IL PEGGIOR TIPO PATIBOLARE

Angelantonio Scavello ha settant’anni, vive a Roggiano Gravina ed è separato da molti anni dalla moglie, la quale aveva preferito convolare ad altro amore con un uomo residente s Santa Caterina Albanese. Angelantonio trascorre la sua vita tra il paese e un fondicciuolo che possiede in contrada Val del Fico, distante da casa un paio di chilometri, dove accudisce qualche mucca e qualche capra. In paese tutti gli vogliono bene perché, oltre ad avere un carattere faceto, è anche un uomo di cuore che, avendo messo qualche peculio da parte, non rifiuta mai a nessuno dei piccoli prestiti a modico interesse, nonostante qualche volta gli sia accaduto di trovare dei debitori insolventi coi quali ha perduto capitale ed interessi.
Fa freddo alle cinque di mattina del 26 febbraio 1934 quando Angelantonio si avvia verso il suo fondicciuolo. Fa freddo anche un’ora dopo quando il dodicenne Francesco Liparoti si avvia lungo la stessa strada mentre un fresco canto di saluto all’aurora sale dal suo cuore e dalla sua gola di fanciullo. Arrivato a poche decine di metri dalla casetta rurale di Angelantonio Scavello, il fresco canto gli si strozza in gola: pochi metri davanti a lui c’è un uomo che giace bocconi per terra col collo tutto insanguinato!
Francesco è terrorizzato e torna in paese correndo e urlando al soccorso. La gente corre verso la caserma dei Carabinieri per capire che cosa diavolo sia successo e poi, come in processione, segue i Militari lungo la strada che, ad un certo punto, si incassa tra due alte pareti fatte di arbusti così fitti da impedire a chiunque percorra la strada di vedere i dintorni e a chiunque sia nei dintorni di vedere chi percorre quel tratto di strada.
Carabinieri e curiosi ci mettono un secondo a riconoscere il corpo senza vita steso per terra in una pozza di sangue misto a fango e orrendamente mutilato: Angelantonio Scavello!
Oltre a una ferita da pistola calibro dieci con foro di ingresso al fianco sinistro e foro d’egresso all’ipocondrio destro, anche altre cinque ampie e profonde ferite da scure al collo, le quali hanno quasi reciso il capo dal tronco, cui resta legato soltanto da pochi muscoli estensori del collo stesso. Uno spettacolo orrendo.
Vicino al cadavere c’è una scure sporca di sangue con il manico quasi spezzato per la tremenda violenza dei colpi. In una tasca della giacca i Carabinieri trovano, avvolta in un fazzoletto, la somma di 640,60 lire, costituita da cinque biglietti da £ 100, da uno da £ 50, da 9 monete d’argento da £ 10 e da 60 centesimi in monete di rame e nichel: nell’altra tasca c’è un portafogli contenente parecchie cambiali per piccole somme.
Chi può avere ucciso, senza derubarlo, un vecchio benvoluto da tutti? Viene avanzata l’ipotesi che possa essere stato il figlio, che convive con la madre, oppure qualche altro dei congiunti per raccoglierne l’eredità o per altro motivo di rancore. No, questa ipotesi non regge: l’uno e gli altri, oltre ad essere persone di specchiata moralità e di ottima posizione economica, volevano bene al povero ucciso, che, d’altra parte, si scopre subito non essere così facoltoso come si pensava.
Nelle vicinanze del luogo dove è stato trovato il cadavere ci sono delle casette rurali e i Carabinieri si concentrano su una di queste, la più elevata rispetto alle altre ed anche la più vicina a quella del morto e al luogo del delitto. Chi ci abita deve aver sentito la revolverata e forse visto qualcosa, ammesso che non sia addirittura coinvolto nel delitto. La casetta è abitata da un ex Carabiniere, Salvatore Russo, da sua moglie Emilia Zicarello e una zia di quest’ultima, Rosaria Costabile. È proprio il caso di andare a fargli una visita.
– Non abbiamo visto o sentito niente, vero? – Fa Salvatore Russo a sua moglie e alla zia per riceverne la conferma.
– È impossibile, non ci sono nemmeno centocinquanta metri da qui a dove era il cadavere – insiste il Tenente Gaetano Candera.
– E io vi dico che non abbiamo sentito niente! – tuona Russo mentre le due donne annuiscono con aria spaventata.
Sembrandogli poco veritiero questo contegno agnostico degl’individui anzidetti, il Tenente ritiene opportuno ordinare il fermo del Russo e questo provvedimento dà il risultato sperato. La moglie, vedendo il marito che viene tradotto in caserma coi ferri ai polsi, si avvicina al Tenente e gli dice:
Sienti ca ti dicu na cosa!
– Signora, se avete qualcosa da dirmi, favorite in caserma! – Le risponde, fingendo un contegno burbero.
La donna, accompagnata dalla zia, si accoda al corteo e, non appena entrata in caserma, comincia a raccontare:
– Sono uscita fuori dalla casetta alle prime luci dell’alba per soddisfare all’aperto un bisogno corporale. Notai, e distinsi bene, Salvatore Patitucci‘u figghiu d’u ghiegghiu… che stava in attitudine di attesa davanti la porta della casetta del vecchio Scavello, ancora chiusa. ma il fatto non mi destò alcuna meraviglia perché più volte ho visto Patitucci nei pressi della casella del vecchio. Soddisfatto il bisogno rientrai in casa e, dopo alcuni minuti, nell’uscire di nuovo, udii la detonazione di un’arma da fuoco. Feci alcuni passi all’aperto per rendermi conto di quanto avevo udito e vidi Patitucci che, provenendo precisamente dal punto ove fu poi trovato ucciso Scavello, si allontanava in fretta verso il terreno tenuto da lui in fitto. Allora ebbi il sospetto che qualcosa di grave avesse egli commesso, tanto che non appena mia zia si levò dal letto, sentii il bisogno di rivelarle tutto. A mio marito però non ho detto niente, neppure quando poco dopo appresi dell’omicidio, perché temetti che mio marito, venuto a conoscenza del mio segreto, potesse, rivelandolo ad altri, provocare la rappresaglia contro di lui di un uomo terribile come è Patitucci
La zia, interrogata, conferma tutto e l’ex Carabiniere può tornare a casa, ma deve restare a disposizione in attesa di verificare le parole della moglie.
Il trentatreenne Salvatore Patitucci, scrivono i Carabinieri, è conosciuto come un criminale di sinistra fama, che la voce pubblica di Roggiano designa quale autore dell’omicidio in danno della vecchia Maria Maddalena Cavaliere, avvenuto nel novembre del 1932 e rimasto sempre nel più fitto mistero, nonché della morte misteriosa di certo Stefano Di Carlo. Può essere l’uomo giusto e dopo meno di due ore è già sotto torchio in caserma:
– Sono innocente! Come ve lo devo dire? Ieri sera sono stato all’osteria con gli amici; ho parlato con Salvatore Nocito in merito alla castrazione di un maiale che avevamo rimandato ad oggi e poi siamo andati a casa di una puttana. Stamattina mi sono alzato, mi sono messo il vestito nero che ho addosso e verso le 8,00 sono andato in Piazza dove trovai alcune persone che parlavano dell’omicidio, di cui avevo già avuto la prima notizia dal figlio della mia amante mentre eravamo ancora a casa
Poi ci ripensa e modifica la sua dichiarazione:
Il mattino del 26 febbraio, mentre ero ancora a letto, venne a bussare alla porta Salvatore Nocito per prendere accordi circa la castrazione del mio maiale, parlando al riguardo con la mia amante Rosina Covello. Andato via Nocito, dopo un bel pezzo, verso le sette, mi levai dal letto indossando la giacca, i pantaloni neri e le scarpe gialle che mi vedete addosso. Quindi, così vestito, mi recai in soffitta per riscaldarmi al fuoco che la mia amante aveva già acceso ma, dopo alcuni minuti, scesi giù a piano terreno ove era venuta Rosina Furlani che mi chiese in prestito dei fiammiferi. Andata via la donna uscii di casa ch’erano già le otto e, dopo alcuni passi, m’incontrai di nuovo con Nocito col quale mi fermai a discorrere circa la castrazione del maiale senza, però, prendere neppure allora alcun accordo definitivo. Poscia mi diressi verso la Piazza ove incontrai gli amici
Quindi adesso avrebbe due testimoni che lo avrebbero visto in casa nei momenti in cui il vecchio veniva barbaramente assassinato. In più c’è l’amante che gli ha acceso il fuoco. L’amante,  è il caso di iniziare da lei per sentire cosa ha da dire sulle prime ore del mattino. Rosina Covello conferma, ci mancherebbe altro, le visite di Nocito e della Furlani, ma tiene a precisare:
– Non ho acceso il fuoco quella mattina e Salvatore non è salito in soffitta perché è uscito di casa appena fatto giorno e, dopo essere rimasto fuori per un certo tempo, ha fatto ritorno proprio pochi momenti prima che venisse la Furlani. Poi è uscito di nuovo dirigendosi verso la Piazza… inoltre non è vero che io seppi dell’omicidio per bocca del mio amante quando ritornò dalla Piazza…
Prima smentita. E siccome le versioni dei due amanti non combaciano, Rosina Covello viene arrestata per favoreggiamento.
Non ho fatto il discorso della castrazione del maiale in casa di Patitucci, ma verso le sei quando lo incontrai che era già fuori di casa – giura Nocito.
– Avete notato quali abiti indossava?
– Indossava abiti da lavoro.
Seconda smentita.
– Quando andai a chiedere i fiammiferi erano le otto e in casa trovai Patitucci che era ancora senza giacca e, avendo solo infilati i pantaloni, si stava allacciando le scarpe gialle – giura la Furlani.
Terza smentita.
La situazione di Salvatore Patitucci si aggrava sempre di più. E peggiora ancora di più quando vengono chiamati a testimoniare la prostituta visitata la sera prima dell’omicidio e gli amici che Patitucci ha incontrato in Piazza.
– È venuto con i suoi amici ed è andato via verso mezzanotte… ma debbo dirvi che qualche giorno dopo, mentre ero detenuta insieme a Rosina Covello, questa mi ha istigata a dire al giudice, contrariamente al vero, che Salvatore, la sera che è venuto a casa mia, indossava lo stesso abito nero che aveva al momento dell’arresto e non già il solito abito da lavoro che gli avevo visto quando venne da me
– Quando Salvatore si è avvicinato a noi era già informato del nome dell’ucciso mentre noi lo ignoravamo perché il ragazzino non aveva saputo dircelo e poi, senza essere interpellato ci disse: “E chi volete che lo abbia ucciso se non qualche parente per avere la robba?” e poiché qualcuno obiettò che i parenti sono tutti facoltosi, disse: “Ti dico che sarà stato qualcuno di essi… io li farei arrestare tutti quanti!” e, nel dire così, appariva turbato
I guai aumentano ancora anche perché ci sono due piccoli particolari: gli abiti da lavoro di cui tutti parlano sono letteralmente spariti e i risultati dell’autopsia:
a produrre la morte immediata del povero Scavello sarebbe bastato, come bastò, il colpo di pistola contro di lui sparato a bruciapelo al fianco sinistro che, dopo aver spezzato l’ottava costola, perforò il pulmone sinistro e lo stomaco. L’assassino invece non fu di ciò pago ma continuò ad incrudelire con tanta bestiale violenza contro la sua vittima da vibrarle ancora sulla regione posteriore del collo ben cinque tremendi colpi di scure che le recisero quasi il capo dal tronco. Tanto basta a fare ipotizzare agli inquirenti che concorra l’aggravante della crudeltà in quanto l’assassino non aveva alcuna necessità d’infierire, come ha infierito, sulla sua debole ed infelice vittima.
Ma il colpo di grazia per i due amanti lo assesta Maria Garofalo, che qualche giorno dopo racconta al giudice:
Uno o due giorni prima del delitto mi trovavo a percorrere una strada di campagna per la quale procedevano innanzi a me Patitucci e la Covello, senza che si accorgessero, per l’accidentalità della strada, della mia presenza. Ad un certo punto sentii Rosina che diceva all’amante: “Salvatore, guarda che quello ha raccolto i soldi!”; e Patitucci le rispose: “E se poi vado in galera non è peggio?”; al che Rosina gli rispose: “Ma che! Con due o trecento lire che dai a un avvocato uscirai a libertà!”.
– È tutto falso quello che dicono! Anzi, io non ho mai posseduto altro vestito oltre a quello che indosso! – si ostina a ripetere Patitucci.
Per il Giudice Istruttore ci sono tutti gli elementi per rinviare a giudizio Salvatore Patitucci con la terribile accusa di omicidio a scopo di rapina e con crudeltà, un reato che potrebbe portarlo dritto alla condanna a morte. Rosina Covello, invece, viene rinviata a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, avendo aiutato il Patitucci ad eludere le investigazioni dell’autorità. È il 22 gennaio 1935.
Il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza si tiene a partire dal primo luglio 1935 e la Corte non ha dubbi sulla responsabilità penale degli imputati. Alla fine del dibattimento si è in grado di ricostruire le modalità del brutale assassinio: Patitucci, recatosi nel mattino del 26 febbraio alla casetta rurale di Scavello, ivi non lo trova. Dopo averlo atteso per qualche minuto davanti la casetta, ove viene visto dalla Zicarelli, Patitucci a un certo punto scorge il vecchio avviarsi verso la strada incassata, che è poco distante dalla casetta, e lo raggiunge. Percorrono insieme alcuni passi e, quando sono in un punto ove la strada è più incassata e più nascosta, gli esplode dapprima un colpo di pistola e poscia, strappata dalla debole e inerte mano della vittima la scure che portava, le assesta più e più colpi sul collo, in modo da reciderle quasi la testa dal tronco. Indi, certo ormai di aver reso muto per sempre il povero vecchio, continua a risalire il resto della strada incassata, raggiunge l’altura ove è scorto dalla Zicarelli e si dirige frettolosamente verso il suo fondicciuolo, donde gli è facile raggiungere in pochi minuti il paese verso le sei o sei e mezzo. Entrato in casa si accorge che gli indumenti che indossava sono in più punti sporchi di stille di sangue schizzate dal collo della vittima, si affretta a toglierseli di dosso e va in soffitta con la sua druda , ove questa si incaricò di distruggerli al fuoco oppure in altro modo sopprimendoli. Deve essere andata proprio così, ma manca un elemento essenziale: il movente. La Corte cerca di sciogliere anche questo nodo: opina la Corte che vi sono almeno 90 probabilità su 100 che l’imputato abbia ucciso il povero Scavello per derubarlo. Onde è che, se verosimilmente fu il movente della rapina che determinò l’imputato a uccidere Scavello, il fatto che egli siasi poi astenuto dal rovistargli le tasche per depredarlo della somma che venne trovata intatta addosso alla vittima, non è in contrasto con il movente in quanto ben può darsi che l’imputato sia stato impedito dall’improvviso giungere al suo orecchio il canto del fanciullo. Ciò farebbe propendere la Corte a comminare la pena di morte. Ma questa ha appena ammesso che il movente della rapina è probabile al 90%. Insomma, non potendo escludere del tutto l’ipotesi che l’omicidio sia stato commesso per una causale diversa da quella del furto, la responsabilità del prevenuto va affermata nei limiti di un omicidio commesso da lui, non soltanto in condizioni normali d’intendere e di volere, ma anche con crudeltà per le modalità efferate della sua esecuzione. Niente pena di morte.
Per quanto riguarda Rosina Covello la Corte osserva che ella soltanto, dato il suo turpe attaccamento di di donna adultera a un criminale di sinistra fama come Patitucci, dovette provvedere a far scomparire gli abiti di lavoro che costui indossava al momento del delitto e che, dovendo essere intrisi di sangue, costituivano la prova irrefutabile a carico di costui.
Con queste argomentazioni, la Corte condanna Salvatore Patitucci all’ergastolo, più pene accessorie e risarcimento dei danni alle parti civili per complessive 35.646 lire, comprese 2.500 lire di spese legali. Inoltre la Corte ordina che la sentenza venga pubblicata mediante affissione nei Comuni di Cosenza e Rogiano Gravina e, per estratto e per una sola volta, nei giornali “Cronache di Calabria” e “Il Mattino” di Napoli.
Rosina Covello viene condannata a 8 mesi di reclusione e alle spese.
Il 10 febbraio 1936 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell’imputato e Salvatore Patitucci, definito dai Carabinieri come “il peggior tipo patibolare che gli archivi criminali possano registrare” passerà il resto dei suoi giorni dietro le sbarre.[1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

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