 1952. Spunta una perizia del 10 ottobre 1949 nella quale è messo nero su bianco che Mariantonia riconosce che la sua quota ha un valore maggiore della sua spettanza, per cui si obbliga di permettere ai fratelli Domenico Antonio, Michelangelo e Tommaso di prelevarsi i piantoni d’ulivo che attualmente si trovano nel vivaio sito nel fondo Maribello. Tale prelevamento deve avvenire entro il mese di marzo dell’anno 1952. Demetrio Bellucci avrebbe commesso un abuso.

La Corte, il 21 maggio 1952, emette la sentenza in base alla quale Michelangelo Barci è ritenuto colpevole di omicidio volontario, con l’attenuante di avere agito in stato d’ira determinato da fatto ingiusto e con attenuanti generiche. La pena comminata è di 17 anni di reclusione, oltre alle pene accessorie. In più dovrà risarcire alle parti civili 220.000 lire.

Il ricorso in Appello porta al ricalcolo della pena con la riduzione a 14 anni di reclusione, ma l’imputato dovrà rimborsare alle parti civili altre 98.500 lire di maggiori spese.

Il 17 dicembre 1953, la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato e mette la parola fine alla faccenda.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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