Il ventunenne Vincenzo Giglio a Fuscaldo è conosciuto come di carattere violento, pericoloso e per giunta epilettico. Vincenzo si invaghisce di Franceschina Vairo e vuole renderla sua, ma la ragazza, conoscendo con chi ha a che fare, non gli dà retta e accetta, invece, la proposta di matrimonio di Antonio Santoro.
I due giovani si fidanzano ufficialmente, ma devono rimandare il matrimonio: Antonio riceve la cartolina di precetto e deve partire per il servizio militare. È la fine del mese di aprile del 1935. La partenza del rivale, per Vincenzo Giglio rappresenta il momento di tornare all’attacco, ma non lo fa in modo diretto andando a parlare con Franceschina e i suoi genitori. Va a parlare col padre di Antonio, Raffaele Santoro, per convincerlo a desistere dalla proposta di matrimonio. La sera del 19 maggio 1935 Vincenzo va nel fondo dei Santoro in contrada Termine della Menta e trova Raffaele intento a pascolare il suo gregge. Si avvicina, spavaldo, e dice:
– Io voglio Franceschina, vedi come devi fare…
– Pigliatela! – gli risponde Raffaele, con un tono di sfida, come per dire “se ne sei capace”.
Vincenzo diventa rosso di rabbia, si sente preso in giro, capisce che quell’uomo gli sta dicendo che è un buono a nulla, un chiacchierone. Chiacchierone a lui che è temuto da tutti? No, non può essere. Le vene sulle tempie stanno per scoppiargli, stringe il suo bastone in mano fino a farsi male mentre guarda Raffaele che, con indifferenza gli ha voltato le spalle e comincia a fischiare agli animali per raccoglierli. Il secondo fischio gli si spegne a metà sulle labbra per la prima della bastonata che gli arriva sullo zigomo destro. Nemmeno il tempo di dire “Ahi” che un’altra bastonata gli si abbatte sulle spalle. Il sangue comincia a scorrere sul viso e l’occhio a gonfiarsi, ma gli è andata bene, poteva restarci secco. Vincenzo si allontana come se niente fosse successo, fischiettando in segno di scherno.
Tornato a casa, Raffaele va dal medico a farsi visitare: ferita lacero-contusa in corrispondenza della regione zigomatica destra con imponente ematoma a carico della palpebra inferiore dello stesso lato e chiazza ecchimotica della palpebra superiore, nonché vasta ecchimosi nella regione sottoscapolare sinistra. Se la caverà in 25 giorni, salvo complicazioni. Intanto parte la querela nei confronti di Giglio per lesioni personali volontarie.
E le complicazioni, in effetti, arrivano. L’8 giugno successivo il dottor Nesi, pur constatando la guarigione clinica delle ferite, ritiene che Raffaele Santoro versi in pericolo di vita perché in uno stato di perturbamento psichico, dovuto ad intossicazione urinosa per poliuria imponente, la quale si era affacciata fin dal giorno delle lesioni in conseguenza dello choc psichico determinato dal trauma. I timori di Nesi sono fondati, due giorni dopo Raffaele Santoro muore.
Viene disposta l’autopsia perché se si dovesse accertare che la morte è davvero conseguenza delle bastonate, il titolo del reato dovrà essere modificato almeno in omicidio preterintenzionale.
La perizia autoptica, però, esclude che le lesioni abbiano potuto, direttamente o indirettamente, causare la morte del povero Raffaele Santoro, così Vincenzo Giglio viene rinviato al giudizio del Pretore, senza tenere affatto conto degli accertamenti del medico curante e del consulente tecnico, per rispondere del reato di lesioni guarite in giorni 21. Il Pretore condanna Vincenzo Giglio alla pena di un anno di reclusione, ma ne sospende l’esecuzione a condizione che l’imputato paghi entro un mese i danni alla parte civile, liquidati in 1.500 lire. Giglio propone appello e, in attesa della decisione, piuttosto che mostrarsi compreso e rispettoso del santo dolore della famiglia Santoro, viceversa non tralascia occasione per esasperare gli animi. E l’animo più esasperato è quello di Giuseppe Santoro, il figlio maggiore della vittima, che risponde con le parole ad ogni provocazione e la tensione arriva quasi al punto di non ritorno.
– Gli faccio saltare il capocchio della testa! – sussurra, esasperato, Giuseppe una sera davanti a testimoni, dopo che Vincenzo Giglio, passandogli vicino in piazza, gli sputa tra i piedi e poi sorride beffardamente.
– Io non temo alcuno – risponde Vincenzo quando glielo riferiscono e rincara la dose – nessuno ha il coraggio di aggredirmi di fronte. Anzi, dite a Santoro che non esiterò un solo istante ad ammazzarlo e me la caverò meglio di come me la sono cavata quando ho ammazzato il padre!
Non basta. Quando incontra Giuseppe Santoro, Vincenzo non si stanca di ripetergli ossessivamente con aria di trionfo: “compare, vi ho vinto e vi ho saputo vincere!”
E non si accontenta ancora. Vincenzo viene sentito da molte persone e in diversi momenti dire frasi come: “se non si rompe il matrimonio gliene farò vedere io, so io quel che farò!”, oppure viene sentito irridere la memoria di Raffaele Santoro gridando, tutte le volte che passa vicino al fondo del morto: “zio Raffaele come va che non ti fai più vedere?” e ancora: “alzati, alzati Raffaele, ma tu non ti alzi più…”.
È l’imbrunire del 28 settembre 1935. Vincenzo Giglio, in compagnia del padre e della sorella, sta tornando dalla campagna, diretto a casa. Giunti in contrada Generale Parlotta, i tre vengono fatti segno a due fucilate, ma a restare a terra morto stecchito è il solo Vincenzo, colpito da sedici pallettoni nella zona compresa tra la scapola e il rene sinistri.
Il padre di Giglio si accorge che l’attentatore sta scappando per la campagna e si lancia all’inseguimento, ma ormai è buio e l’uomo entra in una zona di vegetazione fitta e riesce a dileguarsi.
Quando, poco dopo, arrivano i Carabinieri, sembra già essere tutto chiaro: i colpi, calibro 12, come dimostrano i tacchetti ritrovati sul posto, sono partiti da un terreno di proprietà della famiglia Santoro, i cui componenti, tutti indistintamente, odiano Giglio per essere stato, come è loro convinzione, causa volontaria ed esclusiva della morte di Raffaele. Poi ci sono le minacce reciproche e i Carabinieri sanno che il povero Raffaele deteneva regolarmente un fucile da caccia calibro 12. È certo che deve essere stato uno dei Santoro. Ma Antonio è soldato, quindi l’unico che può avere sparato è Giuseppe.
Verso le 23,00 i militari bussano alla porta di casa Santoro per arrestare il sospettato, ma non gli riesce facile entrare in quanto Rosa Vairo, la mamma di Giuseppe, si rifiuta di aprire, assumendo di essere da sola in casa. Le trattative proseguono per parecchi minuti e poi, visti vani i tentativi, il Maresciallo avverte la donna che stanno per abbattere la porta. Dall’interno della casa si sente il rumore dei catenacci che vengono tolti e la porta, cigolando, si apre.
Giuseppe Santoro è seduto su di una sedia e si tiene la testa tra le mani, poi guarda il Maresciallo e dice:
– Marescià, sono innocente, sono tornato a casa prima dell’imbrunire e non mi sono mosso da qui…
– Si Marescià, Peppino è stato sempre a casa – gli fa eco sua madre.
– Si, poi vediamo… intanto datemi il fucile del povero Raffaele – fa il Maresciallo.
– Marescià, manca da casa da prima che papà morisse… l’ha prestato ma non sappiamo a chi…
– Si, Marescià, Peppino ha ragione!
– Favorite tutti e due in caserma…
Con la prospettiva di vedere sua madre in galera, Giuseppe confessa:
– Come è noto, nello scorso maggio Vincenzo Giglio, senza una ragione, con un colpo di bastone cagionò la morte di mio padre. Tale fatto e per di più la sua scarcerazione portò in me dolore e irritazione da non credersi, che venivano tenuti vivi, oltre che dai commenti di parenti e amici (in quanto mio padre era stato ucciso senza essere pagato), dal cinismo ed atteggiamento provocante del Giglio. Io non potevo rassegnarmi e siccome la mia esasperazione giunse al colmo, causa nuova ambasceria fattami pervenire a mezzo del ragazzo Ernesto Santoro, decisi di farla finita una buona volta. In casa trovai un fucile ed alcune cartucce. Trasportai l’arma in una casetta rurale in contrada Generale Parlotta ed attesi il momento per vendicare mio padre. L’occasione si presentò ieri sera in quanto, conoscendo la strada che il mio avversario avrebbe dovuto percorrere per rincasare, mi portai in un punto adatto della mia proprietà per attenderne il passaggio… – riprende fiato – lo vidi arrivare e, non appena fu a tiro del mio fucile, esplosi un colpo, facendo seguire immediatamente dopo il secondo… mi allontanai rapidamente… passai davanti alla casa di Giacomo Surace e, non potendo portare con me il fucile, lo pregai di custodirmelo, senza informarlo di quanto avevo fatto. Alle mie preghiere finì per accettare e lo nascose in una stalla… – il Maresciallo, sapendo che Vincenzo Giglio aveva insidiato la fidanzata di Antonio, il fratello di Giuseppe, gli chiede conto di questa circostanza – Antonio non c’entra niente, per lettera mi raccomandò sempre calma e prudenza…
L’assunzione di responsabilità da parte di Giuseppe non serve a far cadere i sospetti sulla madre e vengono trattenuti in arresto. Il Maresciallo, però, nel verbale traccia il profilo morale della vittima, quasi a voler giustificare il gesto di Giuseppe Santoro: Capace di qualsiasi azione, era diventato l’incubo della famiglia Santoro la quale, privata del capo della famiglia per la di lui brutale malvagità, non poteva rassegnarsi a tale sciagura, tenuta costantemente viva dal cinismo e dalle minacce del Giglio.
Due giorni dopo i Carabinieri arrestano anche Giacomo Surace con l’imputazione di favoreggiamento.
– Si presentò a me Santoro chiedendomi di conservargli il fucile perché inseguito. Io, temendo qualcosa, non volevo aderire alla richiesta, ma siccome Giuseppe insistette, gli dissi di portarlo in una specie di stalla poco distante… egli lasciò il fucile per terra e si allontanò. Non sapendo cosa fare, raccolsi l’arma e, per evitare delle seccature, la nascosi fra le spine…
E infatti è in un roveto che Surace fa ritrovare l’arma.
Continuando le indagini, gli inquirenti sospettano che Antonio Santoro fece opera persuasiva per indurre il fratello a compiere il delitto, nonostante dalle lettere sequestrate appare chiaro il contrario. Ma quando le carte vengono lette e valutate dal Procuratore Generale del re le cose cambiano: Antonio Santoro e sua madre Rosa Vairo vengono prosciolti per non aver commesso il fatto, mentre Giuseppe Santoro e Giacomo Surace vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, il primo per omicidio premeditato e il secondo per favoreggiamento.
Nel dibattimento del 25 giugno 1936, la Corte si pone il problema se davvero sussista l’aggravante della premeditazione o se, per avventura, non sussistano in contrario delle diminuenti che tolgano, da un canto la impronta di efferatezza al delitto e dall’altro riducano di molto le responsabilità del prevenuto.
Se la sentenza di rinvio a giudizio basa l’aggravante su alcune dichiarazioni testimoniali che raccontano di come, qualche giorno prima del delitto, Giuseppe Santoro fu visto andare in giro armato di fucile dicendo a qualcuno di dover fare un affare e ad altri che se avesse incontrato Vincenzo Giglio gli avrebbe fatto saltare la capocchia della testa, c’è da rilevare che gli stessi testimoni, ascoltati in aula, negano di avere ricevuto quelle confidenze che, se anche fossero vere, sono talmente generiche ed equivoche che non potrebbero essere prese a base del convincimento di premeditazione. Un’altra testimonianza, quella di Giovanni Trotta, viene ritenuta inattendibile perché il teste è sotto processo per calunnia.
Pare proprio che la posizione di Giuseppe Santoro cominci ad alleggerirsi di molto. L’ergastolo dovrebbe essere scongiurato. Ma altri ostacoli debbono essere superati: per esempio il pensiero assillante della vendetta, l’essersi appostato in agguato, l’aver tentato di sottrarre l’arma alle indagini.
Interrogato in aula, Giuseppe Santoro spiega che non premeditò il delitto:
– Io avevo incontrato tante volte Vincenzo Giglio ed avrei potuto ucciderlo in uno di quegli incontri, qualora ne avessi avuta l’intenzione. Io invece ho sempre cercato di evitare, sopportando le minacce. Non mi sono mai aggirato per la campagna nei giorni precedenti col fucile per uccidere Giglio. Mi determinai quella sera perché stanco delle sue minacce e perché poco prima avevo trovato mia madre in lacrime e più dolente del solito…
Può bastare. È tempo, per la Corte, di ritirarsi e valutare le prove.
Per la stessa confessione del prevenuto, non può dubitarsi della materialità dei fatti, cioè della strage da lui compiuta in danno di Giglio Vincenzo mercé due colpi di fucile che asportava senza essere munito di regolare licenza. E poiché i detti fatti furono volontari, conseguentemente egli deve rispondere di omicidio e di abusiva asportazione di fucile.
Questa è la premessa. Poi la Corte smonta l’aggravante della premeditazione: alcune circostanze valutate dal Giudice Istruttore come prove della premeditazione sono irreali, altre non hanno valore di prova. È da negare che il prevenuto avesse il pensiero fisso della vendetta poiché, pur imbattutosi più volte nel Giglio e nonostante da costui atrocemente provocato, si seppe sempre imporre prudenza. L’aver trasportato il fucile dalla città alla campagna per averlo a portata di mano non illumina la premeditazione, se è certo che il prevenuto, armato di fucile, pur potendo rintuzzare le giornaliere provocazioni del Giglio, seppe sopportarle per più tempo, il che fa anche supporre che il fucile fu portato in campagna per avvertito bisogno di difesa, piuttosto che per offendere. Finalmente vi ha l’agguato! Non si discute che l’attendere la vittima in punto dal quale si conosce che da lì dovrà pur passare, è un elemento gravissimo di prova della premeditazione, se all’agguato si venga per eseguire un delitto già elaborato e maturato nella mente, sotto la spinta di cause remote. Ma se, viceversa come in concreto, la volontà di uccidere sorge per causa immediata, non può l’agguato, che ha funzione di atto esecutivo del delitto, far perdere a questo la sua natura di delitto d’impeto. Né la circostanza che egli, post factum, abbia tentato di sottrarsi alle investigazioni della Polizia chiarisce alcun che, poiché l’impunità è l’anelito di tutti coloro che delinquono, sia per impeto, che con premeditazione.
A questo punto, secondo la Corte, la figura del prevenuto, perdendo il carattere dell’assassino, esce dall’ombra per profilarsi in una luce che non consente severità di giudizio e a lui, piuttosto, deve concedersi la duplice diminuente della provocazione e dei motivi di particolare valore morale, nei quali si devono considerare anche la visione giornaliera delle sorelline in gramaglie per la morte del padre, a suo giudizio barbaramente ucciso dal Giglio, le preoccupazioni della madre che si sentiva insufficiente a reggere da sola la casa dove aveva una nidiata di figlioletti da educare e mantenere e, finalmente, il dissesto economico determinato dalle enormi spese sostenute in primo tempo per la cura delle lesioni del padre ed in secondo tempo per sostenere il giudizio penale contro il Giglio (circa una diecina di migliaia di lire).
Ma non bisogna dimenticare che si sta processando anche Giacomo Surace. Le accuse nei suoi confronti si basano soltanto sull’ammissione di Giuseppe Santoro di avergli chiesto di tenergli il fucile e l’indecisione mostrata davanti ai Carabinieri, ai quali in un primo momento disse di non ricordare dove fosse nascosta l’arma.
La lettura della sentenza avviene quando il sole del 25 giugno 1936 è tramontato da un pezzo:
La Corte dichiara Santoro Giuseppe colpevole del delitto di omicidio volontario in persona di Giglio Vincenzo, esclusa l’aggravante della premeditazione e con le attenuanti di avere agito in istato d’ira determinato da fatto ingiusto dell’offeso e per un motivo di particolare valore morale, nonché della contravvenzione per porto abusivo di fucile e lo condanna a 10 anni e 4 mesi reclusione, più 2 mesi di arresto e pene accessorie.
La Corte, ritenendo che nei confronti di Giacomo Surace manchi la prova che rassicuri di avere egli nascosto il fucile per favorire Santoro, lo manda assolto per insufficienza di prove.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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