L’OSCURITÀ DELLA NOTTE

4 agosto 1895. Verso l’una di notte due uomini bussano alla caserma dei Carabinieri di San Martino di Finita. Deve trattarsi sicuramente di qualcosa di grave per presentarsi nel pieno della notte e infatti quando il Brigadiere Sante Lentini, rivestitosi alla meglio li ascolta, si rende conto che non c’è tempo da perdere e ordina ai suoi uomini di prepararsi ad uscire.

– Dopo mezzogiorno di ieri io, lui – esordisce il più anziano dei due uomini, Giovanbattista Turco, indicando l’altro uomo, Lorenzo Golemme –, Antonio Golemme e il ragazzo Pasquale Tunno, mio servo, ci trovavamo in contrada Pezze a lavorare sull’aia per la ventilazione del grano. Lorenzo e Antonio comandarono il servo Pasquale per condurre i loro bovi al fiume Cusciniello per abbeverarli. Il ragazzetto ubbidì prontamente e, dopo abbeverati i bovi, anziché ritornare all’aia nella parte soprastante del fiume, li menò al pascolo – l’uomo interrompe il racconto, facendo segno a Lorenzo Golemme di continuare.

Si erano fatte le 19 senza che il ragazzo fosse ritornato e pensammo bene di cercarlo, essendo il ragazzo dalla parte sottostante di un’altra collina. Non lo vedemmo e, sicuri che unitamente agli animali si fosse condotto a San Martino ove abitualmente i bovi vengono custoditi, pensammo di raggiungerlo in paese. Siccome anche questo pensiero riuscì vano, tornammo indietro. Giunti verso le 21 in contrada Pezze, cominciai le ricerche dalla parte sottostante, mentre il mio parente Antonio Golemme rimase sulla via. Rinvenni subito due bovi di mia proprietà, ma senza il custode, e dalla parte opposta di un’altra collina trovai il rimanente degli altri animali, rinvenendo pure il ragazzo giacente sul suolo. Mi spaventai e chiamai ripetutamente Antonio, facendogli capire che avevano ammazzato Pasquale, ma Antonio non si curò di avvicinarsi

– Morto ammazzato? Siete sicuro? 

Quando trovai Pasquale Tunno morto, ho creduto che fosse avvenuto ciò per causa naturale, senza mettermi a ricercare se piuttosto non avesse ad attribuirsi la sua morte a violenze patite…

Sono le 2 di notte quando i Carabinieri, il Sindaco e Lorenzo Golemme arrivano nelle vicinanze del posto dove giace il cadavere del quattordicenne Pasquale Tunno. Golemme, anziché portarsi direttamente sul posto, avendolo osservato la sera precedente, sembra titubante e guarda dietro ogni cespuglio. Meravigliato di tal fatto, come anche il Sindaco, il Brigadiere sbotta:

Per qual motivo fingi di non sapere il punto preciso? Avendolo rinvenuto tu dovresti essere sicuro di dove si trova il cadavere!

Golemme non risponde e continua a ispezionare i cespugli. Finalmente, dopo il perduto tempo di una mezz’ora, l’uomo trova il corpo del ragazzo ma, stante l’oscurità della notte, non si può osservare quale sia stata la causa della morte, così il Brigadiere consegna a Golemme diversi fiammiferi per accenderli onde meglio osservare. Ma prima di accendere i fiammiferi, L’uomo esclama:

Madonna come l’hanno fatto!

Come sai tu il suo corpo malridotto se a noi dicesti che appena ti permettesti avvicinare il cadavere ed ignoravi le ferite da esso riportate ed ora non hai ancora avuto il tempo di osservarlo? – gli risponde, sospettoso, il Brigadiere, ottenendo solo il silenzio imbarazzato di Golemme.

Accesi i fiammiferi, tutti possono vedere il cadavere del ragazzo con la testa orribilmente martoriata da diversi colpi di cozzo di scure. Poi, alla fioca luce dei fiammiferi, appare evidente che il cadavere fu spostato e sistemato ai margini di un piccolo viottolo e sul viso fu adagiata la lama della sua stessa scure, col manico in giù. Uno spettacolo davvero raccapricciante.

Iniziate subito le indagini, si presenta al Brigadiere il pastore Annibale Sacco, il quale riferisce di avere appreso dalla moglie di Antonio Golemme che anche questi, dopo le 21,00 del 3 agosto, trovavasi unitamente a suo zio Lorenzo Golemme nella località ove trovavasi il cadavere. Molto strano perché Lorenzo Golemme aveva dichiarato di essere da solo quando rinvenne il corpo e che Antonio non volle avvicinarsi. I due diventano così i principali sospettati del barbaro omicidio.

– Quando zio Lorenzo mi chiamò appena trovato il cadavere, io accorsi sul posto ma non mi avvicinai

Tutto il contrario di quanto dichiarato dallo zio. È quanto basta perché i due finiscano in camera di sicurezza con l’accusa di concorso in omicidio volontario. Sono le 6,00 del 4 agosto 1895.

Dopo ore di interminabili interrogatori, durante un confronto tra i due, Lorenzo, rivolgendosi al nipote, dice:

Antonio, pensa ciò che dici altrimenti è peggio per te!

Una frase sibillina, ma tale da far capire al Brigadiere che deve mettere sotto pressione Antonio, probabilmente l’anello più debole tra i due, ma l’uomo, ripetutamente interrogato, continua a dire di non sapere niente di ciò che è successo al ragazzo.

Una contusione sulla regione temporale di sinistra con la rottura completa dell’osso sottostante; altra sulla regione occipitale; una ferita lacero-contusa con frattura dell’osso occipitale in linea circolare dal centro verso il lato destro; sulla regione laterale del collo destro e sinistro si osservano delle impressioni rosso-bluastre; una macchia nerastra a destra e sinistra. Le lesioni del collo sono state prodotte, facilmente, da stringimento della gola con le dita della mano.

Ormai il Brigadiere è convinto che l’autore dell’omicidio sia Lorenzo Golemme con la complicità di suo nipote Antonio e che le ragioni che lo hanno spinto al delitto sono state perché era arrabbiato e così, sorpreso dall’impeto dell’ira, stante il tempo che inutilmente aveva ricercato il ragazzo, sia nelle campagne che nel paese, tanto che dopo vibratogli dei terribili colpi di scure, credendo che ancora fosse rimasto vivo, per paura di essere svelato dall’infelice, per distruggere del tutto le tracce, credette bene stringergli con le mani la gola, tanto terribilmente che gli fece uscire circa 4 centimetri la lingua di fuori, gli occhi schizzanti fuori dalle orbite e l’asta virile in semi erezione. Sembra troppo poco per giustificare un così orrendo delitto. Forse è il caso di continuare a scavare per cercare di scoprire altro.

Secondo Lorenzo Golemme potrebbe essersi trattato di una vendetta messa in atto da tale Giuseppe Golemme, soprannominato Brizocco, perché mesi prima Pasquale Tunno consumò un stupro ai danni di un figlioletto di Brizocco, dell’età di 8 anni, per il quale fu condannato a 11 mesi di reclusione, ancora non espiati.

– A giugno chiesi a Brizocco se la causa era stata fatta o meno e lui mi rispose: “Se si fa o non si fa poco m’importa perché quando mi accade il destro io mi riprometto di afferrarlo per la gola e strangolarlo e così ottenere riparazione dell’onta sofferta…”

– Giosuè, così si chiama il bambino – racconta Brizocco –, non è mio figlio ma un proietto da me allevato. Rimasi dispiaciuto della violenza commessa da Pasquale Tunno e dimostrando il mio dispiacere dissi che se lo avessi sorpreso in flagranza, lo avrei percosso… non ho detto più di tanto perché, alla fine, Giosuè è un esposto e non mi è legato da vincoli di sangue. Non feci mai minacce di vendicarmi, specialmente in presenza di Lorenzo Golemme. Restai soddisfatto della condanna riportata da Pasquale e ripigliai le relazioni di amicizia con la sua famiglia.

 Brizocco non c’entra, la sera del delitto era abbastanza lontano da San Martino, con diversi testimoni che lo confermano.

Due giorni dopo l’omicidio i Carabinieri fanno una scoperta che potrebbe demolire tutte le certezze che hanno raggiunto: nell’aia di Giovanbattista Turco rinvengono una scure intrisa di sangue, quasi in tutte le parti del ferro ed altre stille di sangue pure al manico. Interrogato, Turco risponde:

– La scure è mia ma non credo che sia sangue, bensì tabacco di naso… mi sono pulito le dita delle mani… ma se fosse sangue dovete sapere che la sera del 3 agosto, mentre dormivo sull’aia, Lorenzo e Antonio Golemme anziché prendere la loro propria scure presero la mia –. Facile a dirsi, ma Turco è in grado di provare quello che dice? – mi sono convinto fin dal primo momento che gli autori dell’omicidio sono i Golemme perché si dimostrarono in tutta titubanza… Antonio Golemme ad un certo punto disse: “Io sono morto di sonno”. E Lorenzo soggiunse: “A me mi è passato il sonno e la fame”.

Parole. Forse.

A scagionare completamente Turco, però, ci pensano proprio i due Golemme i quali, nel corso dei loro innumerevoli interrogatori, dichiarano che Turco non si mosse dall’aia, dicendo pure che, dopo distaccatisi da lui per ricercare gli animali, parte di loro proprietà e parte del Turco, erano ritornati sull’aia ed avendolo trovato a dormire senza che vi fosse colà la mandria, si menarono di bel nuovo per ricercarli con il ragazzo, senza svegliare Turco.

Resta però il problema delle macchie sulla scure e per risolverlo gli inquirenti dispongono una perizia sia su quella di Turco che su quella trovata sul cadavere di Pasquale Tunno. I risultati della perizia dicono che le macchie sulla scure di Turco sono macchie di sangue umano e quindi è proprio quella l’arma del delitto.

Tuttavia restano ancora dei dubbi sul movente dell’omicidio perché quello individuato sembra troppo fragile per giustificare tutta quella violenza e così, continuando a indagare, il Brigadiere Lentini scopre precedenti contrasti tra i Golemme e Pasquale Tunno. Risulta, infatti, che prima di farsi servo di Giovanbattista Turco, Pasquale era stato richiesto dai Golemme e perché l’ucciso si era rifiutato, chiamarono il padre briccone e birbante. Nel mese di luglio i Golemme furono invitati dal signor Agesilao Musacchio affinché dalla montagna di San Martino gli avessero, mediante pagamento, trasportato in paese due travi e siccome i Golemme seppero che le travi dovevano essere consegnate al padre del defunto Tunno, si rifiutarono di eseguire tale servizio dicendogli che Tunno da loro non meritava neppure una frasca perché non aveva obbligato il figlio a fare il servo con loro.

Adesso potrebbe essere tutto più chiaro: questi precedenti rancori, sommati all’ira per l’allontanamento di Pasquale con i buoi, potrebbero essere stati sufficienti a scatenare la furia omicida.

Questa è anche la convinzione della Procura Generale del re, che chiede il rinvio a giudizio di Lorenzo e Antonio Golemme per rispondere del reato di omicidio volontario aggravato per la circostanza e l’intento, avendo ambedue concorso nella esecuzione del reato. È il 5 dicembre 1896.

I Giudici della Sezione d’Accusa sono più duri e, nel rinviare i due al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, scrivono: gravissimi sono gli indizi raccolti a carico di amendue gli imputati per ritenerli responsabili della strage del Tunno, commessa di concerto fra loro come cooperatori immediati a scopo di brutale e feroce collera e con sevizie sull’infelice.

Il 22 aprile successivo si apre il dibattimento. Dopo le rinunce dei difensori nominati dagli imputati, in aula si presentano gli avvocati Carlo Fazio per Antonio Golemme e Luigi Fera per Lorenzo Golemme. Ma sorge subito un’altra grana: anche questi rinunciano ed escono dall’aula. Resta però presente in aula l’avvocato Bernardino Alimena, associato alla difesa, e viene nominato anche un secondo difensore d’ufficio. Adesso si può cominciare. Poi, dopo la deposizione di alcuni testimoni, Fera rientra e dichiara di riassumere la difesa degli imputati per un imperioso sentimento di responsabilità che gli nascerebbe dal fatto di lasciare sprovvisti di difesa di fiducia gl’imputati in quest’ultima fase della lotta giudiziaria a loro carico. Il Presidente della Corte, allora, osserva che pur deplorando che niuna tassativa disposizione di legge impedisce ai difensori di rientrare in scena a loro piacimento, certo con discapito non mai dai Magistrati togati e di fatto, nulla meno in ossequio al sacro diritto della difesa intangibile e tenendo presente che l’imputato Lorenzo Golemme continuamente reclamava il difensore da lui prescelto, perciò non si oppone a che si ripresenti il signor Fera a discutere, non però quale avvocato principale della causa, non avendo assistito al dibattimento, ma quale altro avvocato nel modo stesso che si farebbe per chi poteva essere associato alla difesa e per tal motivo deve continuare ancora la difesa ufficiosa di cui è stato già incaricato l’avvocato Persiani. Seguono le rispettose proteste di Fera contro le parole del Presidente. E da adesso in poi sarà un continuo battibecco tra il Presidente e Luigi Fera, che ha il suo culmine nella comminazione di una sanzione amministrativa all’avvocato.

Dopo tre udienze, il 25 aprile 1896, la Corte emette la sentenza: Antonio Golemme viene assolto dall’accusa di concorso in omicidio, mentre suo zio Lorenzo viene condannato, escludendo l’aggravante delle sevizie, a 21 anni di reclusione, più pene accessorie.

La Suprema Corte di Cassazione, il 19 giugno 1896, rigetta il ricorso proposto dall’imputato e scrive la parola fine alla vicenda.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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