LO STRANO CASO DEL VECCHIO SCANNATO

Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1930 una tempesta di vento imperversa nel tratto di costa tra san Lucido e Fiumefreddo Bruzio. Fortunato Mazza, 85 anni, sta dormendo nella sua camera al primo piano della sua grande casa colonica, una vera e propria torre merlata, nella  campagna di Torremezzo di Falconara. Al piano terra dorme la sua domestica, la settantacinquenne Carmela Esposito. Ad un certo punto il vento si fa così impetuoso che Carmela si sveglia temendo che alcuni pezzi di lamiera, che coprono il terrazzo prospiciente la camera del padrone, stiano volando via. È  indecisa sul da farsi, poi il rumore di passi di persone munite di scarpe chiodate la convincono ad alzarsi e salire: “Che cosa si è alzato a fare con questo tempo? Mò insieme alle lamiere il vento si vola pure a lui!” pensa Carmela mentre sale le scale.
Padrò… padrò… – lo chiama, ma senza ottenere risposta. Sentendo ancora rumore di passi, indugia qualche secondo sotto la botola che, dallo scalandrone, immette nella stanza da letto del padrone. Forse si sta vestendo. Poi ha la sensazione che nella stanza stiano camminando almeno due persone e ciò non è possibile, qualcosa non quadra. Solleva la botola ed entra. Tutto è buio. Carmela chiama di nuovo – Padrò… padrò… – nessuna risposta.
A tentoni trova il letto, ci gira intorno tastando le coperte. Tocca i piedi del padrone. Si tranquillizza e va avanti fino a toccargli le spalle per scuoterlo e svegliarlo. Il vecchio non si muove. Poi una folata di vento fa sbattere la porta che dà sul terrazzo e questo non va proprio bene perché quella porta è sempre sbarrata dall’interno con tre pali di legno ed è impossibile che ad aprirla sia stato il vento. Carmela teme che sia accaduta qualcosa di grave, ma lei è una vecchia sola e non può fare altro che ridiscendere lo scalandrone, mettersi un paio di scarpe, indossare qualcosa e andare a chiamare i coloni, abitanti poco distanti.
Angelo Carbone e Francesco Malito corrono subito e fanno il giro esterno della casa per entrare nella stanza del vecchio Mazza ma, quando davvero la trovano aperta come ha detto Carmela, si rifiutano di entrare e vanno a chiamare Carmine Vommaro. Tra una cosa e l’altra, solo alle prime luci dell’alba viene presa la decisione di entrare nella stanza di Fortunato Mazza.
– È morto! – esclama Malito coprendosi il volto con le mani e uscendo di corsa – andiamo a chiamare i parenti…
I parenti di Fortunato Mazza sono la sorella Enrichetta, 85 anni e 5 nipoti diretti, 3 femmine e 2 maschi, figli della buonanima di suo fratello Giuseppe, che abitano tutti insieme in un ampio edificio del borgo di Fiumefreddo: Alfonso, 55 anni, sposato con 3 figli ancora in tenera età; Eugenio, 51 anni, sposato senza figli; le nipoti, tutte signorine, Clementina, 64 anni, Angelica, 62 anni, Vincenzina, 49 anni.
Quando arriva Eugenio, sono ormai le 7,00, trova la porta del terrazzino aperta e lo zio nel letto, coperto fin quasi sulla testa con una pesante coltre. Tutto è in disordine, quasi come se il vento della notte appena trascorsa fosse entrato nella camera e fosse diventato lì dentro un uragano: biancheria per terra, cassetti buttati all’aria, sedie e tavoli rovesciati. Poi gli occhi gli vanno alla parete dietro al letto dove vede un arabesco di sangue che lo fa sobbalzare. Un po’ più in là, impronte di mani insanguinate. Tutto ciò gli sembra in netto contrasto con la posizione tranquilla del cadavere nel letto. Quasi che sia passato dal sonno alla morte senza accorgersi di nulla. Si avvicina, vede la testa canuta dello zio e l’espressione distesa del volto, ma sul cuscino c’è il segno inequivocabile della morte violenta: l’inizio dello schizzo di sangue che ha disegnato l’arabesco sul muro. Si ritrae terrorizzato, ha conati di vomito ed esce di corsa sul terrazzino proprio mentre arrivano i Carabinieri  della stazione di Fiumefreddo comandati dal Maresciallo Maggiore Emilio Guagliani, seguiti dal medico condotto, dottor Eugenio Tarsitano.
I Carabinieri trovano la stanza piena di curiosi e la prima cosa da fare è farli allontanare in fretta, sperando che nessuno, approfittando della confusione, abbia rubato qualcosa. Ristabilito l’ordine, si può passare ad ispezionare il cadavere e fare una stima di ciò che è stato rubato, perché è molto probabile che si sia trattato di un furto finito in tragedia. A meno che non si sia trattato di un omicidio premeditato, camuffato da furto. Si vedrà.
Una ferita nel labbro inferiore lunga cinque centimetri; una ferita nella regione mentoniera di circa quattro centimetri profonda fino all’osso; una ferita nella regione del mascellare inferiore sinistro della lunghezza di circa quindici centimetri; una ferita nella regione antero-laterale sinistra del collo di dodici centimetri di lunghezza; un’altra ferita nella zona antero-laterale sinistra del collo di dodici centimetri, parallela alla precedente. Queste due ultime ferite hanno reciso la trachea e tutti gli importanti vasi della regione.
Il dottor Tarsitano conclude che l’attento esame non fa rilevare sul cadavere alcuna traccia che possa far pensare ad un traumatismo per resistenza o per colluttazione. Il povero Fortunato Mazza non si è accorto di niente.
Dall’ispezione del fabbricato si capisce subito come gli assassini – perché è certo che debbano essere state almeno due persone a combinare tutto – siano riusciti ad entrare in casa: dal primo pianerottolo esterno i delinquenti si erano dovuti arrampicare su di un grosso ramo di albero infisso nel muro, sostenente un intreccio di canne a mò di pergolato, poscia si erano arrampicati sul parapetto del terrazzo e, da questo, mediante una scaletta vecchia con pochi piuoli, esistente in luogo, si erano arrampicati ancora su di un altro legno messo appositamente in un buco della muratura. Da questo, facilitati dall’esistenza di altri due buchi soprastanti, erano potuti arrivare sull’angolo del tetto, lato ovest, e proprio nella parte più bassa del soffitto vi avevano praticato un buco, sufficiente a permettere il passaggio di una persona, mediante lo scoprimento delle tegole rimaste sul posto e la rottura di due fascetti di canne che servivano a reggere le tegole.
Ascoltato il racconto della vecchia domestica, il Maresciallo Guagliani, nel frattempo raggiunto dal Maresciallo Vincenzo Rocco, comandante la stazione di San Lucido, comincia ad avere il sospetto che la donna sappia più di quello che dice. Con tutta quella confusione di sedie e tavoli rovesciati, roba all’aria, tegole scoperchiate e via dicendo, come è possibile che ha sentito solo dei passi?
In caserma, al calduccio, la donna ragionerà meglio.
Ci vuole un po’ di tempo, ma poi, al secondo tentativo, sembra che i ricordi della notte le tornino più vividi e precisi:
Non potevo sentire i rumori prodotti dallo scoperchiamento del tetto per il rumore del vento. Quando udii camminare nella camera del padrone e mi sembrò che erano due persone. Chiamai il padrone due volte ma nessuno rispose. Quando mi accorsi che non si camminava più, all’oscuro a tentoni, scalza, trovai la scala interna e pian piano salii. Trovai il portello chiuso e lo sollevai leggermente senza far rumore, per vedere se il padrone dormisse o meno. Mentre ero ancora sulla scala, notai ai piedi del letto del mio padrone, dalla parte della porta d’ingresso, un uomo il quale disse all’indirizzo di un altro, che non viddi: “Ammucciati… ammucciati!”. Riconobbi subito nell’individuo che aveva pronunziato le parole, il nipote del mio padrone e cioè don Alfonso Mazza-
– E come l’avete riconosciuto se era tutto buio?
Lo distinsi perché da quella parte vi era chiaro di luna e ne ebbi la certezza quando giunsi vicino al letto e urtai con la mano per chiamare il padrone e notai la porta spalancata. Don Alfonso aveva in testa il berretto e notai i suoi capelli bianchi. Mentre chiamavo nuovamente il padrone, don Alfonso mi fece segno con la mano destra di zittire e di allontanarmi. Impaurita, mi allontanai subito per lo scalandrone lasciando don Alfonso allo stesso posto in cui l’avevo visto. Appena discesa nella mia camera, aprii la porta e me ne andai a svegliare Angelo Carbone
– Ma né Carbone e né gli altri che avete chiamato in aiuto ci hanno detto che avete riconosciuto Alfonso Mazza…
A costui come agli altri non dissi niente di quello che effettivamente avevo visto per tema che lo dicessero e la peggio sarebbe stata la mia perché, certamente, in seguito mi avrebbero ucciso
Ma a qualcuno viene in mente che don Alfonso Mazza, a cinquantacinque anni suonati e malato, in una notte spazzata da un fortissimo vento, avrebbe avuto qualche difficoltà ad arrampicarsi lungo il muro di quella che è una torre merlata, alta complessivamente nove metri e mezzo? A qualcuno viene in mente che a don Alfonso Mazza, ammettendo che sia riuscito nell’arrampicata, vistosi scoperto dalla vecchia, sarebbe riuscito molto più semplice e sicuro ammazzare anche lei eliminando l’unico testimone che poi l’avrebbe denunciato?
No, a nessuno viene in mente e don Alfonso finisce in galera. Ma in galera ci finiscono anche suo fratello Eugenio ed un’altra quindicina di persone sospettate a vario titolo di essere implicate nel delitto.
Secondo gli inquirenti, ciò che inguaierebbe don Alfonso, soprattutto, e suo fratello don Eugenio sarebbe il testamento dello zio, ma bisogna tornare indietro di un paio di anni.
Nei primi giorni del mese di maggio 1929, Fortunato Mazza si ammalò ed il giorno 15 di quel mese, a mezzo del notar Melicchio di San Lucido, fece pubblico testamento nella sua stessa abitazione, nominando ed istituendo erede universale e particolare di tutti i suoi beni, senza esclusione alcuna, il suo amato nipote Eugenio il quale era già proprietario di fatto dei beni perché ne era l’amministratore. Redatto il testamento, Eugenio convinse lo zio a lasciare la casa colonica di Torremezzo e a trasferirsi in paese a Fiumefreddo, almeno per la durata della malattia. È proprio in questo breve periodo che i ladri vanno a visitare la casa di campagna incustodita: furono messe sottosopra tutte le carte esistenti e fu strappato un registro di conti. Furono asportate delle cose insignificanti, mentre cereali ed olio, che potevano essere asportati, non furono toccati. Allora si pensò che i ladri, più che rubare, cercassero documenti e così ci si formò il convincimento che l’autore del fatto fosse stato il nipote Alfonso, escluso dal testamento, il quale poteva essersi recato colà per cercare il documento. Alfonso Mazza fu denunciato per furto, ma una decina di giorni dopo i ladri entrarono di nuovo nella casa colonica. Anche questa volta si incolpò Alfonso Mazza, ma per simulazione di reato, ritenendosi che avesse potuto inscenare il tentativo di furto per dimostrare che erano stati effettivamente i ladri ed allontanare così ogni sospetto dalla sua persona. Dal Pretore di Paola fu assolto per non aver commesso il fatto.
Questi precedenti pesano, pesano molto su don Alfonso, anche se entrambi i processi lo hanno visto assolto. Se per don Alfonso potrebbe essere lecito sospettare che avesse covato del risentimento per essere stato escluso dal testamento, la cosa sembrerebbe più difficile per l’erede universale don Eugenio. I sospetti su di lui si fanno consistenti quando si mette a spiegare praticamente al Maresciallo e al Pretore quanto sia facile arrampicarsi dalla terrazza fin sul tetto e poi togliere delle tegole e calarsi di sotto. La sua dimostrazione pratica viene collegata alla possibilità che don Eugenio avesse potuto decidere di non aspettare qualche altro anno per entrare in possesso dei beni dello zio e lo abbia ammazzato. Un po’ troppo debole come movente, come debole dovrebbe apparire anche il movente contestato a suo fratello Alfonso. Il perché è spiegato da tutta la famiglia Mazza e non fa una piega:
Mio fratello Alfonso, per il fatto del testamento, non mutò i sensi di affetto e di riverenza verso lo zio, che lo aveva tenuto a battesimo. Tengo a dire, anzi, che fui io a dispiacermi di tale lascito, dato che Alfonso ha tre bambini. Pur tuttavia, l’intenzione del vecchio e la mia convinzione era che Eugenio, siccome senza figli, avrebbe beneficato a suo tempo i tre piccoli nipoti – dice Angelica Mazza, riassumendo il pensiero di tutta la famiglia.
Eugenio, da parte sua, conferma e cerca di far passare per matta la vecchia domestica:
Il fatto del testamento in mio favore lo lasciò indisturbato perché, essendo io senza figli, dovrò necessariamente beneficare i figli suoi. Non credo attendibile quanto riferisce la vecchia Carmela. Ella è stata qualificata sempre un’idiota. Poi è caduta in contraddizione, infine ha l’organo della vista e dell’udito poco efficienti
Gli inquirenti non la pensano così e ribattono che la vecchia è stata ed è coerente nella sua dichiarazione, che in seguito ad esperimento ella risulta di buona vista e di buono udito, che dall’ascolto personale, data la tarda età, appare dotata di acuto senso critico e quindi non è una deficiente.
Nonostante ciò e nonostante che anche gli indizi a carico degli altri sospettati siano molto traballanti, tutti restano in carcere ad eccezione di don Eugenio, scarcerato su sollecitazione del Giudice Istruttore.
Proprio adesso si apre un altro filone di indagine: l’ucciso, in gioventù, aveva avuto una relazione illecita con una donna maritata, dalla quale nacque un figlio, identificato nella persona di Lenti Silvestro. Costui crebbe nella proprietà del Mazza e si allontanò con la madre, rimasta vedova, quando poteva contare circa 25 anni, perché pretendeva dal voluto padre una piccola casetta con un insignificante appezzamento di terreno, senza riuscirvi. Silvestro adesso ha un figlio di 18 anni, Antonio, e tutti e due vengono fermati perché pare che Silvestro, venuto a conoscenza del testamento fatto dal vecchio che lo escludeva definitivamente da ogni bene, tolse il saluto ai fratelli Alfonso ed Eugenio Mazza. Anche questo sembra un po’ fragile come movente, ma saranno certamente le ulteriori indagini a fare chiarezza. Almeno si spera.
Ciò che tormenta gli inquirenti sulla posizione di Alfonso Mazza è il fatto che mentre Eugenio vive agiatamente, Alfonso si dibatte in ristrettezza, anche per le sue speciali condizioni di famiglia, padre di tre figli e con una moglie demente ricoverata in una clinica di Roma. A questo si deve aggiungere che da circa otto mesi, per l’interdizione della consorte non ha potuto riscuotere i di lei stipendi, quale insegnante elementare di Fiumefreddo. Il dubbio è che don Alfonso, ammazzando il vecchio zio, abbia cercato di accelerare la donazione promessa da suo fratello.
Ora, tra tutti gli altri indagati, sembra aggravarsi la posizione di tale Vincenzo Frangella, uno dei primi ad accorrere sul posto e ad aiutare Eugenio a fare un sommario inventario delle cose rubate: conosceva le abitudini e la capacità finanziaria del vecchio e, da una seconda e più accurata perquisizione della stanza dove fu consumato l’omicidio, spunta, per terra, la catenina del suo mantello. Aggiungiamo che, secondo l’opinione pubblica, Frangella è un vero esperto di gesta criminali.
Dai fatti non sono ancora passati tre mesi e tutto è sempre un maledetto rompicapo: con questi fragili indizi è molto difficile che qualcuno sarà condannato. L’inchiesta passa direttamente in mano alla Procura del re di Cosenza. Viene richiamata a deporre la vecchia domestica, unica testimone e unica accusatrice di Alfonso Mazza:
Rettifico le mie precedenti dichiarazioni rese al Pretore di Paola nel senso che, allorché sono salita nella stanza ove era stato trucidato il mio padrone, non ravvisai affatto in colui ch’era all’impiedi, appoggiato alla spalliera inferiore del letto, don Alfonso Mazza, nipote del mio padrone.
– E perché allora lo avete nominato? – le chiede il Giudice Istruttore.
Perché così mi disse l’idea, ma in verità non lo vidi assolutamente
– Voi state mentendo, dite la verità!
– Si… affermo che Alfonso Mazza è perfettamente estraneo al delitto: questa è la verità, lo giuro! E se prima di oggi al Pretore di Paola ho detto diversamente, ciò è stato perché avevo timore dei veri autori del misfatto, i quali però non sono da me conosciuti, né su di loro posso dare utili chiarimenti alla giustizia – prende fiato e poi aggiunge – credo opportuno far noto, per quanto possa valere, che nel mese di gennaio passato, due o tre giorni dopo che il trappeto del mio povero padrone era stato chiuso per fine di lavoro, Vincenzo Frangella mi suggerì di rubare il portafogli al mio padrone e di portarlo a lui. Poi mi istigò ad aprirgli nottetempo la porta della casa del mio padrone, onde potesse penetrare, senza però precisarmi a quale scopo
Il Giudice Istruttore è sconcertato, ma immagina il perché della ritrattazione e le chiede:
– Adesso per conto di chi state lavorando?
– Sono passata al servizio di don Eugenio Mazza…
– Vi ha istigato a ritrattare promettendovi in cambio il lavoro?
– Lo escludo nel modo più categorico!
Il tempo passato a cercare nuovi e più solidi elementi a carico di qualcuno dei 17 indagati è trascorso invano. Non c’è nulla di concreto su nessuno di loro. Nemmeno i risultati del nuovo ritrovato scientifico del rilevamento e della comparazione delle impronte digitali fornisce risultati certi e il Pubblico Ministero decide di arrendersi. Il 19 gennaio 1931, ad un anno esatto dal barbaro omicidio di Fortunato Mazza, conclude la sua relazione con queste parole:
Nessuna luce per diradare le fitte tenebre che avvolgono l’assassino è stata arrecata né dalla perizia chimica fatta sulle macchie di sangue riscontrate sui colletti e sugli indumenti sequestrati, né dai rilievi dattiloscopici in quanto è rimasto accertato che nessuna delle impronte digitali rilevate confronta con quelle degli individui che furono fermati. Nonostante ciò resta in piedi l’accusa nei confronti di Alfonso Mazza, l’unico per il quale viene proposto il rinvio a giudizio con l’accusa di omicidio premeditato, ma il 20 maggio 1931, su proposta del Procuratore Generale del re, la Sezione d’Accusa dichiara non doversi procedere contro Mazza Alfonso, in ordine al delitto a lui ascritto in epigrafe, per insufficienza di prove.[1]
Nessuno pagherà.

 

[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento