LA TUTELA DEL PROPRIO ONORE

La porta della cantina di Raffaele Lattari, ubicata in Piazza dell’Olmo dell’abitato di Cervicati, si spalanca facendone tintinnare i vetri. Tutti gli avventori si girano e vedono sulla soglia, a gambe leggermente divaricate e i pugni sui fianchi, il diciannovenne Lorenzo Grisolia il quale, guardando in direzione di una brigatella di giovani, urla:
Se c’è qualche cornuto, che esca!
– Se non la finisci ti rompo il culo! – gli risponde, alzandosi in piedi, il ventisettenne Giuseppe Gramano, meglio conosciuto con nomignolo di Antamile; stanco delle continue molestie di carattere sessuale che Grisolia riserva a sua sorella Bombina.
Fra i due si accende una baruffa, presto sedata dagli astanti, e sembra che tutto finisca lì, sull’imbrunire del 6 maggio 1928.
Invece no. Grisolia, da mafioso prepotente quale si atteggia, non sopporta che Gramano gli si sia rivoltato contro e lo abbia pubblicamente colpito con un paio di schiaffi prima che i presenti riuscissero a separarli. Così la mattina del 7 maggio va sotto il balcone della casa abitata dai Gramano e, con fare da bravo, comincia ad invitare il suo rivale a scendere in strada:
Curnutu! Scinna! Scinna perché oggi dobbiamo farla finita! – Ma Domenico prima non gli dà retta, terminando tranquillamente di lavarsi il viso, poi lo invita ad andarsene:
Ma vattene, vattene, perché ti devi fare ammazzare da me?
Lorenzo, imbestialito, raccoglie da terra due sassi, li lancia contro il balcone e ne rompe i vetri. A questo punto, Giuseppe, insultato la sera precedente e quella mattina, perde la pazienza e, affacciatosi al balcone armato di una rivoltella, spara due colpi contro l’avversario colpendolo di striscio ad una natica.
Da mafioso, Grisolia non sporge querela, si cura le ferite e fa finta di niente. Forse un po’ si vergogna di essere stato per ben due volte pubblicamente umiliato da un giovane mite come Giuseppe Gramano, o forse scientemente fa il finto tonto meditando vendetta. Intanto si diverte insieme con Ruggero Mungo, il suo inseparabile compagno di merende, a cantare canzoni di sdegno sotto la casa dei Gramano per offendere Giuseppe:
Nun sugnu cappucciu che in piazza mi vendo
Nemmenu foglia per mi cucinare
Ci vò gran ligna di centu quintali
E cu na scala ci ‘nchianu e ci scinnu
E tu cu cientu non ci poi chiavari
Oppure per offendere Bombina:
Facci di crita ammassata cu terra
Si stata fatta cu lu scattamarru
Di dù ci passi tu ci ‘ntinna guerra
Manarè, i santi muarti e chi ti parru
È il 20 giugno 1928, la notte è calata da poco. Alberto Ricioppo si sta godendo il fresco davanti casa sua, distante poche decine di metri dalla strada provinciale che da San Marco Argentano porta a Cervicati. Sempre più chiaramente sente il rumore di zoccoli e il cigolio delle ruote di un carro che si avvicinano e poi la voce inconfondibile di Giuseppe Gramano che canta stornelli intarsiati d’amore mentre a bordo del suo carretto sta tornando a casa. Ricioppo sorride alle strofe cantate da Gramano, mentre ampie volute di fumo escono dalla sua bocca. “Ecco”, pensa Ricioppo mentre la voce di Gramano si fa man mano più lontana, “adesso deve essere arrivato sotto San Rocco, dove comincia la salita… adesso prende la curva e poi non si sentirà più niente”. Sorride compiaciuto quando, come previsto, il canto e il rumore delle ruote non si fanno più sentire.
Anche Enrico Puzzo la sera del 20 giugno 1928 sta prendendo il fresco seduto sul balcone di casa sua e sente Giuseppe Gramano cantare e poi, come Ricioppo, non lo sente più. Puzzo prende un fiasco con acqua fresca e ne beve un sorso. Una detonazione gli fa quasi andare l’acqua di traverso. Sta per accostare di nuovo il fiasco alle labbra quando sente un secondo colpo di fucile. In quello stesso momento, Alberto Ricioppo  sta aspirando il fumo dal sigaro che gli va di traverso quando nelle orecchie gli rimbombano le due detonazioni provenienti dal punto dove deve trovarsi il carro di Giuseppe Gramano.
Ore 20,45 del 20 giugno 1928. Piazza dell’Olmo a Cervicati è piena di gente che discute divisa in gruppi. Vincenzo Puzzo sta parlando con i fratelli del raccolto, quando sente i due colpi di fucile esplosi in rapida successione dalla parte di San Rocco. L’uomo è preoccupato perché i colpi provengono dalla zona dove abita suo figlio Enrico e si incammina lungo la strada provinciale per andare a vedere cosa è successo, quando incontra il traìno di Giuseppe Gramano che procede lentamente verso Cervicati:
AntamìAntamì… hai sentito le fucilate? – chiede, ma nessuno gli risponde – Antamile
Nel buio quasi totale di quella notte senza luna, Vincenzo Puzzo si accorge che alla guida del traìno non c’è nessuno. Continua a camminare non volendo credere al sospetto che gli sta opprimendo il cuore, poi inciampa.
Inciampa nel corpo di Giuseppe Gramano, crivellato di ferite e già cadavere. Puzzo non può fare altro che urlare al soccorso più forte che può e, poco dopo, buona parte del paese è sul posto.
I Carabinieri di San Marco Argentano, subito avvisati del fatto, arrivano prima di mezzanotte. Fanno triste veglia al cadavere oltre un centinaio fra uomini e donne, compresi i familiari dell’ucciso. Vedendoli arrivare, tutti in coro prendono ad imprecare a gran voce contro gli assassini, designandoli decisamente pel Grisolia Lorenzo e pel compagno di belle gesta Mungo Ruggiero.
Sul posto vengono repertati due dischetti di carta, facenti parte di un “tacchetto” sfogliatosi, uno stoppaccio di carta, annerito da recente esplosione, un berretto con visiera foracchiato da proiettili, un sacco vuoto e numerose macchie di sangue al suolo. Poi il Maresciallo Maggiore Giuseppe Martino va in Piazza dell’Olmo, dove gli hanno detto di aver legato il mulo col traìno di Gramano e annota che la parte posteriore di esso porta tracce visibili di sangue non ancora annerito.
Le ricerche per arrestare i due sospettati sono vane e i Carabinieri trovano molto sospetto il fatto che la madre di Lorenzo Grisolia, Teresa Ruffolo, nonostante la mezzanotte sia abbondantemente passata, sia sveglia e ancora vestita, come se aspettasse la loro visita. La donna dice di non sapere dove sia suo figlio e perché ancora non si sia ritirato a casa. Non sa nemmeno spiegare che fine ha fatto il fucile a retrocarica a due canne che soleva stare appeso ad una parete vicino al letto, com’è a loro conoscenza. L’unica cosa che Teresa Ruffolo dice è che verso le 21,15 si era presentata a casa sua la madre di Mungo per domandare nuove del proprio figliuolo Ruggiero e di suo figlio Lorenzo.
Le ricerche proseguono, ma i due sembrano svaniti nel nulla. Sospettando che le madri dei due ricercati siano implicate nel delitto, i Carabinieri le mettono agli arresti.
San Marco Argentano, 23 giugno 1928, ore 12,15, tre giorni dopo il delitto. Qualcuno dice al Maresciallo Martino che Ruggero Mungo è stato visto pochi minuti prima nei pressi della Pretura. Martino e due Carabinieri  corrono e si mettono a cercarlo. Pare che sia entrato nell’edificio giudiziario. Si, è vero: Ruggero Mungo è seduto su di un banchetto nella sala delle udienze pretorili. Lo invitano a declinare le proprie generalità e lui aggiunge:
Mi ha condotto qui l’avvocato commendatore Posteraro che ora trovasi nel Gabinetto del Signor Pretore ove si sta interessando per la mia costituzione
Ma siccome formalmente la costituzione non è ancora avvenuta, Martino gli fa mettere i ferri e lo porta in caserma per interrogarlo. Si fa presente che dopo circa 15 minuti che era stato rinchiuso nella camera di sicurezza venne tradotto nanti l’Ill.mo Sig. Pretore di questo mandamento, dietro sua richiesta verbale. Evidentemente il Pretore se l’è presa!
La sera del 18 mi trovavo in compagnia di Lorenzo Grisolia in piazza; incontrammo Giuseppe Gramano il quale ci disse: “Cosa andate facendo?” e poi, rivolto a Grisolia,”Se l’altra volta l’hai passata liscia, questa volta ti finisco” e mostrò a noi una rivoltella. Alla vista di questa noi scappammo… anzi Gramano mi diede due cazzotti… la sera del 20, io e Grisolia, verso le 8,30, dopo essere stati in piazza, ci avviammo verso la strada che mena a San Marco per passeggiare. In quel mentre si ritirava da San Marco il Gramano. “Cosa fate qui? Ad ogni posto trovo a voi?” ci apostrofò e Grisolia rispose: “Non possiamo stare neppure qui?” e Gramano, di rimando: “Né qui, né in altra parte!”. Noi, a questo punto, stavamo per andarcene quando Gramano disse: “Aspetta che ti faccio vedere io!” e fece segno di volere estrarre qualche arma. Lorenzo, senza por tempo in mezzo, estrasse una pistola a due canne caricata a pallini ed esplose due colpi a Gramano… scappammo e vagammo per la campagna…
La sera dello stesso giorno arriva un telegramma da Cosenza con il quale si avvisano le autorità che Lorenzo Grisolia si è costituito in Questura:
– Mercoledì 20 passeggiavo col mio amico Ruggero Mungo sulla provinciale per San Marco quando vedemmo venire verso di noi Giuseppe Gramano. Io, nel maggio ultimo, ero stato fatto segno a persecuzioni e minacce da parte di Gramano, che culminarono con l’esplosione contro di me di due colpi di rivoltella. Non ho potuto mai sapere le ragioni delle persecuzioni contro di me e nonostante non mi fossi querelato contro Gramano, egli non aveva desistito dal suo atteggiamento minaccioso. Quando lo incontrammo, io e Mungo cercammo di andarcene per i fatti nostri, ma egli ci apostrofò con le parole: “questi muli fregati ancora si fanno vedere in giro per le strade!”. Io gli risposi che almeno mi avesse consentito di girare fuori il paese ed egli di rimando m’ingiungeva di non girare in nessun dove, nel mentre faceva atto di scendere dal carretto estraendo la rivoltella. Io ebbi timore che potesse ripetere l’insano gesto di maggio e poiché mi ero armato di una pistola a due canne ad avancarica, caricata da me a pallini da tempo, esplosi l’arma contro di lui e subito mi diedi alla fuga vagando per la campagna
Due mammolette innocenti dalle cui dichiarazioni si capisce benissimo che Grisolia avrebbe sparato a Gramano standogli di fronte; riusciranno a  spiegare come è possibile che la vittima sia stata colpita da sette pallini nelle regioni occipitale e cervicale, distanti l’una dall’altra da 3 a 5 centimetri, quindi esplosi a breve distanza e alle spalle?
L’arma usata, come dimostrano i resti delle cartucce, non è stata una vecchia pistola ad avancarica, ma un fucile da caccia. Sono in grado di fornire spiegazioni? No, non sono in grado.
Intanto si scopre che non è affatto vero che i due assassini hanno vagato per le campagne durante la breve latitanza. No, se ne sono stati tranquillamente in un albergo di Cosenza con i soldi forniti da uno zio di Lorenzo Grisolia, dopo aver candidamente raccontato a un gruppo di giovanotti fermi nei pressi della stazione ferroviaria di Mongrassano l’omicidio appena commesso.
Ma i Carabinieri, per ricostruire per bene il movente che ha portato all’omicidio di Giuseppe Gramano, cominciano a indagare sui fatti avvenuti il 6 e il 7 di maggio e scoprono che quando Lorenzo Grisolia andò sotto casa dei Gramano e ruppe i vetri del balcone a sassate provocando la reazione di Giuseppe, che lo ferì a revolverate, era presente la madre di Grisolia, Teresa Russo, che incitava il figlio.
Ho inteso sulla strada Teresa Ruffolo che, evidentemente rivolta al figlio Lorenzo, gridava: “Voltati, queste sono cose che debbo vedermele io!”. Il figlio rispose: “Ieri per me è stata festa e oggi sarà nuovamente festa!”. Dopo qualche minuto ho inteso sparare due colpi di rivoltella e poscia Grisolia gridare: “Cornuto! Tu col revolver ti vuoi cacciare le corna? Va bene!”. ho aperto la finestra e ho visto che la Ruffolo tirava per un braccio il figlio dicendo: “Sei grande e grosso e non ti sai rendere le ingiurie!” – racconta Amalia Puzzo.
Teresa Ruffolo gridava, rivolta al figlio: “Si deve fare finita! Tu ti devi vendicare!” – ricorda Anna Marchianò.
Queste testimonianze convincono gli inquirenti che Teresa Ruffolo ha rafforzato nel figlio la determinazione a compiere il delitto e, quindi, viene di nuovo arrestata e ne viene chiesto il rinvio a giudizio per concorso in omicidio, insieme agli altri due imputati.
Ma il 24 aprile 1929, la Sezione d’Accusa accoglie solo parzialmente le richieste della Procura Generale del re e dichiara non doversi procedere nei confronti di Teresa Ruffolo per insufficienza di prove. A sedere sul banco degli imputati saranno suo figlio Lorenzo e Ruggero Mungo.
Per arrivare a sentenza ci vorrà il 13 febbraio 1931, quando la Corte d’Assise di Cosenza condanna, per omicidio volontario premeditato e con la concessione delle attenuanti generiche, Lorenzo Grisolia a 20 anni e 10 mesi di reclusione, più pene accessorie. Condanna Ruggero Mungo, per concorso in omicidio premeditato e con la concessione delle attenuanti generiche e della minore età, a 5 anni di reclusione. Il 27 aprile successivo la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso degli imputati.
Dopo la condanna del figlio, il contegno aggressivo e poco riguardevole di Teresa Ruffolo nei confronti di Bombina Gramano si accentua. Ogni volta che la incontra per strada la aggredisce verbalmente chiamandola, nel migliore dei casi, puttana e la ragazza, per evitare di litigare, addirittura va ad attingere acqua ad un’altra fontana più lontana e percorre una via diversa per recarsi all’orto di famiglia. Poi tra Cervicati e San Marco Argentano comincia di nuovo a spargersi la voce che Lorenzo Grisolia, il figlio carcerato di Teresa e assassino del fratello di Bombina, prima dell’omicidio l’aveva sverginata. Tutti sospettano – sarebbe meglio dire “sanno” – che la fonte di questa diceria è Teresa Ruffolo, ma nessuno se ne cura perché nessuno ci crede in quanto la ragazza era generalmente stimata per una giovanetta onesta. Ma, nonostante ciò e a causa di ciò, Bombina perde l’occasione di parecchi partiti di matrimonio: meglio non rischiare di essere chiamato cornuto, hanno pensato i giovanotti che si sono ritirati in buon ordine. Questo stato di cose doveva produrre nell’animo di Bombina uno stato d’ira determinato dall’amor proprio offeso di giovane onesta, che vede crescere gli anni e sfuggirle l’occasione di sistemarsi. Giorno dopo giorno la situazione rischia sempre più di esplodere.
È il 26 dicembre 1931. Teresa Ruffolo sta tornando dalla campagna con due suoi figliuoli. Bombina questa volta non può cambiare strada e procede dietro la donna spingendo un asino. È più veloce, la raggiunge e Teresa, borbottando, si scansa per dare passaggio libero a Bombina.
– Arri… arri… camina! – la ragazza, per aumentare ancora l’andatura e togliersi da quell’impaccio, sprona l’asino battendogli sulla groppa con il manico della scure che porta con sé, per questo incita l’animale con un’espressione inusuale e colorita – chi ti vò spezzare a due!
Teresa, credendo che queste parole sia rivolte a lei ribatte:
Camina… camina… ‘un ti dolissi la trippa… qualche giorno o io o tu dobbiamo scomparire!
Bombina, che intanto ha superato Teresa di qualche metro, sente e il tono usato dalla donna le sembra una chiara minaccia. Si ferma, lascia l’asino e torna sui propri passi. Adesso le due donne sono l’una di fronte all’altra e si guardano in cagnesco. Niente di buono si prospetta. I due figli di Teresa sembrano non badare alla tensione tra le due donne e sbuffano posando per terra i sacchi di cui sono carichi.
Attimi che sembrano un’eternità, poi Bombina, fulmineamente, brandisce la scure che ha in mano e colpisce con violenza l’avversaria alla testa. Teresa stramazza al suolo ma la ragazza non se ne cura e continua a colpirla sulla testa altre due, tre, quattro volte finché non sente le ossa del cranio fracassarsi e tutto intorno schizzare sangue e pezzi di cervello.
Riprende fiato, poi dà un colpo all’asino col manico della scure per farlo allontanare e lei se ne va a casa da una scorciatoia.
I due figli di Teresa continuano a restare immobili sul posto come imbambolati e restano lì a guardare il sangue schizzare dappertutto.
Dietro di loro, mentre Bombina uccideva Teresa,  però, sopraggiungeva una compaesana, Cristina Formoso, che ha visto tutta la scena e corre in paese ad avvisare la guardia municipale Carmine Lattari il quale, a sua volta, va a casa della ragazza, la trova e la dichiara in arresto. Poi si preoccupa di avvisare i Carabinieri di San Marco.
– Non ce l’ho fatta più… quando mi ha detto che o io o lei dovevamo scomparire ho pensato alla fine che suo figlio ha fatto fare a mio fratello e ho avuto paura di quella minaccia… e poi lei continuamente mi offendeva con parole brutte, sempre con quella calunnia che suo figlio mi aveva sverginata… con quelle provocazioni… mi dispiace, ma non ce l’ho fatta più…
L’istruttoria è veloce e tende soprattutto a stabilire come debba essere rubricato il delitto, considerate le eventuali aggravanti e attenuanti.
L’arma adoperata, i reiterati colpi inferti, le regioni prese di mira e le gravi conseguenze riscontrate dal sanitario che giudicò le cinque ferite tutte mortali, dimostrano la volontà omicida della imputata. È con l’accusa di omicidio volontario che la ragazza viene rinviata al giudizio della Corte d’assise di Cosenza.
Il dibattimento si tiene il 13 maggio 1932 e Bombina, interrogata, mantiene fermo il suo interrogatorio scritto, dichiarando di essersi pentita di quello che avea commesso e di essere disposta a subire un’ispezione corporale per dimostrare la sua integrità fisica. La difesa cerca di percorrere la strada dell’incapacità di intendere e volere nel momento in cui commise l’omicidio, ma la Corte rigetta la richiesta motivando che Bombina Gramano agì con piena capacità dì intendere e di volere e ciò rilevasi dal suo comportamento abbastanza calmo tenuto successivamente dopo il fatto commesso.
Ascoltati molti testimoni, emerge chiaramente che Bombina agì per un motivo di particolare valore morale e anche in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui, cioè la diffamazione, le minacce e le provocazioni subite da parte di Teresa Ruffolo. Adesso è certo che a propalare il fatto diffamatorio non poteva essere stata che Teresa Ruffolo. Che si sia trattato di una diffamazione è provato dall’accertata verginità di Bombina e risultano vere anche le proposte di matrimonio, ritirate proprio a causa della diffamazione.
Incassate queste decisive attenuanti, Bombina può tirare un mezzo sospiro di sollievo quando la Corte si ritira per decidere la sua sorte.
Se il 26 dicembre la Bombina Gramano fu spinta al delitto, devesi ritenere di avere agito anche per la tutela del proprio onore che, per una fanciulla onesta, è motivo di particolare valore morale. Il 26 dicembre fu l’epilogo dell’odio esistente tra la Gramano e la Ruffolo. La Gramano, in quel giorno, fu ingiustamente provocata dalla Ruffolo e reagì in stato d’ira che già preesisteva nel suo animo. La Gramano merita di essere creduta perché ritornò sui suoi passi e colpì fulmineamente ripetute volte la sua nemica. Ed è credibile anche per la considerazione che essa, quasi immediatamente dopo il fatto, venne arrestata, mancandole così il tempo di consultarsi e preparare la sua difesa. Le parole pronunziate dalla Ruffolo, oltre a contenere una grave minaccia, rafforzavano nella mente della Gramano la convinzione che era stata proprio essa la fonte della diffamazione che circolava in paese.
La Corte, avuto riguardo ai buoni precedenti dell’imputata, alle circostanze tutte in cui il fatto avvenne, e alle sue condizioni sociali, dichiara Gramano Bombina colpevole del reato ascrittole con le diminuenti di aver agito per motivi di particolare valore morale e in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e reputa idonea la pena di anni ventuno di reclusione; questa pena, diminuita di un terzo per le due attenuanti concesse, si riduce ad anni nove e mesi quattro, più le pene accessorie, le spese e i danni da risarcire alle parti civili.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali per quanto riguarda il procedimento contro Lorenzo Grisolia e Ruggero Mungo
  ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza per quanto riguarda il procedimento contro Bombina Gramano.

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