IL DIAVOLO E BIANCADORA

Il contadino Martino Gaudio, satiro prepotente ed immondo tanto che nell’agro di San Marco Argentano, dove abita con sua moglie e i suoi figli, è conosciuto col soprannome di Diavolo. Pensate che intorno al 1905, essendo amante di una donna vedova, ne stuprava la giovinetta figlia, che poi sposava. Dopo qualche anno dal matrimonio metteva gli occhi addosso ad una cognatina e la stuprava, costringendola a nascondere la sua vergogna nelle lontane Americhe. Se fossero solo queste le sue malefatte, si potrebbe anche pensare che il soprannome di Diavolo sia esagerato. No, non sono solo queste, purtroppo. Appena la maggiore delle sue figliuole, Biancadora, raggiunti i tredici anni, divenne una fanciulla fulgente di bellezza come liana in fiore, volse i suoi cupidi desideri su di essa e un giorno, profittando dell’assenza della madre, la deflorava con violenza. Biancadora racconta tutto a sua madre e questa, memore di quanto il Diavolo le aveva fatto, ma costretta tuttavia a chiudere in seno la sua angoscia per non rendere pubblico il disonore della figlia, cerca di non lasciarla mai da sola e di proteggerla dal padre. Però la donna deve assentarsi per andare a lavorare e il Diavolo ne approfitta riuscendo a possedere più volte la figlia in casa, in campagna, nelle forre e ovunque gli veniva fatto di ghermirla.
Questo orrore va avanti per tre anni e poi, compiuti i 16 anni, Biancadora, per imposizione del padre, deve sposare un giovane delinquente che, sebbene edotto avanti le nozze della disgrazia patita dalla sposa, si dà tuttavia a maltrattarla nella maniera più crudele. Il delinquente, pluripregiudicato, si chiama Domenico Soria, meglio conosciuto come ‘U Brittatu.
Dalla padella nella brace.
Adesso Biancadora ha 19 anni. Una mattina i Carabinieri si presentano a casa e arrestano il marito con l’accusa di avere fatto una rapina. Il delinquente viene condannato e Biancadora resta da sola, in balìa delle visite di suo padre. No, non può tornare all’inferno. Se ne va a Mongrassano, a casa di una sorella di suo marito, sperando di trovare finalmente un po’ di pace. Ma anche quivi la vigliaccheria degli uomini ha occasione di esercitarsi su di essa perché il cognato, Vincenzo Salerno, conoscendo la di lei ignominia, ben presto trovò modo di piegarla alle sue impure voglie, costringendola anche a prostituirsi. Biancadora precipita nell’abisso.
– Brigadiè… correte, c’è una donna sfregiata! – il tono dell’uomo è concitato.
– Non sono Brigadiere… Chi? Dove? – gli fa il Carabiniere Salvatore Papaluca che sta percorrendo la via Rughe nell’abitato di Mongrassano. È il 23 maggio 1932. 
– La moglie di Soria ‘U Brittatu… è a casa…
Quando Papaluca e il suo collega Francesco Falsini corrono in caserma ad avvisare il Brigadiere Capozzi, questi quasi quasi si aspettava una notizia del genere, se non addirittura peggiore, così si precipita sul posto e trova il medico che sta curando la donna, orribilmente sfregiata a colpi di coltello.
– È stato tuo marito?
– Si… poco fa… è entrato in casa ridendo e mi disse di mettere fuori il vestito nuovo che doveva indossare. Io gli ho risposto che non era il caso in quanto era notte, ma lui ha insistito e io gliel’ho preso. Si è cambiato e poi mi ha afferrato per i capelli, ha preso un coltello da innesto che era sul tavolino e mi ha tagliato la faccia… Brigadiè… non lo arrestate… ha fatto bene a conciarmi così perché ho mancato al mio dovere di moglie… – tipico delle vittime sentirsi responsabili di ciò che accade loro.
Capozzi sa che non è possibile e si mette subito alla ricerca di Domenico Soria, ma non ci sono tracce dell’uomo. Le uniche notizie, peraltro incerte, sono che si è diretto verso San Marco Argentano.
Biancarosa è conciata male: ha una ferita che va dal lobulo dell’orecchio di destra fino a un centimetro e mezzo dell’angolo boccale e un’altra ferita che va dalla regione mastoidea di sinistra fino all’angolo boccale con profondità varie interessanti la cute, il connettivo sottocutaneo ed il primo strato muscolare, nonché i vasi sanguigni superficiali. Deturpata per il resto dei suoi giorni.
Soria si consegna due giorni dopo ai Carabinieri di San Marco.
Ammetto di avere colpito al viso con colpi di coltello mia moglie perché sono stato da lei tradito. La sera del 18 maggio, liberato dal carcere tornai in Mongrassano e alcuni miei amici mi dissero che in paese si vociferava che durante la mia permanenza in carcere, mia moglie aveva avuto rapporti con Pizzi Orlando e con un tal Vincenzo di cui ignoro il cognome. Domandai a mia moglie spiegazioni su ciò, ma costei negò recisamente la verità dell’addebito. Ciò nonostante ho insistito per farla confessare e finalmente il giorno 23 mi confessò di avere avuto rapporti con otto persone, con un mio cognato, Salerno Vincenzo, e col Carabiniere De Stefano. La stessa mia moglie, a mia richiesta, spiegò che una boccettina, da me rinvenuta in un cassetto, l’aveva portata in casa il Carabiniere De Stefano, il quale liquido in essa contenuto aveva procurato l’aborto di una vicina che aveva resa incinta durante l’assenza del marito, con me detenuto sotto l’imputazione di rapina
– Vuoi querelarla per l’adulterio?
– No, non voglio farlo.
Un bel guaio, anche un Carabiniere coinvolto in questa brutta storia! Per vederci chiaro, viene disposta una perquisizione nella casa dei coniugi Soria al fine di rinvenire la fantomatica boccetta col liquido abortivo.
In una colonnetta posta al lato del letto ove giace la ferita trovansi diverse boccette contenenti rispettivamente del Groform e piccoli residui di altri medicinali come acqua ossigenata e permanganato; una boccetta vuota con l’etichetta della farmacia Attanasio con indicazione “Adrenalina a gocce al zero per mille” con contagocce. Le boccette col permanganato e l’adrenalina vengono sequestrate e Biancadora spiega:
Ammetto di aver detto a mio marito, allorché gli confessai d’averlo tradito, che fra l’altro avevo avuto relazioni carnali col Carabiniere De Stefano il quale, usando d’un liquido contenuto nella boccetta portante la dicitura “Adrenalina”, aveva fatto abortire la vicina. Ciò però non risponde a verità ed io lo affermai con la coscienza di dire una bugia e ciò per mettere allo stesso mio livello l’altra donna che pure aveva avuto il marito detenuto insieme al mio.
– Li hai usati tu i medicinali per abortire?
L’Adrenalina ed il Permanganato l’usai quando ebbi ammalato mio figlio di scarlattina per praticargli dei lavaggi alla bocca… Brigadiè… ma perché mi vuole interrogare il Pretore? Io non voglio che mio marito vada di nuovo in carcere… è colpa mia se mi ha ridotta così…
– Ma tu hai abortito davvero come si dice in giro?
– Durante i 14 mesi che Domenico è stato carcerato ho abortito diverse volte per non farmi accorgere dal pubblico di averlo traditodiverse volte mi sono accorta di non avere avute le mestulazione a tempo giusto e prevedendo di essere rimasta incinta pigliavo sempre delle compresse di chinino e ottenevo lo scopo dopo 5 o 6 giorni
Il comportamento della donna appare sospetto al Brigadiere Capozzi, anche perché tutto ciò l’ha riferito a tutte le persone che le andavano a fare visita. Siccome la predetta è donna molto volubile, si ritiene che la stessa abbia detto e messo in giro ad arte tale voce allo scopo di aiutare il marito attualmente detenuto o per altri fini. Ciò lo dimostra che appena avvenne il fatto ella non voleva che si arrestasse il marito in quanto ben aveva fatto, datosi che la colpa era tutta sua.
Sono le tre di pomeriggio dell’8 dicembre 1932 ed è una bella e tranquilla giornata. I Carabinieri di Mongrassano sono tutti in caserma e si godono il tepore che emana la stufa a legna. All’improvviso due, tre, quattro detonazioni e poi le grida e il rumore di gente che corre per la strada li scuotono da quel piacevole torpore. In pochi secondi il Brigadiere Tommaso Capozzi e i suoi uomini corrono verso la piazza del paese, perché è da lì che provenivano le detonazioni ed è lì che la gente sta correndo a vedere cosa diavolo è successo.
È successo che in un angolo della piazza c’è il trentenne Vincenzo Salerno che gronda sangue dalla testa.
– Chi è stato? – gli chiede il Brigadiere.
– Mio cognato Domenico Soria…
‘U Brittatu non si trova. È ormai quasi buio quando lo avvistano in contrada Pianette di Cerzeto e gli intimano di fermarsi. Con Soria c’è un’altra persona, che immediatamente ubbidisce. Soria no, continua a camminare e poi, voltatosi all’improvviso, si mette a urlare all’indirizzo degli inseguitori agitando in aria la mano destra.
Carogna, hai fregato mia moglie e vieni anche a inseguirmitorna indietro perché ti sparo!
Non è chiaro a chi siano indirizzate queste parole, fatto sta che, favorito dalle asperità del terreno e col calar della notte, Soria riesce a seminare gli inseguitori ma,  ferito a un gluteo, viene arrestato due giorni dopo a San Marco Argentano e racconta la sua versione dei fatti:
Sono cognato di Salerno Vincenzo il quale ha sposato una mia sorella e poiché, alla mia uscita dal carcere, mia moglie mi confessò di essersi data, durante la mia assenza, ad altri tra cui al detto Salerno che, anzi, l’aveva spinta sulla via del disonore possedendola lui per primo e facendola poi possedere da altri, io ruppi ogni relazione con lui. Questi, però, mi faceva sapere spesso che voleva parlarmi ma io non gli davo ascolto, finché l’8 dicembre, mentre ero in piazza, fui avvicinato dal Salerno che mi disse volermi parlare. Mi incamminai, allora, insieme a lui ma, fatti pochi passi, egli mise fuori una pistola ed io fui svelto ad afferrargli il braccio; partirono quindi tre o quattro colpi andati a vuoto ed allora estrassi il coltello e colpii più volte il Salerno. Indi mi diedi alla fuga ed egli mi colpì alle spalle con la stessa arma da fuoco. Continuai ancora la corsa ed avendo notato tra i miei inseguitori certo Tavolaro Angelo con la rivoltella in pugno, lo invitai a desistere minacciando di colpirlo con un sasso. Nego pertanto di avere minacciato di sparare il Brigadiere che pure mi inseguiva, come non è vero che fossi armato di rivoltella. Se avessi avuto l’arma l’avrei adoperata in luogo del coltello
Rinviato a giudizio per le due vendette, sconterà un paio di anni. Suo cognato Vincenzo Salerno sarà condannato a 3 mesi per lesioni.
Il 3 settembre 1933 i Carabinieri di San Marco Argentano, finalmente, vengono a conoscenza che in contrada Stamile, Martino Gaudio da più tempo manteneva relazione incestuosa con la figlia Biancadora ed il Vicebrigadiere Giuseppe Lacquaniti raccoglie diverse testimonianze dei vicini di casa, tutte concordanti nel confermare il reato. Raffaele Lecce, per esempio, giura di avere visto Martino Gaudio proprio nel mentre che stava per congiungersi con la figlia sotto un albero di quercia e di aver poi  visto la ragazza che si ha messo le mutande. Aggiunge infine di essere a conoscenza che il Diavolo, per tale ragione è in continua lite con la moglie.
Non ho sorpreso mai sul fatto gli incestuosi – dice Barbara Caparelli, la madre di Biancadora – ma mia figlia mi ha sempre dichiarato che il padre se ne serve di lei quando io, per ragione del mio mestiere, mi assento da casa. Mi ha detto anche che se ne serve di lei nell’aperta campagna e ciò quando io mi trovo in casa. Tempo fa mia figlia mi disse che era affetta da blenorragia e siccome di tale male è stato affetto pure mio marito, quest’ultimo lo contaggiò a me, tanto è vero che tuttora piango le conseguenze
Lacquaniti interroga Biancadora che ammette tutto con parole che ne denotano la disperazione e cercano di nascondere un po’ di vergogna, infatti non parla delle violenze subite fin da bambina:
Da circa dieci mesi sono diventata la mantenuta di mio padre. Sono stata costretta accondiscendere ai voleri di mio padre perché costui mi minacciava sempre che mi scacciava e mi mandava fuori di casa. Spesse volte, dopo aver fatto i suoi comodi, mi minacciò di ammazzarmi se io dicessi qualcosa a mia madre od a qualcuno. Dichiaro inoltre che da circa sei mesi sono affetta da blenorragia e che tale male mi è stato contagiato certamente da mio padre
Ci sono i testimoni, ci sono le parole della moglie e della figlia. Martino Gaudio viene arrestato. Il Pretore emette un mandato di cattura anche per Biancadora, ma non può essere eseguito perché ha partorito da poco. E qui potrebbe e dovrebbe sorgere un altro problema: chi è il padre della creatura, visto che il marito di Biancadora è carcerato da quasi un anno? Invece il dubbio non viene in testa a nessuno, quasi come se fosse una cosa normale.
Interrogato il padre, il Diavolo, nega ogni cosa e accusa:
Quanto mi viene addebitato è falso ed io ritengo che a mettere su questa infamia nei miei confronti sia stato Raffaele Lecce, il quale voleva possedere mia figlia Biancadora. Devo fare presente che circa un anno fa mia figlia fu dal marito sfregiata perché lo stesso riteneva che lo tradisse e da quell’epoca Biancadora non ha più la testa a posto e se mi accusa, certo ciò farà perché non ha più la ragione
Qualche giorno dopo il Pretore ascolta nuovamente Barbara Caparelli e resta a bocca aperta per la sorpresa:
A mia figlia non si deve credere perché ne ha commesse di tutti i colori e perciò io ritengo che mio marito è accusato falsamente. Raffaele Lecce anche lui si è congiunto carnalmente con mia figlia e ciò mi ha riferito lei stessa
Ma che succede? Come mai la madre che ha sempre cercato di proteggerla, adesso le gira le spalle? Nessuno lo capisce. Forse le è stato consigliato di accusare Lecce per salvare il Diavolo, suo marito, magari con la minaccia di essere ammazzata non appena tornato in libertà.
Raffaele Lecce nega e racconta che l’accusa di avere avuto contatti carnali con Biancadora viene da un atto di pietà avuto nei riguardi della ragazza:
Ha dormito una volta nella mia stalla, ma ciò permisi per pietà poiché Biancadora, allorché il marito l’aveva scacciata, non aveva più casa
Accertato con due perizie che Biancadora è affetta da blenorragia, il Pretore le chiede se vuole querelare suo padre. Anche questa volta il Magistrato resta a bocca aperta:
Non intendo sporgere querela contro mio padre perché sono stata io a contagiarlo di blenorragia, male che mi è stato attaccato da Raffaele Lecce col quale sono stata in relazione per circa dieci mesi – che sia lui il padre della creatura? –. Il Lecce non mi ha mai detto di essere ammalato e per questo intendo querelarmi contro di lui. Entro domani porterò a Vostra Signoria le dieci lire per stendere la querela in bollo.
Queste affermazioni non hanno senso, a meno che la ragazza non abbia ricevuto gli stessi consigli dati alla madre. Ecco a che punto è stata ridotta Biancadora, farsi passare per una puttana blenorragica per avere salva la vita.  
A questo punto l’istruttoria può essere chiusa con la sentenza di rinvio a giudizio per entrambi gli imputati. È il 22 gennaio 1934.
Tre mesi dopo, il Tribunale di Cosenza li ritiene entrambi colpevoli di avere tenuto relazione incestuosa con pubblico scandolo e condanna Martino Gaudio a 8 anni di reclusione, mentre Biancadora dovrà scontare 2 anni e 3 mesi.
Martino propone ricorso in Appello. Biancadora no. Non aveva nemmeno i 10 centesimi per la marca da bollo
Al Diavolo il ricorso va bene, la condanna viene ridotta a 4 anni e in ballo c’è anche un condono, quello concesso con Regio Decreto 5/11/1932. Gli spetta. Alla fine del mese di agosto 1935 viene rimesso in libertà. Compresa la detenzione preventiva ha scontato scarsi due anni.
Tornato a casa con l’animo gonfio di propositi nefandi, per prima cosa cacciò dalla casa – che d’altronde si apparteneva alla moglie – tanto costei che Biancadora, costringendole la notte a dormire all’aperto nelle vicinanze della casa. Dopo una settimana di questa loro vita raminga, la mattina dell’8 settembre, le due donne, avendo bisogno di un po’ di biancheria personale, approfittano di una breve uscita del Diavolo ed entrano in casa. Bastano pochi minuti, ma Martino Gaudio rientra in anticipo e le trova. È furibondo perché non hanno rispettato il suo ordine; afferra un bastone e assesta un violento colpo alla testa della moglie che cade svenuta. Biancadora urla, afferra un pezzo di legno e si lancia in difesa di sua madre che sta per essere nuovamente colpita. Il pezzo di legno si abbatte sulle spalle del padre che vacilla ma resta in piedi, mentre il pezzo di legno rotola via. Il Diavolo si gira e guarda la figlia con gli occhi rossi per la rabbia. Biancadora è adesso il suo bersaglio, alza il bastone con tutte e due le mani per colpirla proprio in mezzo alla fronte, ma la ragazza è svelta a scappare fuori di casa, verso la campagna. Il padre la insegue. Biancadora è più veloce e guadagna terreno, ancora un po’ e potrà essere in salvo. Il padre capisce che non potrà mai raggiungerla. A un certo punto la sua collera si trasforma in un sadico bisogno di incanaglirsi ancora di più e comincia a invocare con tenerezza demoniaca il nome bella figlia:
– Biancadora… Biancadora… fermati… voglio scacciare di casa tua madre per restare sempre insieme io e te… Biancadora… fermati…
La ragazza, udendo quelle parole che le fanno sempre più acuto il ribrezzo per le lascivie paterne, arresta di botto la sua corsa e attende a piè fermo suo padre che, raggiuntala, le si fa incontro col bastone alzato tra le mani, pronto a colpirla senza pietà. Biancadora ha previsto tutto, sa che tutto sta per finire, in un modo o nell’altro. Guarda negli occhi il padre che ha riacquistato il suo sguardo duro e pieno di odio. Anche lui sa che quello sarà l’atto finale e, stringendo ancora più forte il bastone per aumentare la violenza del colpo che sta per vibrare, urla:
O la mia o la tua!
La bastonata si abbatte sul capo e il corpo si affloscia a terra come un sacco vuoto. Biancadora guarda il padre inerme a terra. Aveva previsto che il padre stava fingendo, il Diavolo non conosce sincerità e dolcezza, così, mentre il padre le lanciava la sfida vigliacca sapendola disarmata, come un fulmine ha preso un palo di vigna che le stava a portata di mano e gli ha tirato con tremenda energia un colpo in testa. Poi, in preda a un impetuoso rigurgito di odio, rimasto a lungo sigillato, e forse anche a un improvviso, incontenibile bisogno, quasi fisico, di nettare finalmente il suo corpo e la sua anima dalla lordura lasciatavi dai mostruosi amplessi del padre, lo colpisce una seconda e una terza volta sulla testa, fracassandogliela e scandendone il tragico ritmo urlando:
Questo per quel che mi hai fatto quando avevo tredici anni… questo per quando ne avevo sedici… quest’altro per ora che ne ho venticinque!
Forse vorrebbe continuare a colpire ma si accorge dell’accorrere di alcune persone che hanno assistito da lungi, impotenti, al veloce e fatale andamento della scena selvaggia e si ferma. Guarda il cadavere del Diavolo, finalmente sconfitto e, dopo avergli sputato addosso, si allontana rapidamente per andare a costituirsi dai Carabinieri di San Marco.
Biancadora viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio volontario. Il 3 marzo 1936 si apre il dibattimento. Il Pubblico Ministero ammette: da un lato non può negarsi il pieno fondamento della tesi difensiva, secondo cui l’imputata fu costretta alla reazione cruenta contro il padre dalla necessità di difendere, insieme a tutti i santi diritti dell’onore famigliare da costui, per l’innanzi e fino al momento sempre calpestati, anche la sua stessa integrità fisica contro il pericolo grave ed attuale dell’aggressione a mano armata del padre, ma dall’altro è del pari innegabile che essa, nell’esercizio del suo diritto di difesa, abbia ecceduto colposamente i limiti imposti dalla necessità di difendersi. Dappoichè non era punto necessario che ella, dopo avere atterrato il padre col primo colpo di bastone, reiterasse i colpi, dovendo ad essa come a chiunque, apparire tutt’altro che probabile una ripresa offensiva da parte del padre, dopo che questi ricevette il primo colpo, anche nell’ipotesi che questo non fosse stato quello mortale.
È questa la tesi sposata dalla Corte, che ritiene Biancadora Gaudio colpevole di omicidio colposo per avere colposamente ecceduto i limiti imposti dalla necessità di difendere la propria integrità fisica e morale contro l’offesa ingiusta e la condanna a 6 mesi di reclusione, più pene accessorie.[1]
Molti diavoli hanno reso la vita a Biancadora un vero inferno…

 

[1] ASCS, Processi Penali.
    ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
   Questa storia è stata ricostruita attraverso lo studio di quattro procedimenti penali diversi.

 

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