Domenico Liuzzi fa il cantoniere e vive in un trullo nella campagna di Martina Franca con la moglie Immacolata Semeraro, sua prima cugina, e tre figli: due femminucce e un maschietto. Purtroppo la maggiore, 10 anni, soffre di limitazione mentale congenita e adesso è la secondogenita, che ha 8 anni, ad occuparsi di lei e del maschietto di appena 18 mesi, così da permettere alla mamma di andare a lavorare.
Nella notte tra il 9 e il 10 settembre 1932, le due bambine vengono svegliate dalle grida di aiuto del padre che, rimbombando cupamente, sembrano venire dalla bocca dell’inferno. Nonostante sia terrorizzata, la secondogenita gira per casa ma non trova nessuno dei genitori, eppure le grida continuano ad arrivarle. Allora esce nel cortile, ma nemmeno qui c’è nessuno. Poi capisce: le urla vengono dall’interno del pozzo, distante circa sei metri dal trullo, e si avvicina.
– Papà… papà…
– Corri, corri a chiamare i vicini che io e tua madre siamo qui dentro, muoviti!
La bambina corre, bussa a tutte le porte dei vicini che arrivano immediatamente e, con l’aiuto di una scala, tirano fuori dal pozzo Domenico. Immacolata no, non possono tirarla fuori, è morta!
– Andate a chiamare i Carabinieri… – dice piangendo dirottamente.
– Ma che è successo? – gli chiedono i vicini e l’uomo, tra le lacrime, racconta che lui e la moglie sono stati sorpresi nel sonno da due sconosciuti penetrati nell’abitazione attraverso il camino e, dopo averli imbavagliati con delle lenzuola, li avevano trascinati fino al pozzo, dove li avevano buttati, trovandovi la moglie la morte!
La stessa cosa Domenico ripete ai Carabinieri ma, agli occhi esperti dei militari, c’è qualcosa che non quadra: la bocca del tubo fumario, sebbene presenti tracce di recente manomissione, non permette, per la sua strettezza, il passaggio di alcuna persona.
– Forse sono entrati dalla porta che avevo lasciata socchiusa… – dice Domenico.
I Carabinieri ritengono inverosimile anche questa seconda versione in quanto nel trullo, ove sarebbe avvenuto quel po’ po’ di robba di una furiosa colluttazione coi malfattori, tutto è in perfetto ordine. In più, i parenti della povera Immacolata dicono subito che tra marito e moglie le cose non andavano affatto bene a causa della furiosa gelosia della donna. Da qui a sospettare che Immacolata sia stata ammazzata dal marito il passo è breve e lo arrestano.
Domenico, con i ferri ai polsi, viene portato in caserma e qui cade in ginocchio davanti al Maresciallo. Piangendo, racconta che le cose sono andate diversamente:
– Mia moglie mi tormentava da più tempo con la sua infondata gelosia. Ieri sera, dopo essermi messo a letto stanco del lavoro della giornata, stavo per addormentarmi quando fui raggiunto da mia moglie che, vedendomi con le spalle voltate, cominciò a rimbrottarmi per il mio contegno disamorevole verso di lei, attribuendolo al fatto che io pensavo ad altre donne… io allora intuii che mia moglie, come al solito, desiderava l’amplesso, ma io non mi sentivo disposto… ero molto stanco e la pregai di lasciarmi in pace dicendole che l’avrei accontentata la mattina seguente. Immacolata diventò una jena, rinfacciandomi che io pensavo alle donne con le quali avevo ballato nelle sere precedenti… cercai di calmarla, anche con un po’ d’autorità, ma lei, fulmineamente, si alzò dal letto ed uscì fuori in camicia dicendo di volere andare a buttarsi nel pozzo… io, avendo intuito qualcosa di sinistro, mi alzai dal letto in camicia per rincorrerla e strapparla dal pozzo ove ella, frattanto, si era avvicinata… Immacolata mi ha visto arrivare correndo e si protese nel pozzo, senza darmi il tempo di evitare il folle gesto… “poveri figli miei” ha detto e poi si è buttata… io ero lì, l’ho afferrata per un piede, ma non ce l’ho fatta. Allora mi sono afferrato con le mani alla bocca del pozzo e mi sono calato dentro, cadendo addosso ad Immacolata… l’ho sollevata fuori dall’acqua ma era già morta… morta! Maresciallo, era morta! Poi mi sono messo a gridare…
Anche su questa, ennesima, versione ci sono dei dubbi e Domenico, in lacrime, viene chiuso in camera di sicurezza.
L’autopsia dice che Immacolata è morta per la frattura della base del cranio, prodotta da urto della testa contro il fondo melmoso del pozzo e sarebbe compatibile con la tesi del suicidio, anche se è lecito dubitare che una caduta a testa in giù da un’altezza di circa tre metri e mezzo in un pozzo al cui centro l’acqua è profonda circa un metro ed ai bordi melmosi una trentina di centimetri, abbia potuto provocare la frattura mortale. Ma ciò che, più di ogni altro indizio, convince gli inquirenti che si sia trattato di omicidio sono le numerose abrasioni, prodotte in vita, riscontrate sul corpo di Immacolata, come se fosse stata buttata giù a viva forza nel pozzo, le cui pareti, abbastanza strette, sono fatte di pietra tagliente. A ciò si devono aggiungere le escoriazioni presenti sul corpo di Domenico, probabilmente prodotte in colluttazione da unghiate.
Gli inquirenti scoprono che due giorni prima della morte di Immacolata, Domenico Liuzzi sorprese tre individui ignoti aggirarsi in atteggiamento sospetto attorno al suo trullo e presentò una regolare denuncia ai Carabinieri. Cosa vuole dire? Secondo gli inquirenti vuol dire che Liuzzi ha precostituito, o almeno ha tentato di farlo, tutta la storiella, poi naufragata miseramente, dell’aggressione subita in casa la notte del fatto. Quindi omicidio premeditato.
Ma in questa brutta storia c’è sempre qualcosa che non quadra. Per esempio le contraddittorie testimonianze acquisite agli atti:
– La moglie di Liuzzi mi aveva, qualche volta, dichiarato che col marito aveva spesso delle quistioni e il marito la bastonava perché lei non voleva che andasse a ballare fuori casa. Nulla mi consta di relazioni del Liuzzi con altre donne…
– Due sere prima della morte della Semeraro, questa si recò col marito e le sue bambine a una festicciola da ballo ed entrambi ballarono, anche tra di loro, in piena letizia. Io ero convinto che andassero d’accordo tra di loro, però io avevo conosciuto la moglie di Liuzzi solo la sera della festa. Nulla mi consta dei dissidi e scene di gelosia tra di loro perché Liuzzi mai me ne parlò; non so nemmeno se costui avesse avuto qualche relazione illecita…
Qualcuno fa il nome di una ragazza che avrebbe una relazione illecita con Domenico. Ma questa relazione illecita è vera o no? Interrogata, la ragazza in questione dice che non si è mai nemmeno accorta che Liuzzi avesse delle mire su di lei.
Interrogare la figlia maggiore sarebbe inutile per le sue condizioni mentali, così gli inquirenti interrogano la
bambina di 8 anni:
bambina di 8 anni:
– Io non ho mai assistito a quistioni tra mio padre e mia madre e non ho mai visto che quest’ultima fosse stata bastonata da mio padre… – poi si corregge e afferma – ricordo che mio padre e mia madre si questionavano spesso perché mio padre non voleva che mia madre lo seguisse nelle case dove andava a divertirsi e la poverina riceveva per questo delle bastonate… “Lui va a divertirsi e noi che facciamo? Mangiamo e andiamo a dormire…” così diceva mamma…
Al di là delle contraddizioni, il Giudice Istruttore ritiene sufficienti le prove raccolte e rinvia Domenico Liuzzi al giudizio della Corte d’Assise di Taranto con l’accusa di uxoricidio premeditato.
Nel dibattimento la Corte decide di ascoltare tutte e due le figlie e tutte e due fanno lo stesso racconto di ciò che avrebbero visto la notte in cui la loro mamma morì:
– Quella notte andammo a letto e, risvegliatami, vidi che mio padre uccideva mia madre con una mazzata in testa e poi la buttò nel pozzo…
Avrebbero dovuto e potuto dirlo prima, sostiene la Corte. Adesso, per ragioni di decenza logica e morale, le dichiarazioni asciutte asciutte di due bambine evidentemente minorate psichiche, se non anche suggestionate dal nonno e dai parenti della defunta, nella casa dei quali han trovato rifugio dopo la morte della mamma, sono inattendibili.
I giudici non accolgono favorevolmente nemmeno il resto degli elementi raccolti dall’accusa e, ritenuto che gli elementi di prova rendono attendibile piuttosto la
tesi del suicidio che quella dell’omicidio; che la storiella dell’aggressione, per la sua stessa palese inverosimiglianza, lungi dal costituire prova di preordinazione del delitto, fu raccattata dal Liuzzi in quel primo momento d’orgasmo per non palesare l’intimo episodio d’alcova che aveva dato origine alla scena di gelosia ed al folle atto suicida della moglie; che i pretesi maltrattamenti del marito verso costei non avevano mai trasceso i limiti di una naturale e legittima insofferenza contro la ingiustificata gelosia della stessa; che, infine, del tutto gratuita è l’asserzione che il marito si fosse invaghito di un’altra donna, assolvono Domenico Liuzzi per insufficienza di prove. È il 6 aprile 1933.
tesi del suicidio che quella dell’omicidio; che la storiella dell’aggressione, per la sua stessa palese inverosimiglianza, lungi dal costituire prova di preordinazione del delitto, fu raccattata dal Liuzzi in quel primo momento d’orgasmo per non palesare l’intimo episodio d’alcova che aveva dato origine alla scena di gelosia ed al folle atto suicida della moglie; che i pretesi maltrattamenti del marito verso costei non avevano mai trasceso i limiti di una naturale e legittima insofferenza contro la ingiustificata gelosia della stessa; che, infine, del tutto gratuita è l’asserzione che il marito si fosse invaghito di un’altra donna, assolvono Domenico Liuzzi per insufficienza di prove. È il 6 aprile 1933.
La Procura propone immediatamente ricorso per Cassazione e questa, il 4 maggio 1934, accoglie il ricorso e annulla la sentenza della Corte d’Assise di Taranto per insufficiente, contraddittoria e perplessa motivazione, specialmente nel punto in cui la Corte, dopo aver deplorato la superficialità con cui il processo fu istruito senza l’accesso del magistrato sul luogo del delitto, senza una descrizione della località e della cisterna dove fu rinvenuto il cadavere della Semeraro, non spiegò poi la ragione per cui non credette di aderire alla richiesta fatta dal P.M. al dibattimento, di accedere sul posto per avere una cognizione precisa dei luoghi e vagliare in maniera concreta le due prospettate ipotesi del suicidio e dell’uxoricidio.
Il processo dovrà essere rifatto presso la Corte d’Assise di Cosenza. Qui il dibattimento inizia, il 18 gennaio 1935, con un sopralluogo al pozzo e al trullo: il pozzo ha la forma di un pentagono irregolare i cui lati delimitano una superficie così poco ampia che, pur in caso di passaggio involontario di un corpo umano, esso non può verificarsi senza urtare o strisciare contro qualcuno dei lati del pozzo; il trullo è largo m. 4X4,20, diviso in due da un muro a secco ma in comune perché le relative aperture sono grandissime, ad arcate grandi e senza porte. Tutto ciò, lungi dal togliere i dubbi gravi circa la colpevolezza dell’imputato, li ha maggiormente suffragati.
I giudici di Cosenza sono ancora più severi dei colleghi tarantini nelle critiche al lavoro del Giudice Istruttore e del Pubblico Ministero: falsi ed esagerati per comodità di tesi accusatoria sono i fatti a base del movente perché se si può ammettere che il Liuzzi abbia qualche volta mostrato la sua insofferenza per la ossessiva gelosia della moglie e che siasi, a volte, lasciato andare per tale ragione a qualche atto di violenza contro la moglie, nulla autorizza, però, a ritenere che ella fosse una martoriata, che è il ruolo attribuitole dal P.M.
Secondo la Corte cosentina è eccessivo anche parlare di bastonature perché il popolo usa impropriamente tale termine per indicare le semplici percosse. Poi vanno giù duro. Quel che davvero appalesa una deplorevole falsificazione della verità processuale è il punto in cui tanto il Giudice Istruttore, che il tenace accusatore nel dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Taranto affermano tout court che il Liuzzi aveva contratto una relazione amorosa con una fanciulla nubile e che, per tale relazione, egli fosse divenuto insofferente della moglie la quale, non solo con la sua gelosia, ma con la stessa sua presenza era d’ostacolo alle sue aspirazioni. Ma da quale fonte processuale essi hanno ritenuto di potere trarre decentemente la prova di siffatta costruzione accusatoria, la cui gravità è palese per chiunque?
La responsabile di tutto, secondo la Corte cosentina, sembrerebbe essere stata Immacolata che si opponeva ai desideri innocenti del marito. La gelosia di cui era affetta era di quel genere di jaulosie malhereuse, come viene definita dai psicologi francesi, la quale sovente rende le donne nemiche giurate della propria e dell’altrui consolazione per il loro vario umore. Ora arcigno, ora ipocritamente mite e sottomesso, ora rassegnato o in preda a una cupa e concentrata disperazione per l’immaginario loro timore di aver perduto per sempre l’amore del marito e con esso cessata la ragione stessa di continuare a vivere sotto questa santa terra di Dio. La prova di ciò è data, ad esuberanza, dalle violente scenate che faceva al marito, dai propositi, che qualche volta ebbero anche un principio di esecuzione, di allontanarsi dalla casa coniugale e più ancora dalle parole di velata malinconia che ella soleva rivolgere alle figlie allorché il marito qualche volta la lasciava sola in casa per andare a ballare.
Se così è, non c’è causale proporzionale per un misfatto così atroce qual è quello della soppressione della madre dei propri figli, compiuta con premeditazione e con perfida preordinazione dei mezzi necessari.
E se non si può parlare di premeditazione e preordinazione del delitto, la morte di Immacolata, sia essa dovuta ad omicidio oppure a suicidio, fu indubbiamente la conseguenza di un fatto improvviso. Ed allora, dovendosi buttare a mare la tesi della preordinata soppressione della Semeraro per parte del marito, bisogna pur far capo, in mancanza di ogni altra plausibile spiegazione dell’avvenimento, a quella datane dal marito il quale ha parlato di suicidio, avvenuto nelle circostanze già note.
Dunque, Immacolata si è suicidata perché Domenico, stanco per il lavoro, non ha voluto fare l’amore con lei e Domenico, da parte sua, ha inventato la storiella dell’aggressione perché quando fu interrogato dai Carabinieri accanto al pozzo erano presenti i vicini e si vergognava di ammettere pubblicamente che quella notte non era stato in grado di soddisfare la moglie vogliosa.
Il 21 gennaio 1935, la Corte d’Assise di Cosenza assolve Domenico Liuzzi dall’accusa di omicidio per insufficienza di prove.
In questo frattempo, la figlia maggiore di Domenico e Immacolata è stata internata nel manicomio di Torino, la secondogenita è stata affidata ad un istituto di suore e il maschietto è morto.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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