LA NIPOTINA PREDILETTA

Sono da poco passate le sei di pomeriggio del 24 novembre 1922 ed a San Giovanni in Fiore fa freddo. In casa di Pasquale Bitonti si accende l’ennesima discussione tra questi e suo fratello Domenico, cinquantenne, che abita nella stessa casa. Il motivo è sempre lo stesso: Domenico, uomo dedito completamente al vino, prevedendo che un bel giorno avrebbe dissipato tutto il suo avere nelle osterie, pensò bene di far donazione di un pezzo di terreno di sua pertinenza a suo fratello Pasquale il quale, in corrispettivo, s’impegnò a fornirgli alloggio e vitto, ma da un po’ di tempo Domenico, finito il contante, rivuole indietro quel pezzo di terra che Pasquale gli rifiuta per evitare che finisca in vino. E di soldi Domenico se ne è bevuti molti. Pensate che, dopo la morte di un suo zio prete con il  quale aveva vissuto fino all’età di 17 anni e aver contratto dei debiti per le cure, Domenico emigrò in Brasile con Pasquale dove lavorò per tre anni in una miniera di carbon fossile, raggranellando una discreta somma, con parte della quale ripianò i suoi debiti. Ritornato in paese, dopo poco emigrò di nuovo, a New York questa volta, e ritornò in paese con un altro gruzzoletto con il quale comprò il pezzo di terra in questione. A San Giovanni, grazie agli studi che lo zio prete gli aveva fatto fare e all’esperienza acquisita a New York, trovò impiego, prima come canneggiatore e poi come guardia giurata, nei lavori dei laghi silani, restandovi per circa 18 anni, poi, aumentato il lavoro e diminuito il salario, abbandonò l’impiego e cominciò a lavorare per conto del geometra ingegnere Mancini. Celibe, tutto ciò che guadagnò, lo spese in vino.
– Mi hai seccato con questa storia! Prendi appuntamento col notaio e facciamo la retrocessione! – Pasquale è stanco dei continui insulti e minacce rivolte non solo a lui, ma anche ai suoi figli.
– Mò lo voglio! – insiste Domenico al quale ormai anche poche gocce di vino fanno perdere i lumi della ragione.
Pasquale non replica e preferisce uscire, come fa sempre quando Domenico comincia a dare i numeri, per evitare che la discussione possa degenerare.
Non essendoci più suo fratello col quale litigare, Domenico comincia a prendersela con le nipotine, sedute davanti al caminetto con la nutrice Vittoria Rotella.
– Caterì! – urla verso la quindicenne Caterina, la nipote più grande e la sua preferita – dì a tuo padre che voglio la mia proprietà!
– Diglielo a papà, io non so niente di proprietà! – risponde seccata.
Domenico si morde una mano in segno di minaccia, poi va nella stanza accanto.
Alle sei di pomeriggio del 24 novembre 1922 il Pretore di San Giovanni in Fiore, Nicola Mazzocca, sta giocando a carte nel Circolo di riunione di Piazza Abate Gioacchino. All’improvviso l’atmosfera cordiale del circolo viene rotta dal rimbombare di un colpo di arma da fuoco sparato non molto lontano e, subito dopo, dalle alte grida invocanti soccorso.
Mazzocca butta le carte sul tavolo e scende in strada per capire cosa sia accaduto. Davanti al fabbricato dei Bitonti, posto praticamente di fronte alla sede del circolo, c’è della gente che urla. Il Pretore si fa largo e sale al primo piano, seguito dalla gente che è accorsa e, tra questa, i dottori in medicina Saverio Lopez e Luigi Andrea Romei. I tre vengono fatti entrare in una stanza dove ci sono alcune donne che sorreggono una giovanetta dell’apparente età di anni 15, Caterina, e la fanno sedere sulla sponda di un lettino che si trova nella stessa stanza. Caterina perde abbondantemente sangue dal gomito sinistro, mentre dalla coscia sinistra il sangue esce con spruzzi violenti, inondando tutto ciò che è intorno. I medici si fanno largo e cominciano a prestare le prime cure per tamponare l’emorragia e non tardano ad accorgersi che le ferite sono state provocate da grossi pallini da caccia che hanno prodotto la frantumazione del femore e la rottura dell’arteria femorale. Caterina rischia di morire in pochi minuti, ma i medici riescono a fermare l’emorragia, guadagnando tempo. Il Pretore ne approfitta per chiedere alla ragazzina chi le ha sparato.
 Zu Micuzzu… ero seduta al fuoco con le mie sorelline e Vittoria… lui aveva litigato con papà per il terreno… poi è andato a prendere il fucile… mi ha detto che lo voleva subito… io non ho potuto rispondere perché mi ha sparato…
Di più Caterina non riesce a dire, dato lo stato di prostrazione in cui si trova, così il Pretore manda a chiamare i Carabinieri, che si mettono subito alla ricerca di Domenico Bitonti.
Sono le 19,30. il Pretore è ancora al capezzale di Caterina a seguire ciò che fanno i medici, quando dalla piazza arriva un vocìo concitato. Mazzocca scende in strada e, nel traversare la folla che vi si era formata, gli urlano che Domenico Bitonti, ubriaco, è stato arrestato ed è nella caserma dei Carabinieri.
Quando il Pretore se lo trova davanti, la sensazione è che non sia affatto ubriaco perché alle sue domande risponde con lucida precisione.
Dovendo recarmi ai laghi silani per conferire col direttore, avevo preso il fucile da caccia che trovai appeso al muro e avevo cominciato a pulirlo esternamente con uno straccio, quando all’improvviso, senza aver fatto alcun movimento, è partito un colpo che ha attinto mia nipote che era seduta accanto al fuoco
– A quale parete era appeso il fucile?
– Vicino alla porta…
– E il focolare dove si trova?
– Nella stessa stanza, nella parete dirimpetto
– E allora, se è come dite, come mai Caterina, che era seduta al fuoco, è stata colpita di fianco e non alle spalle?
Ma io stesso non ricordo, né saprei indicare il movimento che ho fatto prima che partisse il colpo
– A quale distanza vi trovavate dai vostri nipoti?
Non ricordocredo brevissima perché mi ero avvicinato a loro
– Ci risulta che avevate litigato con vostro fratello e poi con vostra nipote per la questione del terreno…
Non è vero che abbia litigato con mia nipote per la proprietà perché essa certamente non poteva nulla dirmi al riguardo
– Ma, se è stata una disgrazia, perché siete scappato?
Sono scappato perché temevo che il dottor Barberio, il quale mi aveva dato la notizia dell’arrivo del direttore dei laghi silani e che mi aspettava in istrada, ed anche il padre di mia nipote, accorrendo, non avessero creduto che si trattava di una disgrazia e mi avessero sparato
– Come mai il fucile era carico?
Nel ritirarmi da caccia ho io stesso scaricata l’arma e l’ho appesa al muro… non so spiegarmi come mai si ritrovasse carica.
– Si trovava carica o perché non l’avevate scaricata o perché l’avete ricaricata con l’intenzione di sparare…
Nego recisamente di averla caricata io stesso!
Nel frattempo, a casa Bitonti la situazione precipita. I punti di sutura non reggono e l’emorragia riprende più impetuosa di prima, senza che i medici possano porvi rimedio. Prima di mezzanotte Caterina, creatura innocente, muore.
Omicidio volontario.
In paese comincia a respirarsi un’aria strana. Molti sostengono che alcuni amici di Domenico stanno organizzando delle manovre per tirarlo fuori dai guai e l’avvocato cosentino Ernesto Fagiani, difensore di parte civile, scrive al Procuratore del re per metterlo in guardia da questi tentativi: la rapida raccolta degli elementi di fatto ed in genere la mancanza di ogni indugio nella definizione delle indagini e delle ricerche saranno, a mio modesto avviso, i migliori mezzi per sventare le macchinazioni ordite ai danni della giustizia.
Poi si presenta al Pretore tale Francesco Ferrarelli e gli racconta che quella sera Domenico andò a casa sua e lo pregò di nascondergli il fucile, spiegando che aveva sparato in casa e non sapeva chi avesse ferito. Ecco che fine aveva fatto il fucile che nessuno riusciva a trovare!
Comunque, macchinazioni o non macchinazioni, il 9 aprile 1923, la Sezione d’Accusa, su richiesta della Procura generale del re, rinvia Domenico Bitonti al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Il dibattimento è fissato per il 10 gennaio 1924.
Nasce subito la questione se Domenico quella maledetta sera fosse ubriaco, come sostiene la difesa, o no, come sostengono l’accusa e la parte civile e, soprattutto, quale fosse il suo grado di sopportazione dell’alcol. Le dichiarazioni sono estremamente contrastanti e, per uscire dall’impasse, la parte civile gioca il tutto per tutto e chiede che l’imputato sia sottoposto a perizia psichiatrica per accertare, come sostiene la difesa, che si fosse trovato in istato di totale infermità di mente per frenosi alcolica nel momento in cui commise il fatto.
Con l’accordo di tutte le parti, Domenico Bitonti viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Napoli e sottoposto alla perizia dei professori Giuseppe De Crecchio e Riccardo Lombardo. È il 9 maggio 1924.
Noi abbiamo riscontrato un numero imponente di note degenerative di grande importanza: dolicocefalia, plagiocefalia, plagioprosopia, capacità cranica superiore alla norma, apertura delle braccia superiore alla statura, differenza di lunghezza delle due braccia e delle due mani, circonferenza del braccio, gamba e coscia sinistra uguale a quella delle corrispondenti di destra, orecchie diseguali, con elice spianate e lobuli aderenti, di diseguale misura, tubercolo del Darwin a sinistra e leggermente ad ansa, deviazione della colonna vertebrale, asimmetria toracica, lingua protrusa deviata a destra, dentatura guasta. Tutte queste note, data la loro preponderanza, ci autorizzano ad affermare, secondo gli apprezzamenti scientifici odierni, che il Bitonti non è di una regolare organizzazione e deve considerarsi, perciò, un individuo di livello organico alquanto basso. Nemmeno le note familiari sono buone: vi furono, negli ascendenti del soggetto, casi di alcoolismo, di stranezza e di tubercolosi pulmonare. Noi sappiamo quale grave danno eserciti sullo sviluppo psichico dei discendenti l’alcoolismo dei genitori, che spesso può dare luogo alle più gravi forme di cerebropatia, e danno non meno grave è esercitato dall’azione del tossico tubercolare. I periti scoprono anche che Domenico Bitonti in passato fu curato per disturbi psichici derivanti dall’abuso di alcool: egli vedeva fuoco al soffitto di casa sua ed aveva l’impressione che la casa gli cadesse addosso; aveva anche delle scosse nervose e ricorda pure di avere, di notte, incontrato in una strada solitaria come un fantasma che gl’ingiunse di tornare indietro; spesso si recava in chiesa a confessarsi e mostrava il desiderio di farsi monaco. Può darsi, quindi, che effettivamente il Bitonti allora sia stato colto da disordini mentali, probabilmente da delirio allucinatorio.
Ma tutto ciò, sostengono i periti, non autorizza ad ammettere una qualunque forma di psicosi alcoolica. Infine, risulta dagli atti che Domenico Bitonti avrebbe bevuto, qualche ora prima del reato, solo qualche bicchiere di vino, cosa che non dimostra affatto che fosse ubriaco al momento del delitto, ma suo fratello Pasquale, il padre della povera Caterina, sostiene che l’imputato è un alcolista inveterato e che era divenuto col tempo così sensibile all’azione dell’alcool, che poche gocce valevano ad ubriacarlo, tanto che egli era quasi sempre in tali condizioni. I periti confermano questa affermazione ricordando che i neuropatici, gli epilettici, i degenerati, reagiscono abnormemente all’azione dell’alcool e in essi la ingestione anche di piccole quantità può determinare reazioni violente contro cose e persone.
Detto ciò, De Crecchio e Lombardo passano alle conclusioni:
1) Bitonti Domenico è soggetto gravato di tara neuropatica ereditaria con difettosa organizzazione psico-somatica originaria;
2) Egli nell’epoca in cui commise il reato non era affatto affetto da malattia mentale;
3) L’atto delittuoso da lui commesso fu l’effetto di uno scoppio di collera morbosa, inerente alla sua difettosa costituzione ed all’azione continuata ed attuale dell’alcool;
4) Egli, pertanto, pur avendo nel momento del reato la coscienza e la libertà dei propri atti, queste erano grandemente scemate e deve perciò beneficiare delle attenuanti di legge.
È il 9 giugno 1924 e la sorte del processo è segnata.
Ripreso il dibattimento, il primo dicembre 1924 alle ore 11,35, la Corte, preso atto del risultato della perizia, ritiene l’imputato colpevole del reato ascrittogli e lo condanna a 1 anno, 11 mesi e 10 giorni di reclusione, oltre al risarcimento del danno quantificati in £ 10.000.[1]
Questo vale la vita di una ragazzina di 15 anni.

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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