ADESSO ME LA VEDO IO

Rosaria Tenuta di Rende ama, ed è riamata, Ernesto De Franco, sartore dello stesso paese. Ma il loro amore era stato turbato, per un breve momento, da Luigi Tenuta, zio della giovane, il quale le aveva proposto un fidanzamento con Francesco Marino, macellaio di Cosenza.

Il macellaio, nonostante il rifiuto di Rosaria, di quando in quando continua ad andare sotto la casa della ragazza nella speranza che, consigliata anche dai suoi parenti, la ragazza finirà col preferirlo ad Ernesto.

Anche il pomeriggio del 18 febbraio 1934 il macellaio va a Rende per andare a trovare il suo amico Luigi Tenuta, ove diversi amici trascorrono gran parte della serata in lieto banchetto, bevendo più del necessario. Verso le 22,00 tutti gli intervenuti, su invito di Tenuta, si avviano verso la locale sede del dopolavoro per sorbire il caffè.

Dopo un po’ che sono nel dopolavoro, Luigi Tenuta esce in strada per soddisfare un bisogno corporale. Un gruppo di giovanotti sta passeggiando sotto le finestre delle rispettive fidanzate. Luigi li osserva alla fioca luce di un lampione e riconosce Giuseppe De Franco, il fratello di Ernesto. Gli sembra anche che il giovanotto lo abbia notato perché sussurra qualcosa all’orecchio di Francesco Aversa e poi scoppia in una fragorosa risata. Ritenendo che stiano ridendo di lui, senza pensarci due volte li affronta e dispensa ad entrambi dei ceffoni.

In un primo momento i due giovani pensano di reagire – Francesco Aversa ha in tasca una rivoltella – ma poi, temendo di essere sopraffatti sia perché Tenuta mette una mano in tasca come per prendere un’arma e sia perché è arrivato sul posto anche il macellaio, si danno alla fuga e si rifugiano nella casa Menotti De Franco, fratello di Giuseppe ed Ernesto, inseguiti da Tenuta e dal macellaio.

Il clamore della rissa però richiama l’attenzione di Pasquale Aversa, il fratello di Francesco, che è intento ad accendere il fuoco.

– Chi ha messo le mani addosso a mio fratello? – chiede ai curiosi che stanno commentando i fatti.

– Ho litigato io con tuo fratello – gli risponde Ciccio Rizzo, che con la discussione non ha mai avuto nulla a che fare, forse per spavalderia o forse per amor di quiete, dato che è nipote di Luigi Tenuta.

Pasquale, per nulla soddisfatto della risposta, entra in casa di Menotti De Franco e, informato dell’aggressione subita dal fratello, manifesta subito propositi di vendetta contro gli aggressori, dicendo:

Adesso me la vedo io!

– Ma lascia stare, non è successo niente di serio – cerca di calmarlo Menotti prendendolo per un braccio.

– Si, non è successo niente, ascolta mio marito… siediti e beviti un bicchiere di vino – aggiunge la padrona di casa.

Pasquale non vuole sentire ragioni, apre la porta ed esce in strada, seguito da suo fratello, che in tasca ha sempre la rivoltella. Il primo che incontrano è Luigi Tenuta, che sembra avere tutte le intenzioni di continuare la rissa, invano invitato dagli amici a tornarsene a casa.

Francesco Aversa si lancia addosso all’avversario. I due si strattonano per le giacche e cominciano a darsele di santa ragione. Quando il macellaio cerca di intervenire in aiuto di Tenuta, entra in scena anche Pasquale Aversa. Poi arriva anche Ernesto De Franco, il quale non vede l’ora di regolare i suoi conti con lo zio di Rosaria, e tutti e due colpiscono violentemente Tenuta, mentre il macellaio, prudentemente, fa un passo indietro.

Basterebbe così, ma Pasquale Aversa non è soddisfatto. Caccia di tasca un coltello e colpisce Tenuta all’occipite, al collo ed al torace. L’uomo vacilla, fa segno di arrendersi e premendosi una mano sulla ferita al petto si avvia a casa.

Pasquale e Francesco Aversa con Ernesto De Franco tornano a casa di Menotti, ma davanti alla porta trovano Ciccio Rizzo, nipote di Luigi Tenuta, e Pasquale gli si lancia addosso accoltellandolo alla spalla destra. Rizzo, da parte sua, afferra con una mano per la gola il suo aggressore cercando di strozzarlo, mentre con l’altra cerca di disarmarlo. Sono attimi interminabili. Nello sforzo, Ciccio Rizzo spinge l’avversario con le spalle sulla porta della casa di Menotti De Franco, proprio nell’istante in cui la padrona di casa sta aprendo per capire cosa stia accadendo, facendole franare addosso Pasquale. Alle urla disperate della moglie accorre Menotti che comincia anche lui ad urlare. È la salvezza per Pasquale perché Ciccio Rizzo lo lascia andare dicendo:

Ringrazia Cesira altrimenti ti avrei strangolato perché mi hai tirato una pugnalata!

Rizzo se ne va e Pasquale consegna il coltello con il quale ha colpito i suoi avversari a Menotti De Franco e, rivolgendosi a suo fratello, dice:

Fratello mio ti ho vendicato, te l’ho ucciso io… adesso mi sento più libero

E il fratello, a queste parole, toglie dalla tasca dei pantaloni la rivoltella che non ha mai usato e la consegna a Menotti.

Le parole di Pasquale Aversa sono profetiche perché Luigi Tenuta quella stessa notte, dopo essere stato portato in ospedale, muore per emorragia interna del cavo pleurico sinistro. Adesso è omicidio volontario.

Nel giro di poche ore vengono arrestati i fratelli Aversa, Ernesto De Franco, e il macellaio Francesco Marino con accuse che vanno dall’omicidio volontario, lesioni personali e porto abusivo di pugnale per Pasquale; concorso in omicidio per Francesco Aversa ed Ernesto De Franco e porto abusivo di arma da fuoco per il macellaio, accusato da vari testimoni di averlo visto estrarre una rivoltella.

– Ve lo ripeto, non sono stato io a ferire Luigi Tenuta – ripete, ossessivamente, Pasquale in ogni interrogatorio.

Ma contro di lui le prove sono schiaccianti e contro gli altri le prove sono ritenute sufficienti dal Giudice Istruttore il quale, il 4 giugno 1934, ne dispone il rinvio a giudizio.

Il dibattimento si tiene il 15 gennaio 1935 presso la Corte di Assise di Cosenza e la difesa di Pasquale Aversa punta ad ottenere il riconoscimento di avere agito in tutti e due i casi per legittima difesa e, comunque, chiede che sia esclusa la volontà omicida per la sproporzione fra la causale e la gravità del delitto.

Secondo la Corte non può essere riconosciuta la legittima difesa perché in tutti e due i casi fu Pasquale Aversa ad aggredire gli avversari per l’insano e riprovevole desiderio della vendetta. Per quanto riguarda la volontà omicida, questa è chiara se si tenga presente la particolare situazione d’animo in cui si trovò l’imputato allorché uccise Tenuta. Pasquale Aversa, infatti, rimase vivamente addolorato appena apprese l’aggressione subita dal fratello; concepì immediatamente l’idea della vendetta e, dato il suo stato d’animo profondamente esacerbato, ritenne necessaria l’uccisione di Tenuta come unico ed adeguato modo per punirlo giacché questi, pur appartenendo ad una delle più umili classi sociali essendo un carrettiere, aveva tuttavia osato schiaffeggiare in presenza di altre persone e senza un plausibile motivo Francesco Aversa il quale, sebbene appartenente pure a famiglia d’operai, aveva però, coll’onesto esercizio della professione di agrimensore, conquistato la stima dei suoi concittadini ed amici.

Però deve essere riconosciuto che Pasquale Aversa agì in stato d’ira e che questa fu determinata dal fatto ingiusto di Tenuta perché questi, non appena avvertì la risata fatta da Francesco Aversa, anziché slanciarsi aggressivamente contro costui e percuoterlo sino ad insanguinarne la bocca, avrebbe dovuto prima accertarsi che la risata fosse stata a lui diretta per deriderlo o comunque offenderlo.

La posizione degli altri imputati si alleggerisce man mano che i testi vengono ascoltati e adesso appare chiaro che Francesco Aversa non partecipò all’omicidio perché, mentre colluttava con Tenuta non estrasse, pur avendone la possibilità, la rivoltella di cui era armato. D’altro canto, impegnato com’era in una colluttazione, colluttazione ch’egli svolgeva senza rendersi conto di quello che gli altri facevano, è evidente il difetto assoluto di nesso tra la propria e l’azione degli altri corissanti. Per quanto riguarda Ernesto De Franco le prove non sembrano essere tali da poter arrivare ad una condanna. Nemmeno nei confronti di Francesco Marino le prove che avesse una rivoltella sono certe.

Certo è che tutti devono rispondere del reato di rissa, reato che viene contestato in aula.

A questo punto la Corte può emettere le sentenza nei confronti degli imputati: Pasquale Aversa, ritenuto colpevole di omicidio volontario con l’attenuante dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto dell’offeso, è colpevole anche del reato di lesioni personali con arma, del reato di partecipazione in rissa e di porto abusivo di arma. In tutto fanno 14 anni e 7 mesi di reclusione, più 7 mesi e 15 giorni di arresti, oltre alle pene accessorie. Applicando l’articolo 1 del Regio Decreto d’indulto del 2 settembre 1934, la Corte dichiara condonati a Pasquale Aversa 2 anni di reclusione.

Gli altri tre imputati vengono assolti dai reati per i quali sono a processo, ma sono riconosciuti colpevoli del reato di partecipazione in rissa e condannati a 3 mesi di reclusione; Francesco Aversa prende anche 1 mese e 15 giorni di arresti per il porto abusivo di arma da fuoco. La Corte applica anche per Francesco Marino l’indulto e dichiara condonata l’intera pena inflitta.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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