LA BELVA UMANA

Il macellaio Pietro Trunzo, già condannato per vari furti, nel 1921, avendo consumato violenza carnale in persona della giovinetta Maria Torchia, la sposò, destinandola a vero martirio.
La celebrazione del matrimonio coincise con il ritorno del suocero, Felice Torchia, dall’America e gli apparve subito in condizioni economiche tali da poter soddisfare la sua ingordigia. Ma il suocero non si prestò perché si accorse delle torbide esigenze del genero e questi, violento e sozzo di costumi, gli esplose contro un colpo di pistola, senza tuttavia ferirlo.
Pietro, allora, nel pravo tentativo di liberarsi da quel matrimonio che non aveva voluto, essendo legato da quello del concubinaggio preesistente con Rosanna Epifani, accusò la giovine sposa di relazione incestuosa con il fratello Angelo. Le insistenze nell’attribuzione di quell’abominevole rapporto, indussero il suocero, memore della solennità nei giuramenti familiari, a invitare i due suoi figli a giurare sul crocefisso della propria casa. E i suoi figli giurarono, così il loro padre potè convincersi della perfidia svelata in pieno dal genero.
Maria, sottoposta a quotidiani, duri maltrattamenti, confidò al padre le situazioni più delicate. Gli confidò che il marito, durante il servizio militare, aveva contratto blenorragia e non se n’era liberato; la frequenza delle cantine e gl’incontri con ogni femmina da conio, crearono un’alternativa angosciosa per Maria, costretta ad assistere a ricorrenti carcerazioni e alle più turpi violazioni della fede coniugale. Fu costretta a subire la peggiore contaminazione del talamo, avendo dovuto assistere al coito con prostitute indottesi alla promiscuità richiesta dal pervertimento dell’ubbriacone.
Trascurata, vilipesa, Maria Torchia confidò anche questo a suo padre, il quale, mediante grossolanità maggiore di quella che nei contadini stessi è temperata dal pudore, le consigliò l’esperimento di grottesche equipollenze sessuali.
Intanto, sotto l’effetto costante del vino e dei disordini sessuali di Pietro, i maltrattamenti aumentarono di intensità e di frequenza, tanto da raggiungere, anche davanti alla loro figlia Serafina Elisa, gli aspetti della dannazione.
Ma non c’era solo questo: Pietro Trunzo era affiliato ad una banda di delinquenti dediti a terrorizzare il circondario di San Mango d’Aquino, perché è qui che abita Trunzo, con azioni notturne, dalle quali tornava nel cuore della notte con i segni inequivocabili della vita di abominio. Le mascherature del viso richiedevano l’impiego insistente di detersivi per lasciare riapparire il natio ceffo!
Quotidianamente, i vicini ascoltavano il turpiloquio e le minacce del macellaio che, nel dare sfogo a queste, concepiva tormenti da infliggere alla moglie come, per il proprio mestiere, doveva procurarli di preferenza alle bestie più ribelli: le capre. E così la docile Maria assumeva, attraverso le minacce, le attitudini più bestiali per il prossimo avvenire.
Il truce macellaio soleva ripetere che avrebbe appeso la consorte a una trave, come una capra. E non coloriva le sue proiezioni di sole immagini sanguigne, ma ne iniziava l’attuazione con brutali percosse che, mentre destavano la pietà nei conoscenti, ingigantivano le indignazioni nel suocero. Le mortificazioni disumane, alternate ai lividi sul corpo, ispirarono a costui un suggerimento che non poteva fare presa su l’animo mite della figlia: Felice Torchia descrisse a costei le avvedutezze delle quali si sarebbe dovuta circondare durante il sonno: la soppressione del marito.
Maria invece continuò a salire il suo calvario e per lei la figlia cominciò a costituire l’unica preoccupazione di fronte all’avvenire reso fosco dalla condotta temibilissima del padre, insozzatosi della più turpe lordura, che non poteva disgiungersi dalla prevedibilità di vendetta immancabile.
Passarono così, in questo modo orribile, gli anni, fino a che nel 1940 il marito di Rosina Trunzo, la sorella del macellaio, non fu richiamato alle armi. Fu in questo momento che un’abominevole relazione incestuosa tra l’uno e l’altra Trunzo, coperta in passato da cautele per eludere le reazioni del coniuge, incominciò ad essere intravista dal pubblico, sino ad essere divenuta oggetto di flagranti sorprese, ciascuna delle quali determinava nella disgraziatissima Maria da un lato l’insorgenza contro la bestialità del marito e dall’altro l’avvedutezza per il tempestivo allontanamento della figliuola, la quale aveva cominciato ad amoreggiare con il giovane Ferdinando Macchione ma, nell’estate del 1944, il fidanzamento andò a monte.
L’inferno divampò in tutta la sua furia distruttrice nella casa del macellaio. Gli odi contro la moglie si moltiplicarono attraverso gli scatti d’ira, le minacce sempre più gravi, nonché attraverso la perfida Rosina che, per destare nuova avversione contro la cognata, indusse la nipote Serafina Elisa ad accusare l’ex fidanzato di averla stuprata. Stupro che, in definitiva, doveva prestarsi ad essere ritenuto come l’effetto della mancata sorveglianza da parte della madre innocente.
Ma tutto ciò non fece altro che attirare ancora di più l’attenzione dei paesani, impegnati a sorvegliare i fratelli Trunzo per poter diffondere nuovi particolari sulla loro relazione incestuosa. Come mai, si chiedevano ironicamente, nell’estate del 1943, durante un trasporto di paglia nella stanza sottostante alla camera di Rosina, questa vi si trattenne, dopo che il fratello ebbe chiusa la porta, per una durata richiesta solo da un comodo concubito?
– Se non interrompi questo schifo lo dirò a tuo cognato quando tornerà dalla prigionia!
E giù botte, sempre più bestiali, date anche con il dorso delle sue scuri, tanto che qualche volta dovettero intervenire i vicini per disarmarlo.
Ma la violenza non si limitava alle botte; violenza era anche la trasmissione di tutte le malattie veneree che Pietro contraeva e che, giorno dopo giorno, cominciarono a minare la salute di Maria nonostante le cure varie, anche da parte di levatrice.
In preda allo sgomento, la povera martire sentì il bisogno di confidare a sua figlia tutto l’inferno domestico,  tutto l’abominio che il padre aveva esteso ai parenti.
In quell’atmosfera, il duplice incubo della denunzia, con la quale si sarebbero realizzate inestinguibili vendette, e della privazione di un gaudio tanto più inebriante per la depravazione del macellaio, quanto universalmente vietato, rese ancora più torbido del consueto l’animo del delinquente, assuefatto alla quotidiana visione di sangue in abbondanza.
L’inesorabile vigilanza della donna, ridotta a sopportare oltre alle sevizie di ogni genere anche la temibilità di perdizione dell’unica figliuola, generò nel marito abietto e violento l’inquietudine per la scelta di una forma di soppressione della propria nemica che si fosse, con sicurezza, conciliata con il mantenimento della impunità, tanto diffusa nel periodo delle più temerarie e tenebrose rapine.
Verso la metà del mese di luglio 1944, Maria cominciò a soffrire di problemi ai reni e proprio in quei giorni a San Mango d’Aquino arrivò il noto pregiudicato Giuseppe Cirenaica, il Gizzarioto, appena assolto dall’accusa di avere assassinato la propria moglie, accompagnato dalla sorella diciannovenne della morta. Si diceva, forse non a torto, che Cirenaica avesse ucciso la moglie praticandole delle misteriose iniezioni. Cirenaica e la sua concubina presero alloggio nella casa del mutilato Luigi Maruca, esercente una modesta osteria vicina alla casa di Rosina Trunzo e, quindi, facile si rese la conoscenza con Pietro, colpito dall’attendibilità delle voci sull’avvelenamento e dalla concretezza della impunità, che apriva margini alla sua vedovanza, simultanea a una libera luna di miele intrisa di… incesto.
Maria, all’improvviso, si vide circondata da insolite e sospette premure da parte del marito che la invitò ad affidarsi alle… efficaci iniezioni del Gizzarioto, con il quale fu visto confabulare da Luigi Maruca nelle vicinanze della sua osteria. Una volta che i due pregiudicati si separarono, l’oste, molto curioso, riuscì a carpire a Cirenaica la confidenza sull’argomento della conversazione con Pietro Trunzo: gli aveva invocato le iniezioni per la propria moglie!
– Ma non gli ho promesso niente – concluse Cirenaica.
Tre giorni dopo quel colloquio, l’11 agosto 1944, Maria venne quasi costretta a sottoporsi alle cure e per sottrarsene non poté giovarsi che della presenza della figlia alla quale aveva confidato i suoi timori. Nello stesso tempo, Maria voleva accertarsi se le promesse di una definitiva rottura della relazione incestuosa fossero state mantenute dal marito, così chiese notizie al compare Luigi Maruca il quale le raccontò del conciliabolo. Maria non ebbe più dubbi sulle ostinazioni maritali nelle proposte delle iniezioni e oppose una energica resistenza ad ogni ulteriore sollecitazione per subirle, tranne che sotto il controllo di un medico.
Ma l’inesorabilità del proposito di sopprimere la nemica, dettò al macellaio un nuovo piano, meticolosamente studiato secondo le risorse della sua mente dominata dai ricordi delle brigantesche imprese notturne e delle mascherature, sottoposte a detersioni, sempre oltre la mezzanotte.
Si approssimava la fiera del Savuto, il fiume che, scendendo da Martirano, traccia, in fondo a vallata ampia, un percorso da una cui estremità si può salire, sebbene faticosamente dopo varie ore, a una sommità che degrada sino a San Mango d’Aquino. Giova, a tal punto, descrivere le località connesse con questa storia: la casa di Pietro Trunzo era nell’interno del paese e si scendeva da essa, in non più di cinque minuti, alla periferia in prossimità della così detta Croce del mulino e dell’imbocco di una scorciatoia la quale, a sinistra della strada provinciale, attraverso gironi conduce verso Martirano sino a raggiungere un tratto incassato, detto Passo del Vetriolo, al ciglio opposto del quale continua fiancheggiando il lato sinistro (per chi guardi di fronte) di una collina i cui arbusti, anche nei punti più ripidi, agevolano una raggiera di percorsi che, a propria volta, possono, dai vari punti di abbrivio, affrettare il raggiungimento dell’accorciatoia, fiancheggiata, a volte, da ontani. Ai piedi della collina continua a svolgersi la strada verso Martirano, a monte del Savuto.
Maria cominciò a sospettare che doveva esserci qualcosa di strano nei preparativi che suo marito approntava per partecipare alla fiera e si confidò col compare Maruca: lei, sofferente in uno dei piedi e scalza, si sarebbe dovuta, nel cuore della notte e contro il solito, avviare verso Nicastro conducendo la cavalla carica di dodici pelli per presentarle all’ammassatore Bruno Porcelli.
Perché?
Il 13 agosto, il giorno prima della fiera del Savuto, Giuseppe Trunzo, il fratello di Pietro e di Rosina, arrivò col suo gregge a San Mango d’Aquino, dove era arrivato anche un suonatore ambulante di fisarmonica. Pietro e il Gizzarioto, al suono della fisarmonica, sotto lo sguardo rapito della incestuosa, si contorcono secondando l’agitato ritmo della tarantella e, come richiede il costume dei ganzi, ostentano l’abilità nella scherma. Si accende una gare nel maneggio e nelle parate, alimentata dalla curiosità dei presenti. Maria era terrorizzata da quella pantomina foriera di lutti, sicura che il marito era pronto ad agire e per nulla disposto a pentirsi.
– Compare Luigi… – disse a Maruca con le lacrime agli occhi – mio marito mi vuole ammazzare, ma ricordati che ci può riuscire solo sulla via per Amantea o per Nicastro… ti saluto… pensa alla figlia mia – poi andò a casa a riposare un po’ prima di partire per Nicastro.
Pietro e suo fratello Giuseppe, finita la gara di scherma, andarono a casa della madre dove mangiarono un mezzo mellone, poi andarono a casa di Pietro dove caricarono la cavalla delle pelli e quindi andò a chiamare Maria. Qualcuno li vide partire insieme lungo la via provinciale e, dopo non breve tempo, costui tornare per richiedere alla figlia l’accendisigari.
– Non lo trovo, è buio – gli rispose dalla finestra.
Verso le sette del 14, alcuni paesani notarono, lungo il passo del Vetriolo, la cavalla di Pietro Trunzo carica di pelli mentre vagava incustodita e la legarono al fittone di una ginestra lungo la destra del passo verso San Mango.
Dopo circa un’ora, Pietro Trunzo, che verso le cinque era stato visto, non assieme al fratello Giuseppe ma solo, nella località “discesa di Martirano” a breve distanza dall’abitato dello stesso paese, al seguito di pochi animali ovini e lontano una buona ora e mezzo da San Mango d’Aquino, fu nella fiera informato da Vitaliano Parrella del punto in cui era stata immobilizzata la cavalla. Ma il macellaio aveva qualcosa di strano: due donne e un ragazzino notarono che i pantaloni di tinta sbiadita indossati da Pietro presentavano “goccioloni” di sangue fresco e un conoscente del macellaio si stupì della tenuta con cui questi era apparso alla fiera. Trunzo, giovandosi del mestiere, asserì di avere macellato, durante la notte, una capra per un preteso matrimonio.
Solo due ore dopo, verso le dieci, essendo state ricevute dall’altro germano Domenico Trunzo le pecore, il macellaio, invece di raggiungere in breve tempo il passo del Vetriolo, costeggiò il Savuto e dal fondo della vallata poté raggiungere San Mango per un’accorciatoia, che si raccorda con quella per Nicastro a valle della rotabile, e si liberò dei pantaloni e delle scarpe, le quali erano state viste anche macchiate di sangue.
Era ormai mezzogiorno quando Vincenza Mendicino, tornando da Nicastro con Rosina Pizzilli, notò che una decina di minuti prima di raggiungere il passo del Vetriolo, a valle del sentiero e alla distanza di circa cinque metri, tra le felci, in una pozza di sangue, giaceva una donna scalza. Le due donne corsero subito in paese per dare l’allarme e la voce del ritrovamento si sparse in pochi istanti per tutto il paese. Solo i componenti della famiglia Trunzo sembravano non saperne niente, dicendo che gli avevano riferito solo della cavalla dispersa, della quale Pietro chiedeva notizie. La cosa insospettì non poco e alcuni paesani accompagnarono sul posto i Trunzo. Pietro, che sembrava sfiancato, faticava a mantenere il passo degli altri e restò indietro, mentre gli altri avevano già raggiunto il cadavere, il cadavere di Maria Torchia. Un paesano, per uno scrupolo, volle immaginare il macellaio degno di riguardo e gli disse che la moglie era grave. Arrivavano, frattanto, le urla delle donne. Pietro Trunzo si coprì il volto con le mani, ma il paesano non si accorse dell’effettività del pianto. Gli fu consigliato di rimanere a distanza di qualche passo. Qualcuno portò un lenzuolo e, pietosamente, il cadavere fu coperto. Poi arrivarono i Carabinieri.
Pietro Trunzo, conoscendo sommariamente le circostanze in base alle quali Cirenaica fu assolto per l’omicidio della moglie, fece il grossolano tentativo di chiedere al Maresciallo Saporito l’immediato seppellimento della moglie, la cui morte, sosteneva, doveva esser dipesa da semplice disgrazia. Quando il Maresciallo ebbe sollevato il lenzuolo e poté notare un taglio netto, come da rasoio, su la bozza frontale sinistra della morta, cominciò a sospettare qualcosa di diverso; la sua espressione diede subito a Pietro Trunzo la certezza dell’inesorabilità di ogni accertamento. Subito il macellaio, mutando tono, accennò all’ipotesi di una rapina perché fissò la pienezza recisa della consegna di lire cinquemila, che sarebbero dovute servire per acquisti di corredo nuziale. Trunzo, senza avere mai avvertito il bisogno di avvicinarsi al cadavere, se non di osservarne l’atteggiamento, incominciò a fumare, mantenendo un contegno che, per il manifesto cinismo, destò profonda meraviglia anche in chi ne conosceva il temperamento rude di “belva umana”. Il Maresciallo Saporito, tornando in San Mango insieme ad Angelo Torchia, fratello della povera Maria, raccolse e non poté abbandonare due dati indissociabili: l’incesto e i maltrattamenti. Furono colti particolari significativi per l’ipotesi esclusivamente delittuosa, come la presenza, a monte del luogo del ritrovamento del cadavere, di tre ontani fronzuti, dietro i quali l’agguato poté agevolmente essere esercitato; il braccio e la gamba destra erano stesi, gli arti del lato sinistro erano flessi. Poggiava il cadavere sul fianco destro e la testa si manteneva come protesa verso il sentiero, il cui ciglio esterno appariva franato. Un piccolo pettine e due pietre, insanguinati, erano rispettivamente alla distanza di cinque metri il primo, nella zona della scarpata, e di una diecina di metri le altre, sul sentiero.
Quando arrivò il Pretore, la mattina successiva, su le prime si lasciò suggestionare dall’istrionismo del macellaio, avendo seguito l’ipotesi della rapina, sebbene inconciliabile con il rinvenimento, nel seno della vittima, del suo portamonete con lire duecentottantatre.
Durante il trasporto al cimitero, la povera orfana, dando libero sfogo secondo le consuetudini, alle invocazioni della madre accennò alle imposizioni del padre, poiché la gita per Nicastro era stata ordinata imperiosamente da lui. Con un cenno, non sfuggito a molti, la zia Rosina aveva vietato quella pericolosa, temibile forma di patimento per il suo manifesto significato.
Il primo tentativo di accreditare l’ipotesi della rapina, orientando verso la ricerca di un noto pregiudicato, Giuseppe Isabella, svelò l’interesse che Pietro Trunzo manifestava sempre più chiaramente il suo vero intento: sviare le indagini dalla sua persona. Poi, visto che con Giuseppe Isabella non aveva funzionato, accusò Ferdinando Macchione, l’ex fidanzato di sua figlia, ma anche questa volta le accuse si rivelarono infondate. Tutto fu chiaro quando cominciò ad affermare ostinatamente di avere sempre amato sua moglie, mentre dalle parole di tutti i testimoni apparivano chiaramente le sevizie che le aveva sempre inflitto e che le sevizie si collegavano all’incesto.  E le indagini, finalmente, si indirizzarono verso l’uxoricidio.
Gli inquirenti arrestarono Pietro Trunzo e sua figlia, che lo difendeva anche se smentita. Ma dopo pochi giorni nelle carceri di Martirano, la veste di succube nella povera figliuola si rese manifesta. I due erano stati destinati in due stanze dello stesso braccio: in quella soprastante la donna; nella sottostante il padre, il quale, avendo voluto conferire con costei, ne richiamò l’attenzione mediante colpi battuti sul soffitto. Dalla finestra, poi ammonì la figlia con frasi che furono colte da alcuni passanti, i quali le riferirono ai Carabinieri.
Il 18 agosto, i Carabinieri eseguirono delle perquisizioni in casa del macellaio e in quella di sua sorella Rosina. Nascosti tra il saccone e un’imbottita del letto di Serafina Elisa furono rinvenuti i pantaloni che il macellaio indossava la notte tra il 13 e il 14 agosto, quelli notati sporchi di goccioloni di sangue fresco. Nonostante la lavatura, apparivano le caratteristiche macchie di sangue sbiadito. Fu ritrovato, nascosto in un ripostiglio, anche un paio di scarpe, accuratamente ripulite e trattate col sego.
Sottoposta a lunghi e duri interrogatori, Serafina Elia, avendo riacquistato il senso della sicurezza per la propria incolumità personale, gravemente minacciata dal padre di volerle tagliare la testa se avesse osato di
ricostruire tutte le premesse abbraccianti l’incesto e le proposte per le iniezioni
,  squarciò i veli che già avevano lasciato cogliere tutta la barbara vicenda, raccontando l’incesto, i maltrattamenti, le minacce, le insofferenze materne, le proteste per la protezione dei rapporti incestuosi, l’allarme per la proposta delle iniezioni da compiersi dal “Gizzarioto avvelenatore”, la ignoranza dell’eventuale consegna delle lire cinquemila, il tempo non breve, sebbene non precisabile, trascorso tra l’ora della partenza per la fiera e per Nicastro e l’ora dell’artificiosa richiesta dell’accendisigari, l’estraneità propria e quella della madre alla lavatura, stiratura e occultamento dei pantaloni macchiati di sangue, gli incitamenti della zia Rosina a non svelare, attraverso pietose invocazioni durante il trasporto funebre, i particolari della coercizione dovuta subire dalla vittima prima dell’avviamento verso Nicastro, le minacciose imposizioni del padre durante il fermo nelle carceri di Martirano.
Dopo quei primi sviluppi, la eccezionale gravità del delitto esercitò, entro l’orbita segnata dalla partecipazione dei tre germani Trunzo, Pietro, Rosina e Giuseppe, una forza obiettiva dei soli elementi che potessero riguardare costoro e non anche Cirenaica. L’uccisione risultò determinata da colpo di scure, mentre l’incesto acquistò carattere d’innegabilità in forza di una constatazione che solidificò tutti gli esami testimoniali: Pietro e Rosina furono trovati affetti da infezione blenorragica.
I tre fratelli Trunzo, il 22 aprile 1945, furono rinviati al giudizio della Corte d’assise di Catanzaro con l’imputazione di correità nell’uxoricidio consumato da Pietro Trunzo con premeditazione e con il fine abietto di rendere agevole il rapporto incestuoso. Pietro e Rosina Trunzo furono rinviati a giudizio anche per il reato di incesto con pubblico scandalo.
Il dibattimento iniziò il 30 maggio 1945 e gli imputati si dichiararono innocenti, ma nuove rivelazioni allargarono le indagini, estendendole a Cirenaica quale correo nell’omicidio. Fu deciso di riesumare la salma di Maria Torchia per ripetere la perizia ematologica sulle macchie di sangue rinvenute sui pantaloni di Pietro Trunzo, che in un primo momento aveva dato esiti incerti, e sulle scarpe. Tutto ciò impose il rinvio della causa per potere effettuare gli accertamenti e per le nuove indagini sulla posizione del Gizzarioto. Fu arrestato in aula il teste Domenico Mascaro, detenuto nella stessa cella di Pietro Trunzo, per falsa testimonianza e questo cambiò le cose: Mascaro finì per rivelare la verità: Trunzo lo sollecitò, contro promessa del compenso di lire duemila, a consegnare al fratello Vincenzo Trunzo un biglietto per la madre, nel quale designava Giuseppe Cirenaica come spietato uccisore di Maria Torchia, nell’atto in cui ella offrì il denaro posseduto. Questa lettera, poi, sarebbe dovuta essere spedita al Sindaco di San Mango. Pietro Trunzo per salvare sé stesso e i suoi fratelli, tradì anche il suo compare con la falsa accusa di essere l’unico responsabile dell’omicidio.
I nuovi accertamenti clinici stabilirono senza ombra di dubbio che a colpire Maria Torchia sopra l’arcata sopracciliare sinistra fu il dorso di una scure che ne provocò la frattura e una forte commozione cerebrale. La perizia ematologica, laboriosamente condotta con l’impiego di tutti i mezzi scientifici di controllo, stabilì che i pantaloni, lavati, risultavano macchiati di sangue umano.
La Sezione Istruttoria, il 6 luglio 1946, terminate le indagini, rinviò a giudizio anche Giuseppe Cirenaica con l’accusa di concorso in omicidio.
Il 18 febbraio 1947 cominciò il nuovo dibattimento, ma questa volta a Nicastro e a porte chiuse. E subito ci fu un clamoroso colpo di scena: Rosina Trunzo, la venere ferina, interrogata, confessò e raccontò che la relazione incestuosa iniziò quando Pietro, molti anni prima, la violentò in una stalla e la mantenne soggiogata alla bestialità delle insorgenze sessuali, imposte dal sadico rapace sessuale. Poi ammise di aver lavato i pantaloni macchiati di sangue e di averli nascosti.
Ho vissuto e continuo a vivere in preda a vero terrore – così terminò la sua drammatica confessione.
La nipote, immediatamente dopo la confessione, volendo dare sfogo a tristi reminiscenze destate dalla fermezza con cui la zia aveva finalmente voluto lacerare ogni velo creato dalle negazioni sue e del fratello Pietro, si espresse in questi termini:
La zia Rosina ebbe a confessare a mia madre di essere stata precipitata dalla scala, avendo il fratello voluto soggiogarla alle sue voglie
Maria Torchia, più come madre che quale sposa, ormai ammansita, priva di vari incisivi, costretta a camminare scalza, viveva in preda a disperazione per la rottura del fidanzamento tra la figlia e Ferdinando Macchione. tra lo stesso e il mancato suocero era persino intervenuto sparo di arma da fuoco. La povera donna, di fronte all’imminente ritorno di Vincenzo Cimino, il marito di Rosina, s’era ripromessa di di procurare al marito almeno il ritorno alle carceri, tanto lungamente frequentate. D’altra parte il macellaio, ossessionato dalla probabile rottura della relazione incestuosa con la sorella, signorile nell’aspetto, e desiderata da altri, inviperito dalla prospettiva di una catastrofe per sé, per Vincenzo Cimino, per i nipoti, per la madre, per i numerosi fratelli, era caduto nella concentricità delle visioni ossessionanti. La causa di tanta sproporzionata disgrazia doveva essere assai cautamente eliminata. Parallelamente all’avvedutezza, l’ansia per una occasione propizia: l’arrivo a San Mango di Giuseppe Cirenaica, accompagnato dalla sua triste fama di avvelenatore impunito. Fallito il tentativo di eliminare Maria con le iniezioni efficacissime, il Gizzarioto, ladro di arredi sacri, non abbandonò con la propria cooperazione il macellaio.
Trunzo Pietro affermò, con particolari istrionici, di essersi trovato costantemente al fianco del fratello Giuseppe, così che questi sarebbe dovuto essere testimone di ogni azione di lui, ma Trunzo Giuseppe, avendo compreso che le fantasticherie si conciliano solo col delirio, volle, con un’aperta confessione, ribadire verità sostanzialmente acquisite. E affermò che la pretesa consegna di lire cinquemila non fosse avvenuta; che per accedere al Passo del Vetriolo si fosse seguita una scorciatoia, beninteso diversa da quella battuta dalla cavalla che consentì agli assassini di precedere la vittima nel punto preferito; affermò inoltre che per tempo indeterminato il fratello Pietro si sottrasse ad ogni possibilità di controllo. Trunzo Pietro inventò per la propria salvezza un lungo sonno, rotto dal belato dell’armento.
Il Pubblico Ministero chiese la condanna di Pietro Trunzo, sua sorella Rosina e Cirenaica per l’omicidio, la condanna di Pietro e Rosina per l’incesto e l’assoluzione di Giuseppe Trunzo per insufficienza di prove. La difesa continuò a sostenere l’innocenza degli imputati.
Il 27 febbraio 1924 la Corte pronunciò la sentenza di condanna di Pietro Trunzo e Giuseppe Cirenaica all’ergastolo. Condanna per Pietro Trunzo e sua sorella Rosina per il reato di incesto a 8 anni di reclusione. Giuseppe Trunzo venne assolto per insufficienza di prove. Gli imputati fecero ricorso e, il 20 dicembre 1951, la Suprema Corte di Cassazione accolse il ricorso e trasferì gli atti alla Corte d’Assise di Catania la quale, con sentenza dell’11 giugno 1952, in riforma della sentenza appellata, assolse Giuseppe Cirenaica per insufficienza di prove e confermò le condanne per i fratelli Trunzo, condonando 3 anni a Rosina. Il Pubblico Ministero e Pietro Trunzo proposero ricorso contro questa sentenza e, il 28 maggio 1953, la Suprema Corte di Cassazione dichiarò entrambi i ricorsi inammissibili.
Infine, con D,P.R del 22 maggio 1969, a Pietro Trunzo è stata concessa la commutazione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione finora espiata.[1]
Amen.

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, sentenze della Corte d’Assise di Nicastro.

 

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