IL GIOCO DEL GATTO COL TOPO

Amantea, sera del 27 dicembre 1935. Il soldato Luigi Rizzo ha finito la licenza e deve rientrare al corpo di appartenenza, il XIX Reggimento Fanteria di Cosenza. Prima di partire ritiene doveroso andare a salutare le sue tre sorelle e i loro mariti e comincia dalla maggiore, sposata con Filippo Rizzo, un uomo malvisto da tutti per il suo carattere violento, ma pare che questa volta suo cognato sia di buonumore e gli offre del vino. Luigi ne beve un paio di bicchieri, invece suo cognato, al quale il vino piace assai, ne beve un buon litro, poi tutti e due vanno a casa della seconda sorella e qui, con l’altro cognato Benigno Simari bevono altro vino. Luigi e Benigno un bicchiere e Filippo ne tracanna un’altra forte quantità, tanto da camminare a mal reggersi: ubriaco fradicio, insomma. Resta l’ultima sorella. Luigi, Filippo e Benigno vanno tutti e tre. Per fortuna in casa di Vincenzo Andreani non c’è vino, così dopo i saluti di rito, tutti e quattro i cognati vanno alla stazione. Durante il tragitto Filippo, ubriaco, comincia a dileggiare  Benigno, il quale, prudentemente non gli dà retta e questo, forse, fa inasprire l’ubriaco che comincia ad esagerare.
Luigi è preoccupato, teme che, dai e dai, alla fine Benigno, nonostante il suo carattere mite, possa reagire allo sfottò di Filippo e venire alle mani.
– Vincè… vieni ché ti devo dire una parola da solo a solo – dice al cognato, che si avvicina – ora che parto, ti raccomando di non lasciarli mai da soli e di accompagnare a casa Filippo… lo sai come fa quando è ubriaco…
– Stai tranquillo, ci penso io…
Il treno arriva, Luigi sale e saluta i cognati dal finestrino mentre una nuvola di vapore lo avvolge. I tre cognati dal marciapiede ricambiano il saluto e si avviano verso casa. Filippo però non la smette di sfottere Benigno, ancora calmo. Costretto alla calma dalla differenza fisica con il cognato, evidentemente più forte, robusto e manesco di lui.
Per andare a casa di Filippo bisogna passare davanti alla casa di Benigno e quando i tre sono in quei paraggi, l’ubriaco dice:
– Benì, vai a prendere un paio di bottiglie così ce le beviamo qui…
Benigno, forse per ammansirlo e propiziarsene l’animo, ubbidisce subito e va a prendere due fiaschi da un litro e mezzo ciascuno. Filippo ne afferra uno e ne tracanna d’un fiato un mezzo fiasco, poi crolla a terra. L’altro cognato, Vincenzo, lo aiuta subito a rialzarsi, ma Filippo si offende e gli mette quasi le mani addosso; poi,  cambiando idea, gli stringe la mano e gli dice:
Non l’ho con te, ma con Benigno! – e, così dicendo, si scaglia contro il malcapitato con una violenza tale da farlo cadere a terra, buttandoglisi addosso.
Caduti a terra, Filippo prende Benigno per i testicoli facendogli fortissimo dolore.
– Lasciami! Lasciami! – urla con le lacrime agli occhi per il dolore. Filippo lo lascia e tutti e due si rialzano – Non permetterti mai più simili atti – continua Benigno, piegato in due.
Ma Filippo, per tutta risposta, lo afferra di nuovo per i testicoli, stringendoli più forte di prima. Benigno, con la coda dell’occhio, vede uno dei fiaschi di vino poggiato per terra a portata di mano, l’afferra e lo fracassa in testa al cognato, che è costretto a mollare la presa, premendosi le mani sulla testa sanguinante. Allora Benigno, approfittando del momento, gli si butta addosso e insieme rotolano per terra e rialzandosi per tornare a ricadere. Vincenzo cerca di intervenire per dividerli, ma i due sembrano un corpo unico e non ci riesce. Poi vede il luccichio di una lama e si allontana frettolosamente di qualche metro, quindi si volta e rimane sorpreso: a terra c’è Filippo, dal cui collo il sangue sgorga come uno zampillo e in piedi c’è Benigno che si sta allontanando di corsa.
Per Filippo non c’è più niente da fare: la coltellata gli ha reciso la carotide e la morte è quasi istantanea. A Vincenzo non resta che andare a svegliare il Maresciallo Caglioti e tornare con lui sul luogo del delitto. Accanto al morto, nella pozza di sangue, c’è il coltello a serramanico di genere vietato, che viene repertato. Poi partono le indagini che si concentrano sulle personalità della vittima e dell’assassino: il Rizzo Filippo era dedito al vino e quando era ubriaco diventava prepotente, irascibile, facile alle risse e per tali sue qualità veniva da tutti allontanato. Maltrattava spesso la moglie fina dal giorno del matrimonio. Un giorno in cui una sua figliuola ebbe a fratturarsi un braccio, mise del sale nella vulva della moglie, dicendole che come soffriva la figlia, doveva soffrire lei che non l’aveva sorvegliata. Nell’ubbriachezza profferiva sempre minacce contro il Simari Benigno. Questi invece era un buon elemento, lavoratore e di carattere mite, tanto da evitare sempre delle quistioni col cognato, nonostante fosse da lui continuamente minacciato.
Ma perché Filippo ce l’aveva tanto col mite Benigno?
Le ragioni, tutte futili, sono diverse. Intanto Benigno ebbe varie volte a rimproverarlo per i continui maltrattamenti che riservava alla moglie. Da qui un certo rancore che si è maggiormente acuito quando un fratello di Benigno a nome Giovanni ebbe ad uccidergli un cane sospetto di idrofobia, per avere poco prima morsicato la figlia al labbro. Perciò percosse violentemente il detto Giovanni, il quale lo ferì con un temperino al viso, onde egli ebbe a minacciare di morte tutti i componenti la famiglia Simari, compresi i gatti.
Benigno si costituisce direttamente nel carcere di Cosenza la mattina successiva al delitto, dopo aver camminato a piedi per tutta la notte. È un uomo distrutto, mai avrebbe immaginato di essere capace di dare la morte ad un suo simile, ma tutta la situazione diventa molto più chiara quando la vedova di Filippo viene convocata dal Pretore per chiarire alcune cose:
Non voglio costituirmi parte civile contro mio cognato che non meritava nemmeno di essere tratto in arresto… durante i nove anni di convivenza con mio marito fui sempre maltrattata con percosse giornaliere e spesso minacciata con armi da fuoco o col coltellaccio da cucina… spesso mi privava del necessario, costretta ad atti umilianti… – abbassa il capo e piange di vergogna, poi asciuga gli occhi col fazzoletto che tormenta tra le mani, si fa forza e continua, sa che deve continuare per far sapere a tutti chi era suo marito – una volta… una volta mi mise del sale nella vulva ed un’altra volta mi costrinse a denudarmi e volle che, nuda, saltassi sulle sedie e corressi per la stanza… come le scimmie del circo equestre…
La personalità perversa e brutale di Filippo, emersa da tutte le testimonianze, è chiara, come chiara è la mitezza caratteriale di Benigno. La dinamica dei fatti ricostruita dall’unico testimone oculare è chiara. Tutti aspettano il proscioglimento in istruttoria di Benigno per legittima difesa, ma il Giudice Istruttore non la pensa così, negando lo stato di legittima difesa sotto il riflesso che l’imputato, senza menomare la sua dignità, facilmente poteva scansare l’ucciso anche con la fuga, avendo da fare con un ubbriaco che mal si reggeva in piedi. Così, il 17 aprile 1936, Benigno Simari viene rinviato al Giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per omicidio volontario.
Il dibattimento si tiene nell’unica udienza del 3 luglio successivo. Vengono sentiti i testimoni che ripetono le dichiarazioni già fatte in istruttoria. Soltanto il testimone oculare Vincenzo Andreani, cognato della vittima e dell’imputato, e il Maresciallo Caglioti aggiungono qualcosa di nuovo che conferma la pericolosità di Filippo Rizzo:
Filippo Rizzo era un tipo violentissimo e mio cognato Benigno non poteva scappare perché era per terra ed avvinghiato dalle braccia di Filippo. Le coltellate furono date mentre erano tutti e due afferrati per terra – precisa Andreani.
E voi perché non siete intervenuto per dividerli? – gli chiede il Presidente.
Io non accorsi in aiuto perché ebbi paura. Sono padre di figli e non mi sono voluto esporre ad un serio pericolo… – confessa.
L’imputato, di fronte al morto era nulla sia per la statura che per la pericolosità del Rizzo – rincara il Maresciallo.
A questo punto anche il Pubblico Ministero si convince che per Benigno non c’era altra scelta e che il Giudice Istruttore non tenne in giusto conto che l’ucciso era tanto in forza ed agile che, con un semplice urto, fece cadere a terra l’imputato e gli fu subito addosso e che tosto che questi riuscì a liberarsi, lo riafferrò ributtandolo di nuovo a terra (come il giuoco del gatto col topolino) e per satanico desiderio di vederlo soffrire lo teneva stretto per i coglioni!. Ma la pronunzia del Giudice Istruttore è anche errata perché non si tenne conto che l’imputato, dagli ottimi precedenti, di animo mite al punto da subire – senza reazioni – minacce ed ingiurie atroci e di secondare i desideri del Rizzo, pur di rabbonirlo, procurandogli quei due fiaschi di vino che la gola insaziata di Rizzo ebbe a richiedere poco prima del delitto, si potesse ragionevolmente trovare quanto meno nello stato di legittima difesa putativa. Simari, trovandosi nella stretta del Rizzo, il quale per essere ubbriaco era per ciò stesso più sanguinario – come assicurano i testi escussi – sapeva di correre pericolo mortale ed imminente (anche perché il Rizzo poteva essere armato, come soleva) e poiché lo odiava, dovette in quelle congiunture aver la visione della morte e agì in conseguenza, divenendo violento, fino alla distruzione di colui che attentava alla sua vita. Tale stato psichico è perfettamente corrispondente allo stato giuridico di legittima difesa e l’imputato deve andare assolto.
La Corte accoglie parzialmente le richieste di assoluzione del Pubblico Ministero e della difesa e conclude:
Assolve Simari Benigno dall’imputazione di omicidio volontario ascrittogli in rubrica perché non punibile, avendo commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere la propria incolumità personale ma, considerato che egli, per avere asportato un coltello di genere proibito si è reso responsabile della relativa contravvenzione, deve andar punito e credesi equo condannarlo a mesi uno di arresti e al pagamento delle spese processuali ed a quelle della propria detenzione entro i limiti della pena inflittagli.
In tutto questo, la Corte tiene a specificare che le testimonianze raccolte, sia in fase istruttoria che dibattimentale, sono un coro di deplorazioni alla memoria del morto, sulla cui tomba non è caduta una sola lacrima.[1]

 

[1] ASCZ,
Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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