IL SUICIDA(TO)

È la sera del 30 gennaio 1948. In contrada San Benedetto di Acri sta cominciando a nevicare e la famiglia di Biagio Altomare sta cenando. Terminato il pasto tutti si siedono intorno al focolare a parlare del lavoro fatto e da fare, poi Biagio e il figlio maggiore Carmine si appisolano. Gli altri tre figli, Maria Grazia, Fiorino e Pietro vanno a dormire e li lasciano lì. Sono le 21,30 quando il sessantenne Biagio si sveglia, scuote Carmine e gli dice di andare a letto.

– Vai tu, io voglio stare un altro pochino al fuoco… – gli risponde con la voce impastata. Suo padre gli dà la buonanotte e va a dormire.

In contrada San Benedetto di Acri dormono tutti della grossa quando il silenzio ovattato della nevicata viene squarciato da una forte detonazione che rimbomba cupa come un tuono. Tutti saltano a sedere nei letti, svegliati di soprassalto. Il tempo di rimettersi dallo spavento ed ecco un’altra detonazione, questa volta, sembra, più leggera della prima.

Tutti capiscono che sta accadendo qualcosa e in ogni casa uomini e donne si rivestono in fretta e furia per andare a vedere. “Vedere” è un eufemismo perché la notte è nerissima e di tanto in tanto si accendono delle fiammelle. Sono i fiammiferi che cercano di squarciare le tenebre. Poi un urlo di disperazione e tutti si girano in quella direzione, la casa di Biagio Altomare. Ad urlare è stato proprio lui quando è inciampato in qualcosa di morbido ed è caduto. A tentoni ha capito che l’ostacolo è il corpo di un uomo, poi una fiammella tremolante illumina per un paio di secondi il viso sfigurato di Carmine Altomare.

Si accendono altri fiammiferi: il corpo è in posizione supina, leggermente girato verso il fianco sinistro. A pochi centimetri di distanza ci sono un fucile da caccia ad avancarica a due canne ed una rivoltella. Un paio di volenterosi partono alla volta di Acri per andare ad avvisare i Carabinieri, mentre intorno al cadavere si forma un capannello di curiosi.

È quasi l’alba dell’ultimo giorno del 1948 quando il Brigadiere Giuseppe Rizzo arriva sul posto con due Carabinieri, dopo quasi due ore di cammino a piedi sotto la nevicata, e comincia le indagini. Il militare osserva il foro di entrata di un proiettile nella tempia destra con labbra bruciacchiate dall’azione della polvere, ciò che dimostra di essersela prodotta col colpo del fucile, ed una ferita di entrata sotto il mento diretta in alto con foro di uscita nel cuoio capelluto. Il cadavere è completamente vestito con abiti militari, ad eccezione del cappello che è per civili.

Dalle prime indagini sembra evidente trattarsi di un suicidio, anche se sembra inverosimile che Carmine Altomare sia riuscito a spararsi una fucilata alla tempia, ma questo lo stabilirà, eventualmente, l’autopsia. Piuttosto, il Brigadiere si concentra su quelli che potrebbero essere stati i motivi all’origine dell’insano gesto. Così viene fuori che Carmine era stato catturato dagli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale e rinchiuso in un campo in Sud Africa.

– Diceva sempre che voleva tornare in Africa, che ne era rimasto affascinato… – ricordano sia i familiari che gli altri testimoni.

Attribuire il suicidio al mal d’Africa appare un po’ poco in verità. Poi vengono fuori il suo carattere taciturno e, soprattutto, una relazione intima con una donna sposata, Maria, il cui marito è da poco tornato dalla prigionia in Cirenaica e che durante l’assenza di quest’ultimo, addirittura, erano andati al comune per informarsi se potevano convivere more uxorio senza conseguenze.

Il fatto di avere una relazione con una donna sposata fa drizzare le orecchie al Brigadiere, che vaglia, oltre a quella del certo suicidio, due opposte ipotesi se non di omicidio, quanto meno di istigazione al suicidio. Prima ipotesi: il padre di Carmine è contrario alla relazione e litigano spesso, probabilmente hanno litigato anche la sera del 30 gennaio, così il giovane, da una parte esasperato dai continui rimproveri paterni e dall’altra frustrato nella sua voglia di vivere la sua vita con la donna che ama, si ammazza o, perché no, viene ammazzato dai suoi familiari, stanchi di sentirsi disonorati. Seconda ipotesi: una vendetta del marito di Maria il quale, appena tornato dalla prigionia e venuto a conoscenza del tradimento, ha affrontato Carmine che, vista sfuggirgli dalle mani la felicità, si è ammazzato o, perché no, è stato ammazzato dal marito cornuto.

Le dichiarazioni dei familiari di Carmine e di qualche testimone sono contraddittorie. Per esempio: è stato sentito prima il colpo di fucile o quello di rivoltella? La rivoltella era accanto al cadavere già dai primi istanti dopo gli spari o è stata messa lì ad arte da qualcuno più tardi? Questi dubbi invece di irrobustire i sospetti sulla morte di Carmine non vengono sciolti e si continua a propendere per la tesi del suicidio. L’unica cosa che, secondo gli inquirenti, non quadra è una piccola macchia di sangue da gocciolamento sul gradino di un magazzino a qualche metro dal cadavere: come ci è arrivata? Secondo il padre di Carmine ce l’ha portata lui stesso quando è inciampato nel cadavere e si è sporcato di sangue. Secondo il fratello Pietro è stato lui che si è sporcato una scarpa di sangue e ha toccato il gradino col piede. Secondo la logica non è stato nessuno dei due perché il sangue lì è gocciolato e non ci è arrivato per sfregamento.

Secondo gli inquirenti i fatti si sarebbero svolti così: Carmine decide di suicidarsi, si arma del fucile e della rivoltella ed esce di casa. Si siede a terra, si punta il fucile sotto il mento e si spara ma non muore. Non può spararsi di nuovo col fucile perché aveva carica solo una canna, quindi si punta la rivoltella alla tempia e finisce l’opera. Resterebbe da capire come mai Carmine abbia deciso di portarsi dietro sia il fucile che la rivoltella.

 Poi arrivano i risultati dell’autopsia:

il cadavere ha il viso e i capelli, che sono neri, imbrattati di sangue e di terra. Anche le mani e gli avambracci sono imbrattati di sangue e di terriccio. In corrispondenza della regione sotto mentoniera, sul lato destro, si nota un foro contornato da un alone nerastro, mentre nella regione temporale destra si nota una lacerazione della pelle, ricoperta di sangue coagulato. All’angolo labiale esterno destro si rileva una ferita lacera di circa 2 cm; altra ferita lacera interessa il labbro inferiore. Il naso presenta ancora altra ferita lacera che, dalla radice, raggiunge la narice destra. Alla palpazione delle ossa nasali si rileva la frattura di esse. Fratturate sono anche le ossa del mento, così come l’arcata mascellare superiore ed a vari frammenti sono attaccati i denti. Così per il mascellare inferiore.

A questo, il perito, per maggiore constatazione, fa lavare con acqua le macchie di sangue che coprono il viso del cadavere e constata che nella regione temporale, a circa tre centimetri dall’attacco del padiglione dell’orecchio destro, vi è un foro a margine lievemente frastagliato con la cute circostante normale per colorito. Il foro della regione sotto mentoniera è di forma circolare e ha margini netti nella metà posteriore e leggermente frastagliati nella sua metà anteriore. Detto forame è contornato da un alone nerastro largo circa un centimetro e mezzo nella parte del collo e di un mezzo centimetro circa sulla parte del mento.

Poi i periti aprono la scatola cranica: in corrispondenza delle due regioni temporali si notano due fori della grandezza di un occhiello di camicia. Si asporta la massa cerebrale e si seziona per la ricerca del proiettile e per meglio individuare il tragitto del proiettile stesso. Infatti, in una delle sezioni dell’encefalo sinistro e proprio alla fine del tragitto su menzionato, si rinviene nella massa cerebrale un proiettile di rivoltella, con una scheggia metallica. Il tragitto del proiettile era con direzione lievemente obbliqua in alto dal punto di entrata.

A questo punto i periti sono in grado di stabilire le cause della morte e come si sarebbero svolti i fatti.

Riteniamo che i due colpi, singolarmente, potevano determinare la morte quasi istantanea perché inferti in regioni molto vitali, considerando inoltre lo sfacelo dei tessuti nella cavità naso-boccale e nella regione sotto mentoniera (colpo di fucile) nonché le lesioni della sostanza cerebrale con vasi sanguigni (colpo di rivoltella).

Per quanto i colpi siano stati inferti in regioni solitamente usate dai suicidi, dato che i colpi sono stati singolarmente mortali, non riteniamo trattarsi di suicidio in quanto l’Altomare, dopo essersi inferto un primo colpo così grave e mortale, non poteva avere l’energia sufficiente e necessaria per infliggersi un secondo colpo e per di più con arma diversa.

Avendo notato, inoltre, che il forame di entrata della regione sotto mentoniera è circondato da un alone nerastro e i tessuti si presentano bruciacchiati (colpo a bruciapelo), mentre il forame della regione temporale destra non presenta né annerimento, né tessuti bruciacchiati, riteniamo che l’Altomare abbia ricevuto in un primo tempo un colpo mortale di rivoltella alla tempia destra e ad una certa distanza e che poi, allo scopo di simulare un suicidio, gli sia stato esploso a bruciapelo un colpo di fucile alla regione sottomentoniera. Questa si che è una ricostruzione logica!

Bisognerebbe approfondire, anche perché i Carabinieri della Compagnia di Cosenza segnalano un’attività molto sospetta: Pare che i parenti prossimi dell’Altomare si sian dati e si dian da fare per avvalorare l’ipotesi del suicidio, che il comandante di quella stazione sostiene malgrado il parere dei periti e le circostanze del fatto che l’Altomare si sarebbe ucciso adoperando due armi diverse.

Troppe contraddizioni, troppe incongruenze e troppi raggiri: l’indagine viene avocata dal Consigliere Istruttore presso la Procura Generale della Repubblica di Catanzaro e si ricomincia tutto daccapo ordinando la riesumazione del cadavere e una nuova perizia, poi vengono riascoltati familiari e testimoni. In attesa dei risultati della perizia, dalla deposizione di Maria Grazia Altomare, la ventiquattrenne sorella del morto, si viene a sapere un fatto nuovo e sconcertante:

Dopo un certo tempo dal decesso, lungo lo steccato sito a circa due metri dal posto dove fu rinvenuto il cadavere, io, mentre ero intenta a trasportare letame, notai e rinvenni un fodero di rivoltella che non era di cuoio, bensì di stoffa. Lo lasciai sul posto

– Lo avete rivelato a qualcuno?

Non parlai di questo rinvenimento a nessuno dei miei famigliari – poi aggiunge, come per instillare un sospetto –. Prima della morte di mio fratello, Maria Vitiritti veniva spesso a casa mia, successivamente non è più venuta e ha voluto creare una vera e propria inimicizia, tanto che incontrandoci non ci saluta, né ci rivolge la parola. La notte del decesso di mio fratello non si è fatta viva nonostante fosse stata chiamata, né il giorno dopo

Il Magistrato, a questo punto convoca il Brigadiere Rizzo per chiarire come mai non fu ritrovato il fodero della rivoltella:

Ho ispezionato la località il giorno successivo e ho posto tutta l’attenzione per rilevare le tracce di un eventuale delitto. L’ho fatto per un raggio di oltre duecento metri, meticolosamente, e non ho rivenuto nulla… se ho rilevato una macchia di sangue sullo scalino della stalla, tanto più avrei notato l’esistenza di un fodero di rivoltella!

Maria Grazia è smentita da suo fratello Pietro il quale dice di avere saputo da lei del ritrovamento del fodero.

– E perché non lo avete subito comunicato ai Carabinieri?

Pensavamo che la cosa non avesse nessuna importanza

Conclusione: se il fodero è stato davvero trovato a due metri dal cadavere, ormai è andato perduto e con il fodero anche la possibilità di sapere a chi apparteneva.

Il Consigliere Istruttore richiama Maria Vitiritti per sapere dei rapporti tra lei e la famiglia di Carmine, anche perché adesso comincia a farsi strada l’ipotesi che se davvero si tratta di omicidio, il sospettato principale è suo marito o qualche altro suo amante:

– Escludo che sia stato ucciso per ragioni di gelosia da qualche altro mio amante perché io non conoscevo altri uomini, soprattutto per il fatto che Carmine aveva espresso il proposito di vivere con me more uxorio

– Come erano e come sono i vostri rapporti con la famiglia Altomare?

Con la famiglia di Carmine io ero in ottimi rapporti di amicizia e così pure continuo a vedermi ed a salutarmi.

– I fratelli di Carmine dicono il contrario…

Si, è vero che non mi sono parlata più, ma ciò feci perché mi sembrava brutto

– Pensate che sia possibile che vostro marito l’abbia ammazzato?

– Assolutamente no! Mio marito è un timido semi idiota; durante la guerra è stato ricoverato pure in un manicomio… non ha armi… mi viene da ridere pensando che egli possa maneggiare un’arma dato ch’è timido come un ragazzo!

Il marito di Maria è il trentatreenne Pietro Spezzano e racconta al Magistrato, che constata con i suoi occhi e le sue orecchie la veridicità della descrizione fattane da Maria:

Sono ritornato dalla prigionia in Cirenaica nel dicembre del 1945. Convissi con mia moglie per sei o sette mesi, la resi incinta e nacque una bambina. Mi accorsi che mia moglie mi tradiva anche perché la trovai affetta di malattie veneree che mi contagiò. Tutti e due siamo stati sotto cura. Non si andava d’accordo e decidemmo di lasciarci. Quanto al decesso di Carmine Altomare nulla so, ho solo sentito dire che si è suicidato

Il 15 settembre 1948 arrivano i tanto attesi risultati della nuova perizia autoptica. Nelle 13 pagine scritte a macchina, il dottor Salvatore Guerrieri conclude: appare chiaro che pur essendo molto difficile ammettere il suicidio, questo non può essere escluso, come d’altra parte non si può escludere che la morte dell’Altomare Carmine sia dovuta ad omicidio. Tutto come prima e forse peggio di prima perché Guerrieri ammette la possibilità che Carmine si sia suicidato, senza spiegare come possa aver fatto. Allora si tenta l’ultima carta, una perizia balistica per stabilire a quanti centimetri di distanza la rivoltella trovata accanto a Carmine, sparando lasci il tipico alone bruciacchiato del colpo esploso a bruciapelo.

Al perito Antonio Pilò di Catanzaro viene dato l’incarico di eseguire con la rivoltella tre successivi tiri a distanza di cm. 20-30-40 dal bersaglio, rappresentato da cartoncino di colore grigio chiaro. Quando il perito tenta di sparare al bersaglio posto a 20 centimetri di distanza, la rivoltella fa cilecca per quattro volte consecutive. Alla quinta prova la rosa prodotta è evidentissima. Il secondo cartoncino viene messo a 30 centimetri e questa volta l’arma fa cilecca per sei volte consecutive, poi alla settima prova il colpo parte e l’alone questa volta è evidente ancora. L’ultima prova, quella fatta a 40 centimetri di distanza lascia una scarsa punteggiatura e difficilmente visibile. Ma adesso sorge un altro problema: perché l’arma ha difficoltà a far partire i colpi? Secondo il perito il percussore non raggiunge sufficientemente con la sua punta la cartuccia e quindi l’esplosione avviene quando il grilletto va ad urtare nel punto più sensibile della cartuccia. Tutto ciò, se da un lato conferma l’impossibilità di esplodersi un colpo alla tempia tenendo la rivoltella a circa 40 centimetri dalla testa, dall’altro evidenzia come sia altrettanto difficile che una persona punti quella rivoltella alla testa della vittima designata e spari facendo cilecca cinque o sei volte prima di riuscire a far partire il colpo e senza che l’altro reagisca. In realtà ci sarebbero due ipotesi alternative e cioè che per un caso fortunato l’assassino sia riuscito a sparare al primo colpo, oppure che sia stata usata un’altra rivoltella dello stesso calibro e quella mal funzionante sia stata lasciata sul posto per avvalorare il suicidio.

Siamo al 10 gennaio 1949 e nessuno ci ha ancora capito niente. Il Pubblico Ministero, adombrando sospetti sui rapporti tra Carmine ed i suoi familiari dovuti non solo alla relazione adulterina con Maria, ma anche a contrasti prettamente patrimoniali e ammettendo che gli elementi raccolti fanno ritenere più che attendibile, se non certa, l’ipotesi dell’omicidio, chiede di prorogare le indagini per scoprirne i responsabili, ma nulla si muove fino al 4 agosto 1950 quando il Consigliere Istruttore incarica formalmente delle indagini il nuovo comandante della stazione dei Carabinieri di Acri, Brigadiere Francesco Tallarico, il quale due giorni dopo gli invia un rapporto:

Mi sono recato in contrada San Benedetto, località in cui ebbe a verificarsi la morte del nominato Altomare Carmine e dalle ulteriori investigazioni e ricognizioni eseguite con interessamento e diligenza, non è stato possibile raccogliere elementi probatori tali da potere sicuramente far luce sulla morte stessa, sia perché il tempo trascorso (due anni e mezzo) ha reso maggiormente difficile il proseguimento delle indagini e sia perché nella zona tutti, indistintamente tutti, sono convinti che la morte sia dovuta a suicidio.

Sono state interrogate diecine di persone abitanti in contrada S. Benedetto ed esse hanno escluso in maniera categorica che l’Altomare sia stato ucciso dai familiari o da estranei, pur non sapendo trovare la vera causa che avrebbe spinto l’Altomare al suicidio.

Non ho raccolto a verbale le deposizioni delle persone che ho interrogato per Vostra espressa direttiva, essendovi riproposto di farlo Voi per vostro conto in seguito all’accesso che negli stessi giorni avete fatto nella predetta località.

E, in effetti, il Consigliere Istruttore esamina dodici testimoni e li mette anche a confronto tra di loro con gli stessi risultati ottenuti dal Brigadiere Tallarico: zero.

Le carte vengono accantonate in un angolo fino al 23 giugno 1951 quando la Sezione Istruttoria, su conforme richiesta del Pubblico Ministero, ordina trasmettersi gli atti in archivio.[1]

Nessuno saprà mai se Carmine Altomare si è suicidato o “è stato suicidato”.


[1] ASCS, Processi definiti in Istruttoria.

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