ARRENDETEVI E USCITE CON LE MANI ALZATE

È il tramonto del 28 marzo 1937 ed a Sambiase ha appena smesso di piovere. Il trentaseienne Giuseppe Ruberto, con un certificato penale lungo tre pagine, torna a casa dopo essersene allontanato dal giorno prima. Sua moglie, la trentaquattrenne Innocenza, gli rivolge un severo sguardo di rimprovero
– Perché mi guardi storto?
– Non posso guardarti sorridendo… manchi da casa da ieri sera e mi hai lasciata con i bambini senza viveri e senza denaro
Giuseppe, a queste parole, perde la testa. Afferra la moglie, che è prossima al parto, per i capelli e la sbatte contro un muro, poi caccia di tasca la rivoltella e gliela punta violentemente sotto il mento. Innocenza urla, chiede aiuto a sua madre e sua sorella che abitano accanto. Giuseppe si distrae un secondo per vedere se arrivi qualcuno e Innocenza ne approfitta per sottrarsi alla presa e scappare per rifugiarsi in casa di sua sorella Gaspara. Giuseppe la raggiunge ma non riesce a metterle le mani addosso perché tra i due si frappone la madre di Innocenza, Rosa De Fazio
– Non ti basta averla lasciata senza mangiare, adesso la vuoi ammazzare?
– Zitta, puttana, ché ammazzo pure te! – le urla in faccia con tutta la rabbia che ha dentro, cercando di afferrare per la gola sua moglie
Se devi uccidere una, uccidi me e risparmia lei che è grossa gravida! – lo sfida, non sapendolo capace di potere arrivare a tanto
– Zitta puttana! – continua ad urlare Giuseppe
– Allora vado a denunciarti ai Carabinieri…
– Tu non vai a denunciare nessuno! – le dice freddamente, rivolgendole uno sguardo assassino. Il suo viso segnato dallo sfregio che gli hanno lasciato qualche anno prima due compari sembra quello del demonio in persona
Se non ci va mamma a denunciarti, ci vado io – interviene Innocenza
È in questo preciso istante che Giuseppe estrae la rivoltella e fulmineamente spara un colpo contro Rosa, colpendola sotto la clavicola destra. La donna viene spinta all’indietro dalla forza del proiettile e finisce addosso ad Innocenza. Poi si affloscia a terra come un sacco vuoto, già morta. Ancor prima che Innocenza e Gaspara trovino la forza per urlare, Giuseppe scappa verso le campagne circostanti.
È ormai sera inoltrata quando Giuseppe, vagando senza meta nei pressi della cabina elettrica di Sambiase incontra un suo amico, Vincenzo Andricciolo, e gli racconta il fatto. Improvvisamente Andricciolo lo afferra per una spalla e gli indica la guardia campestre Pietro Mazzei, ferma in quelle vicinanze
– Tranquillo, non ha niente da farmi – gli dice Giuseppe, continuando a camminare. Fatti altri pochi passi, però, Andricciolo gli tira la giacca e gli sussurra
– L’ho sentito che diceva: “Questa carogna ammazzò la suocera…”
– Sicuro? L’hai sentito sicuro?
– Si, te lo giuro sull’onore di mia moglie!
A questo punto Giuseppe si sente obbligato ad affrontare Mazzei e gli dice
Carogna sei tu perché a me mi è successa una disgrazia!
Mazzei, sbigottito, fa l’atto di mettere una mano in tasca. Giuseppe pensa che stia per estrarre un’arma e cerca, a sua volta, di prendere la rivoltella che ha in tasca, ma l’arma si impiglia nella fodera e non ci riesce. Andricciolo, vedendo ciò, prende la sua rivoltella e la mette nella mano di Giuseppe il quale esplode tre colpi contro la guardia campestre colpendolo ad un braccio, poi i due amici scappano
– Stanotte ti porto a dormire nella mia baracca nella contrada Troppe – gli propone Andricciolo
– Lì non ci vado, non è un posto sicuro perché ci bazzica Angelo Cerra da quando è latitante…
– Come vuoi… allora andiamo a Ferruzza nella proprietà di Amendola… il colono è mio cugino e ci facciamo prestare il suo fucile
E così fanno. Andricciolo però resta nascosto ed a parlare con suo cugino ci va solo Giuseppe. L’uomo, capita l’antifona, dice di non avere il fucile perché lo ha già prestato e i due amici si rimettono in viaggio. Di punto in bianco
Andricciolo comincia a fare dei discorsi strani
Tu ora certamente prenderai l’ergastolo e non vedrai più libertà, perciò ti raccomando d occuparti di “Tacchiale”, cioè la guardia campestre Pasquale Rocca e Iacopetta [si riferisce al Maresciallo Capo Ilario Iacopetta, comandante della stazione dei Carabinieri di Sambiase. Nda] perché si stanno interessando per fare la guardianìa ed io e i miei compagni non potremo più fare i guardiani privati…
Giuseppe non segue il consiglio dell’amico perché si è accorto che sta recitando una doppia parte: da un lato lo ha istigato a sparare contro Pietro Mazzei, dall’altro lo sta dipingendo sia agli altri che alla Giustizia a tinte nere e continua a nascondersi nelle campagne. E ha pienamente ragione: Andricciolo, infatti,  si è presentato dai Carabinieri e ha cercato di rovinarlo del tutto
Verso le 19 di ieri venne alla mia abitazione Giuseppe Ruberto con due rivoltelle in mano, una calibro 10 e mezzo e l’altra calibro 38, e mi obbligò ad andare con lui nel rione Cafaldo. Mi obbligò ad indicargli l’abitazione della guardia campestre Pasquale Rocca, quella di Domenico Mascaro, quella di Giovanni Sirianni, quella dei fratelli Giuseppe e Francesco De Biase. Dopo scendemmo verso via S. Sidero e nei pressi della cabina elettrica incontrammo Pietro Mazzei. Senza alcun motivo, Ruberto gli esplose contro tre colpi di rivoltella, quasi a bruciapelo. Per potermi allontanare da Ruberto, gli promisi che nella giornata di oggi gli avrei procurato un fucile
Adesso Giuseppe deve guardarsi non solo dalla legge ma anche dalla malavita. Però è furbo e riesce a dimostrare a molti suoi compari che non ha nei loro confronti le intenzioni aggressive che gli erano state riferite. Come ci è riuscito? Semplice, salvando loro la vita quando ne aveva un paio sotto tiro. Ma tutto ciò il possidente Giovanni Sirianni non lo sa e lo cerca per ammazzarlo.
È il primo pomeriggio del 7 aprile. Giuseppe incontra la domestica di Sirianni e le chiede dove può trovare il padrone
È nella sua proprietà con i giornalieri
Col fucile in spalla, Giuseppe lo va a trovare. Vede che gli operai se ne stanno andando e temporeggia qualche minuto, poi si presenta
Con quale coraggio vieni in caccia di me? – attacca Giuseppe. Sirianni, molto più prestante di Giuseppe e temuto da tutti come uno dei più pericolosi affiliati alla malavita di Sambiase. Lo guarda con espressione maffiosa e mette la mano nella tasca dei pantaloni, dove si può vedere uno strano rigonfiamento.
– Ci dobbiamo spiegare… – Giuseppe, per la lunga conoscenza del Giovanni [dopo essere rimasta vedova, la madre di Giuseppe fu fatta amante di Sirianni. E fu lo stesso Sirianni che, fin da ragazzo, inserì Giuseppe nella malavita Nda], tiene gli occhi sulla mano in tasca di Sirianni perché sa che sta stringendo la pistola di cui è sempre armato. Sirianni non sembra badare a ciò che Giuseppe gli sta dicendo e mentre tiene in tasca la mano destra, con la sinistra intima a Giuseppe di fermarsi. La sensazione che Giuseppe ha è quella che non può perdere un attimo perché Sirianni sta per sparargli, così, come un fulmine, imbraccia il fucile e lo ammazza. Poi continua a nascondersi.
Adesso sulle sue spalle gravano due omicidi e un tentato omicidio, la Giustizia non può più perdere tempo, deve essere preso vivo o morto. Finalmente sembra arrivare la soffiata giusta. Ruberto viene accompagnato di frequente e favorito dal pregiudicato Folino Giuseppe e gli sforzi vengono concentrati su quest’ultimo, così gli inquirenti scoprono che, saltuariamente, i due vanno a dormire in un grande caseggiato di proprietà del possidente Enrico Cristiano in contrada Carrà o Pullo. I Carabinieri tengono d’occhio in modo discreto la zona e, quando sono sicuri che i due sono nel fabbricato, viene predisposta un’azione congiunta tra i militari dell’Arma e la Questura di Catanzaro.
Sono le 4,00 del 19 aprile 1937. Il Questore e due ufficiali dei Carabinieri guidano l’operazione di accerchiamento del fabbricato a cui partecipano otto militari e quattro agenti di polizia, tutti in abito simulato.
– Arrendetevi e uscite con le mani alzate! – urla il Capitano dei Carabinieri Giuseppe Palmegiano da dietro il suo riparo. Nessuna risposta. Poco dopo, da uno spiraglio di un finestrino del piano superiore del caseggiato che venne aperto leggermente dalla parte interna, si intravide la canna di un fucile e nel contempo vennero esplosi alcuni colpi di rivoltella. A tale atto venne risposto da parte dei militari dell’Arma con colpi di moschetto contro la detta finestra.
– Giusppe Ruberto! Non fare sciocchezze, arrenditi senza fare resistenza!
– Con me ci sono altri latitanti e siamo disposti a fare un macello piuttosto che farci arrestare! – si sente urlare da dentro
È un bluff, ma gli accerchianti non lo sanno e la faccenda si complica, rischiando di andare per le lunghe, così arrivano altri undici Carabinieri di rinforzo. Dopo un paio di ore di attesa, viene di nuovo intimato a Ruberto di arrendersi. Questa volta la risposta sembra aprire ad una possibile soluzione
– Mi arrenderò solo se farete venire qui mia moglie e i miei figli!
È una richiesta che si può accogliere.
Innocenza viene fatta avvicinare con i figli alla grata di una finestra al piano terra del fabbricato e da lì parla al marito
– Giusè… per l’anima dei morti e di questi innocenti, esci e arrenditi…
Ancora non posso… non sono dispostopoi se ne parla… e poi ho paura che se esco mi ammazzano davanti a
voi
… ora andatevene
La delusione tra le forze dell’ordine è palpabile e si studia una nuova strategia per stanare i criminali. Nel frattempo arrivano sul posto anche il Prefetto di Catanzaro, Salvatore De Luca, ed il comandante del Gruppo Esterno dei Carabinieri, Maggiore Pasquale Bruno. Viene deciso di fare arrivare delle bombe a mano per scardinare le possenti porte del fabbricato e fare irruzione. Verso mezzogiorno arrivano l’esplosivo e altri dodici Carabinieri. Tutto è pronto per l’assalto finale.
All’interno del fabbricato, intanto, Ruberto e Folino si rendono conto che qualcosa di grosso sta per accadere e decidono di asserragliarsi nella sottostante cantina costruita in cemento armato, calandosi con una rudimentale corda fatta strappando una coperta e da qui sparano ad ogni rumore che segnala il tentativo di scardinare le porte d’ingresso.
Due forti esplosioni scuotono il fabbricato e le porte vengono sbriciolate. Quando Carabinieri e Polizia entrano non si vede niente per la coltre di fumo e polvere, ma si capisce subito che non sarà possibile avvicinarsi alla botola che dà accesso alla cantina senza che ci scappi il morto, così, con altre due bombe, vengono aperti due buchi nel pavimento e da qui comincia una furibonda sparatoria. Niente da fare, il calcestruzzo dei muri interni della cantina è un riparo formidabile. Bisogna escogitare dell’altro. Si tenta allora di stanare gli assediati sparando dalle botole con moschetti mitragliatori e lanciabombe, ma è tutto inutile. Non servono nemmeno le bombe fumogene, gli assediati resistono.
È ormai sopraggiunta l’oscurità della notte e s’intuì che l’idea dei malviventi era quella di temporeggiare per tentare la fuga. La contromossa è di stringere ulteriormente il cerchio attorno al fabbricato, sparando a brevissimi intervalli colpi di moschetto contro le porte già sfondate. Gli assediati rispondono sempre al fuoco e non cedono. Passa così tutta la notte e allo spuntar del sole due Carabinieri entrano nel fabbricato per cercare di individuare il posto più adatto per potere sparare all’interno della cantina, ma non appena si avvicinano alla botola partono delle revolverate che per poco non fanno secco il Carabiniere Costantino Nicastro.
Non ci sono guerre senza morti. Fallito ogni piano per catturare gli assediati, non resta che la soluzione finale: bisogna irrompere ad ogni costo nel magazzino e pazienza se qualcuno si farà molto male. Per fortuna a qualcuno viene in mente che prima di lanciare l’assalto si potrebbe invitare, per l’ultima volta, i malviventi ad arrendersi o saranno massacrati
– Arrendetevi! Arrendetevi e uscite con le mani alzate o tra pochi minuti sarete tutti morti!
Carabinieri e Poliziotti sono pronti all’assalto fuori dalle porte. Qualcuno aspira nervosamente l’ultima boccata di fumo, butta la cicca e si fa il segno della croce; altri si stringono le mani augurandosi buona fortuna. Poi l’ordine perentorio di inserire i colpi in canna e togliere la sicura
– Mi arrendo! Non sparate, mi arrendo! – si sente urlare da dentro. Gli uomini, fuori, si acquattano per evitare brutte sorprese, ma non ci sono sorprese. La figura di Giuseppe Folino che avanza con le mani alzate è illuminata dai raggi obliqui del sole; dietro di lui, mogio mogio, Giuseppe Ruberto
– Siamo solo noi due… dentro non c’è nessuno…
Per terra, dietro una botte e vicino ad una colonna di cemento armato che faceva da parapetto ai delinquenti, ci sono due fucili retrocarica a due colpi ciascuno, due rivoltelle e numerose cartucce di fucile sparate e qualche altra ancora carica a pallettoni, nonché numerosi bossoli e 10 cartucce cariche per rivoltella.
– Conosco da molto tempo Giuseppe Ruberto e ultimamente fummo insieme nel carcere di Sambiase – comincia a raccontare Folino –. Ruberto mi obbligò a scendere per primo attraverso una botola nel magazzino portando con sé due fucili e una rivoltella. Un’altra rivoltella, scarica, me l’aveva lasciata qualche giorno prima per conservarla, dicendomi di averla avuta da Vincenzo Andricciolo nella sera in cui sparò alla guardia campestre Mazzei. Il padrone del fondo, Enrico Cristiano, sapeva che Ruberto frequentava il fondo da qualche settimana perché gli portava
spesso da mangiare, anzi preciso che Cristiano una volta portò a Ruberto sei cartucce da rivoltella calibro 10/35 e per tre volte gli consegnò, in mia presenza, lire 10 alla volta
– Quindi ti avrebbe obbligato a restare con lui? Non potevi scappare?
Io non potevo uscire perché Ruberto avrebbe fatto fuoco su di me, dato che era in possesso di due fucili e due rivoltelle cariche… ha sparato solo lui contro le forze dell’ordine…
Gli inquirenti capiscono subito che sta mentendo perché, quando dall’interno del magazzino furono sparati contro il Carabiniere Nicastro tre fucilate quasi contemporanee, è impossibile che a farlo potesse essere stata una sola persona.
Giuseppe Ruberto nega di avere ucciso volontariamente sua suocera e di avere sparato contro il Carabiniere Nicastro per ucciderlo, ma per il resto fornisce così tanti particolari coerenti da convincere gli inquirenti che sta dicendo la verità. Tira in ballo tutte le persone che lo hanno aiutato e racconta che i suoi amici avrebbero voluto ammazzarlo. Le indagini  confermano che è tutto vero e nei guai finiscono, a vario titolo, oltre a Giuseppe Folino, anche Vincenzo Andricciolo, Fiore Mete e suo fratello Antonio e gli omonimi Francesco Marchio (padre e figlio), questi ultimi due dovranno rispondere anche di favoreggiamento personale perché accusati di avere ospitato un altro latitante, Angelo Cerra di Soveria Mannelli, proprietario di uno dei due fucili usati da Ruberto. Tutti, inoltre, sono sospettati di appartenere alla malavita.
Il Procuratore del re, a questo punto, chiede che tutti gli imputati siano rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Nicastro: Giuseppe Ruberto per duplice omicidio aggravato, duplice tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia, violenza e resistenza agli agenti della forza pubblica e vari altri reati minori; gli altri per favoreggiamento. È il 6 agosto 1937.
Tre mesi dopo il Giudice Istruttore accoglie la richiesta e la Corte d’Assise di Nicastro fissa il dibattimento per il 15 luglio 1938. Sei giorni dopo la Corte emette la sentenza di condanna all’ergastolo con isolamento diurno per un anno nei confronti di Giuseppe Ruberto per i due omicidi, il tentato omicidio, i maltrattamenti in famiglia, le violenze e minacce agli agenti della forza pubblica, reato nel quale viene compreso anche il tentato omicidio ai danni del Carabiniere Nicastro e per tutti i reati minori e di assoluzione per tutti gli altri imputati perché il fatto non costituisce reato.
Ruberto ricorre per Cassazione, ma anche il Pubblico Ministero ricorre per Cassazione sia perché nella condanna di Ruberto sono stati esclusi i motivi abietti e futili dall’omicidio della suocera, sia contro l’assoluzione degli altri imputati. Il 20 aprile 1939, la Suprema Corte accoglie il ricorso della Procura e rinvia gli atti alla Corte d’Assise di Cosenza per il nuovo processo che si celebrerà il 28 giugno 1940 e c’è subito una grana: gli imputati di favoreggiamento Fiore Mete, Francesco Marchio (figlio) e Antonio Mete sono partiti per il fronte, mentre Giuseppe Folino e Francesco Marchio (padre) sono deceduti. In aula c’è solo Vincenzo Andricciolo e il Pubblico Ministero chiede la separazione dei giudizi che viene accolta dal Presidente.
Il 3 luglio successivo la Corte d’Assise di Cosenza conferma la sentenza emessa da quella di Nicastro, negando
che Giuseppe Ruberto abbia ucciso la suocera per motivi futili e abietti.
La mattina del 5 luglio 1940 Giuseppe Ruberto va all’Ufficio Matricola del carcere di Cosenza e fa istanza di ricorso per Cassazione, nominando allo scopo l’avvocato Giovanni Persico di Roma. Ma quella stessa sera, alle 19,15, Giuseppe Ruberto, a 36 anni, muore nella sua cella. Paralisi cardiaca, recita laconicamente il certificato medico.[1]
Del processo a carico degli altri imputati non si è trovata traccia.


[1] ASCS, Processi Penali.

 

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