LA BELVA UMANA

Il macellaio Pietro Trunzo, già condannato per vari furti, nel 1921, avendo consumato violenza carnale
in persona della giovinetta Maria Torchia, la sposò, destinandola a vero
martirio
.
La celebrazione del matrimonio coincise
con il ritorno del suocero, Felice Torchia, dall’America e gli apparve subito
in condizioni economiche tali da poter soddisfare la sua ingordigia. Ma il
suocero non si prestò perché si
accorse delle torbide esigenze del genero
e questi, violento e sozzo di costumi, gli esplose contro un colpo di pistola
,
senza tuttavia ferirlo.
Pietro, allora, nel pravo tentativo di liberarsi da quel matrimonio che non aveva
voluto, essendo legato da quello del
concubinaggio preesistente con Rosanna Epifani
, accusò la giovine sposa di relazione incestuosa con il fratello Angelo.
Le insistenze nell’attribuzione di quell’abominevole rapporto, indussero il
suocero, memore della solennità nei giuramenti familiari, a invitare i due suoi
figli a giurare sul crocefisso della propria casa
. E i suoi figli giurarono,
così il loro padre potè convincersi della
perfidia svelata in pieno dal genero
.
Maria, sottoposta a quotidiani, duri
maltrattamenti, confidò al padre le
situazioni più delicate
. Gli confidò che il marito, durante il servizio militare, aveva contratto blenorragia e non se
n’era liberato; la frequenza delle cantine e gl’incontri con ogni femmina da
conio, crearono un’alternativa angosciosa per Maria
, costretta ad assistere a ricorrenti carcerazioni e alle più turpi
violazioni della fede coniugale. Fu costretta a subire la peggiore
contaminazione del talamo, avendo dovuto assistere al coito con prostitute
indottesi alla promiscuità richiesta dal pervertimento dell’ubbriacone
.
Trascurata,
vilipesa
,
Maria Torchia confidò anche questo a suo padre, il quale, mediante grossolanità maggiore di quella che nei contadini stessi è
temperata dal pudore
, le consigliò l’esperimento
di grottesche equipollenze sessuali
.
Intanto, sotto l’effetto costante del
vino e dei disordini sessuali di
Pietro, i maltrattamenti aumentarono di intensità e di frequenza, tanto da
raggiungere, anche davanti alla loro figlia Serafina Elisa, gli aspetti della dannazione.
Ma non c’era solo questo: Pietro Trunzo
era affiliato ad una banda di delinquenti dediti a terrorizzare il circondario
di San Mango d’Aquino, perché è qui che abita Trunzo, con azioni notturne,
dalle quali tornava nel cuore della notte
con i segni inequivocabili della vita di abominio
. Le mascherature del viso richiedevano l’impiego insistente di detersivi
per lasciare riapparire il natio ceffo
!
Quotidianamente, i vicini ascoltavano il turpiloquio e le minacce del macellaio
che, nel dare sfogo a queste, concepiva tormenti da infliggere alla moglie
come, per il proprio mestiere, doveva procurarli di preferenza alle bestie più
ribelli: le capre. E così la docile Maria assumeva, attraverso le minacce, le
attitudini più bestiali per il prossimo avvenire
.
Il
truce macellaio soleva ripetere che avrebbe appeso la consorte a una trave,
come una capra. E non coloriva le sue proiezioni di sole immagini sanguigne, ma
ne iniziava l’attuazione con brutali percosse che, mentre destavano la pietà
nei conoscenti, ingigantivano le indignazioni nel suocero. Le mortificazioni
disumane, alternate ai lividi sul corpo, ispirarono a costui un suggerimento
che non poteva fare presa su l’animo mite della figlia: Felice Torchia
descrisse a costei le avvedutezze delle quali si sarebbe dovuta circondare
durante il sonno: la soppressione del marito.
Maria
invece continuò a salire il suo calvario
e per lei la figlia cominciò a
costituire l’unica preoccupazione di
fronte all’avvenire reso fosco dalla condotta temibilissima del padre,
insozzatosi della più turpe lordura, che non poteva disgiungersi dalla
prevedibilità di vendetta immancabile
.
Passarono così, in questo modo orribile,
gli anni, fino a che nel 1940 il marito di Rosina Trunzo, la sorella del
macellaio, non fu richiamato alle armi. Fu in questo momento che un’abominevole relazione incestuosa tra
l’uno e l’altra Trunzo, coperta in passato da cautele per eludere le reazioni
del coniuge, incominciò ad essere intravista dal pubblico, sino ad essere
divenuta oggetto di flagranti sorprese, ciascuna delle quali determinava nella
disgraziatissima Maria da un lato l’insorgenza contro la bestialità del marito
e dall’altro l’avvedutezza per il tempestivo allontanamento della figliuola
,
la quale aveva cominciato ad amoreggiare con il giovane Ferdinando Macchione
ma, nell’estate del 1944, il fidanzamento andò
a monte
.
L’inferno
divampò in tutta la sua furia distruttrice nella casa del macellaio. Gli odi
contro la moglie si moltiplicarono attraverso gli scatti d’ira, le minacce
sempre più gravi, nonché attraverso la perfida Rosina che, per destare nuova
avversione contro la cognata, indusse la nipote Serafina Elisa
ad accusare
l’ex fidanzato di averla stuprata. Stupro
che, in definitiva, doveva prestarsi ad essere ritenuto come l’effetto della
mancata sorveglianza da parte della madre innocente
.
Ma tutto ciò non fece altro che attirare
ancora di più l’attenzione dei paesani, impegnati a sorvegliare i fratelli
Trunzo per poter diffondere nuovi particolari sulla loro relazione incestuosa.
Come mai, si chiedevano ironicamente, nell’estate
del 1943, durante un trasporto di paglia nella stanza sottostante alla camera
di Rosina, questa vi si trattenne, dopo che il fratello ebbe chiusa la porta,
per una durata richiesta solo da un comodo concubito
?
– Se non interrompi questo schifo lo
dirò a tuo cognato quando tornerà dalla prigionia!
E giù botte, sempre più bestiali, date
anche con il dorso delle sue scuri, tanto che qualche volta dovettero
intervenire i vicini per disarmarlo.
Ma la violenza non si limitava alle
botte; violenza era anche la trasmissione di tutte le malattie veneree che
Pietro contraeva e che, giorno dopo giorno, cominciarono a minare la salute di
Maria nonostante le cure varie, anche da
parte di levatrice
.
In preda allo sgomento, la povera martire sentì il bisogno di
confidare a sua figlia tutto l’inferno
domestico,  tutto l’abominio che il padre
aveva esteso ai parenti.
In
quell’atmosfera, il duplice incubo della denunzia, con la quale si sarebbero
realizzate inestinguibili vendette, e della privazione di un gaudio tanto più
inebriante per la depravazione del macellaio, quanto universalmente vietato,
rese ancora più torbido del consueto l’animo del delinquente, assuefatto alla
quotidiana visione il sangue in abbondanza.
L’inesorabile
vigilanza della donna, ridotta a sopportare oltre alle sevizie di ogni genere
anche la temibilità di perdizione dell’unica figliuola, generò nel marito
abietto e violento l’inquietudine per la scelta di una forma di soppressione della
propria nemica che si fosse, con sicurezza, conciliata con il mantenimento
della impunità, tanto diffusa nel periodo delle più temerarie e tenebrose
rapine
.
Verso la metà del mese di luglio 1944,
Maria cominciò a soffrire di problemi ai reni e proprio in quei giorni a San
Mango d’Aquino arrivò il noto pregiudicato Giuseppe Cirenaica, il Gizzarioto, appena assolto
dall’accusa di avere assassinato la propria moglie, accompagnato dalla sorella
diciannovenne della morta. Si diceva, forse non a torto, che Cirenaica avesse
ucciso la moglie praticandole delle misteriose iniezioni. Cirenaica e la sua
concubina presero alloggio nella casa del mutilato
Luigi Maruca, esercente una modesta
osteria vicina alla casa di Rosina Trunzo
e, quindi, facile si rese la conoscenza con Pietro, colpito dall’attendibilità
delle voci sull’avvelenamento e dalla concretezza della impunità, che apriva
margini alla sua vedovanza, simultanea a una libera luna di miele intrisa di…
incesto
.
Maria, all’improvviso, si vide
circondata da insolite e sospette premure da parte del marito che la invitò ad affidarsi alle… efficaci
iniezioni del
Gizzarioto, con il
quale fu visto confabulare da Luigi Maruca nelle vicinanze della sua osteria. Una
volta che i due pregiudicati si separarono, l’oste, molto curioso, riuscì a
carpire a Cirenaica la confidenza sull’argomento della conversazione con Pietro
Trunzo: gli aveva invocato le
iniezioni per la propria moglie!
– Ma non gli ho promesso niente –
concluse Cirenaica.
Tre giorni dopo quel colloquio, l’11
agosto 1944, Maria venne quasi costretta a sottoporsi alle cure e per
sottrarsene non poté giovarsi che della presenza della figlia alla quale aveva
confidato i suoi timori. Nello stesso tempo, Maria voleva accertarsi se le promesse
di una definitiva rottura della relazione incestuosa fossero state mantenute
dal marito, così chiese notizie al compare Luigi Maruca il quale le raccontò
del conciliabolo. Maria non ebbe più dubbi sulle
ostinazioni maritali nelle proposte delle iniezioni
e oppose una energica resistenza ad ogni ulteriore sollecitazione
per subirle, tranne che sotto il controllo di un medico
.
Ma
l’inesorabilità del proposito di sopprimere la nemica, dettò al macellaio un
nuovo piano, meticolosamente studiato secondo le risorse della sua mente
dominata dai ricordi delle brigantesche imprese notturne e delle mascherature,
sottoposte a detersioni, sempre oltre la mezzanotte
.
Si
approssimava la fiera del Savuto, il fiume che, scendendo da Martirano,
traccia, in fondo a vallata ampia, un percorso da una cui estremità si può
salire, sebbene faticosamente dopo varie ore, a una sommità che degrada sino a
San Mango d’Aquino. Giova, a tal punto, descrivere le località connesse
con questa
storia: la casa di Pietro Trunzo era
nell’interno del paese e si scendeva da essa, in non più di cinque minuti, alla
periferia in prossimità della così detta Croce del mulino e dell’imbocco di una
scorciatoia la quale, a sinistra della strada provinciale, attraverso gironi
conduce verso Martirano sino a raggiungere un tratto incassato, detto Passo del
Vetriolo, al ciglio opposto del quale continua fiancheggiando il lato sinistro
(per chi guardi di fronte) di una collina i cui arbusti, anche nei punti più
ripidi, agevolano una raggiera di percorsi che, a propria volta, possono, dai
vari punti di abbrivio, affrettare il raggiungimento dell’accorciatoia,
fiancheggiata, a volte, da ontani. Ai piedi della collina continua a svolgersi
la strada verso Martirano, a monte del Savuto
.
Maria cominciò a sospettare che doveva
esserci qualcosa di strano nei preparativi che suo marito approntava per
partecipare alla fiera e si confidò col compare Maruca: lei, sofferente in uno dei piedi e scalza, si
sarebbe dovuta, nel cuore della notte e contro il solito, avviare verso
Nicastro conducendo la cavalla carica di dodici pelli per presentarle
all’ammassatore Bruno Porcelli
.
Perché?
Il 13 agosto, il giorno prima della
fiera del Savuto, Giuseppe Trunzo, il fratello di Pietro e di Rosina, arrivò
col suo gregge a San Mango d’Aquino, dove era arrivato anche un suonatore
ambulante di fisarmonica. Pietro e il Gizzarioto,
al suono della fisarmonica, sotto lo
sguardo rapito della incestuosa, si contorcono secondando l’agitato ritmo della
tarantella e, come richiede il costume dei ganzi, ostentano l’abilità nella
scherma. Si accende una gare nel maneggio e nelle parate, alimentata dalla
curiosità dei presenti
. Maria era terrorizzata da quella pantomina foriera
di lutti, sicura che il marito era pronto ad agire e per nulla disposto a
pentirsi.
– Compare Luigi… – disse a Maruca con le
lacrime agli occhi – mio marito mi vuole ammazzare, ma ricordati che ci può riuscire solo sulla via per Amantea o
per Nicastro
… ti saluto… pensa alla figlia mia – poi andò a casa a riposare
un po’ prima di partire per Nicastro.
Pietro e suo fratello Giuseppe, finita
la gara di scherma, andarono a casa della madre dove mangiarono un mezzo mellone, poi andarono a casa di Pietro
dove caricarono la cavalla delle pelli
e quindi andò a chiamare Maria. Qualcuno li vide partire insieme lungo la via
provinciale e, dopo non breve tempo,
costui tornare per richiedere alla figlia l’accendisigari
– Non lo trovo, è buio – gli rispose
dalla finestra
Verso
le sette del 14
,
alcuni paesani notarono, lungo il passo
del Vetriolo, la cavalla di Pietro Trunzo carica di pelli mentre vagava
incustodita
e la legarono al fittone
di una ginestra lungo la destra del passo verso San Mango
.
Dopo
circa un’ora, Pietro Trunzo, che verso le cinque era stato visto, non assieme
al fratello Giuseppe ma solo, nella località “discesa di Martirano” a breve
distanza dall’abitato dello stesso paese, al seguito di pochi animali ovini e
lontano una buona ora e mezzo da San Mango d’Aquino, fu nella fiera informato
da Vitaliano Parrella del punto in cui era stata immobilizzata la cavalla
. Ma il
macellaio aveva qualcosa di strano: due donne e un ragazzino notarono che i pantaloni di tinta sbiadita
indossati da Pietro presentavano “goccioloni” di sangue fresco e un conoscente
del macellaio si stupì della tenuta con cui questi era apparso alla fiera.
Trunzo, giovandosi del mestiere, asserì di avere macellato, durante la notte,
una capra per un preteso matrimonio
.
Solo
due ore dopo, verso le dieci, essendo state ricevute dall’altro germano
Domenico Trunzo le pecore, il macellaio, invece di raggiungere in breve tempo
il passo del Vetriolo, costeggiò il Savuto e dal fondo della vallata poté
raggiungere San Mango per un’accorciatoia, che si raccorda con quella per
Nicastro a valle della rotabile, e si liberò dei pantaloni e delle scarpe, le
quali erano state viste anche macchiate di sangue
.
Era ormai mezzogiorno quando Vincenza
Mendicino, tornando da Nicastro con Rosina Pizzilli, notò che una decina di minuti prima di raggiungere il passo del
Vetriolo, a valle del sentiero e alla distanza di circa cinque metri, tra le
felci, in una pozza di sangue, giaceva una donna scalza
. Le due donne
corsero subito in paese per dare l’allarme e la voce del ritrovamento si sparse
in pochi istanti per tutto il paese. Solo i componenti della famiglia Trunzo
sembravano non saperne niente, dicendo che gli avevano riferito solo della
cavalla dispersa, della quale Pietro chiedeva notizie. La cosa insospettì non
poco e alcuni paesani accompagnarono sul posto i Trunzo. Pietro, che sembrava sfiancato, faticava a mantenere il passo
degli altri e restò indietro, mentre gli altri avevano già raggiunto il
cadavere, il cadavere di Maria Torchia. Un paesano, per uno scrupolo, volle immaginare il macellaio degno di riguardo e gli
disse che la moglie era grave
. Arrivavano,
frattanto, le urla delle donne. Pietro Trunzo si coprì il volto con le mani, ma

il paesano non si accorse
dell’effettività del pianto. Gli fu consigliato di rimanere a distanza di
qualche passo
. Qualcuno portò un lenzuolo e, pietosamente, il cadavere fu
coperto. Poi arrivarono i Carabinieri.
Pietro Trunzo, conoscendo sommariamente
le circostanze in base alle quali Cirenaica fu assolto per l’omicidio della
moglie, fece il grossolano tentativo di chiedere al Maresciallo Saporito l’immediato seppellimento della moglie,
la cui morte, sosteneva, doveva esser
dipesa da semplice disgrazia
. Quando
il Maresciallo ebbe sollevato il lenzuolo e poté notare un taglio netto, come
da rasoio, su la bozza frontale sinistra della morta
, cominciò a sospettare
qualcosa di diverso; la sua espressione diede subito a Pietro Trunzo la
certezza dell’inesorabilità di ogni
accertamento
. Subito il macellaio,
mutando tono, accennò all’ipotesi di una rapina perché fissò la pienezza recisa
della consegna di lire cinquemila, che sarebbero dovute servire per acquisti di
corredo nuziale. Trunzo, senza avere mai avvertito il bisogno di avvicinarsi al
cadavere, se non di osservarne l’atteggiamento, incominciò a fumare, mantenendo
un contegno che, per il manifesto cinismo, destò profonda meraviglia anche in
chi ne conosceva il temperamento rude di “belva umana”. Il Maresciallo
Saporito, tornando in San Mango insieme ad Angelo Torchia
, fratello della
povera Maria, raccolse e non poté
abbandonare due dati indissociabili: l’incesto e i maltrattamenti
. Furono colti particolari significativi per
l’ipotesi esclusivamente delittuosa
, come la presenza, a monte del luogo del ritrovamento del cadavere, di tre ontani fronzuti,
dietro i quali l’agguato poté agevolmente essere esercitato; il braccio e la
gamba destra erano stesi, gli arti del lato sinistro erano flessi. Poggiava il
cadavere sul fianco destro e la testa si manteneva come protesa verso il
sentiero, il cui ciglio esterno appariva franato. Un piccolo pettine e due
pietre, insanguinati, erano rispettivamente alla distanza di cinque metri il
primo, nella zona della scarpata, e di una diecina di metri le altre, sul
sentiero
.
Quando arrivò il Pretore, la mattina
successiva, su le prime si lasciò
suggestionare dall’istrionismo del macellaio, avendo seguito l’ipotesi della
rapina, sebbene inconciliabile con il rinvenimento, nel seno della vittima, del
suo portamonete con lire duecentottantatre
.
Durante
il trasporto al cimitero, la povera orfana, dando libero sfogo secondo le
consuetudini, alle invocazioni della madre accennò alle imposizioni del padre,
poiché la gita per Nicastro era stata ordinata imperiosamente da lui. Con un
cenno, non sfuggito a molti, la zia Rosina aveva vietato quella pericolosa,
temibile forma di patimento per il suo manifesto significato
.
Il primo tentativo di accreditare
l’ipotesi della rapina, orientando verso
la ricerca di un noto pregiudicato, Giuseppe Isabella, svelò l’interesse che
Pietro Trunzo
manifestava sempre più chiaramente il suo vero intento:
sviare le indagini dalla sua persona. Poi, visto che con Giuseppe Isabella non
aveva funzionato, accusò Ferdinando Macchione, l’ex fidanzato di sua figlia, ma
anche questa volta le accuse si rivelarono infondate. Tutto fu chiaro quando
cominciò ad affermare ostinatamente di avere sempre amato sua moglie, mentre
dalle parole di tutti i testimoni apparivano chiaramente le sevizie che le
aveva sempre inflitto e che le sevizie si
collegavano all’incesto
.  E le
indagini, finalmente, si indirizzarono verso l’uxoricidio.
Gli inquirenti arrestarono Pietro Trunzo
e sua figlia, che lo difendeva anche se
smentita
. Ma dopo pochi giorni nelle carceri di Martirano, la veste di succube nella povera figliuola
si rese manifesta
. I due erano stati
destinati in due stanze dello stesso braccio: in quella soprastante la donna;
nella sottostante il padre, il quale, avendo voluto conferire con costei, ne
richiamò l’attenzione mediante colpi battuti sul soffitto. Dalla finestra, poi,
ammonì la figlia con frasi che furono colte da alcuni passanti, i quali le
riferirono ai Carabinieri
.
Il 18 agosto, i Carabinieri eseguirono
delle perquisizioni in casa del macellaio e in quella di sua sorella Rosina.
Nascosti tra il saccone e un’imbottita
del letto di Serafina Elisa furono rinvenuti i pantaloni che il macellaio
indossava la notte tra il 13 e il 14 agosto, quelli notati sporchi di goccioloni di sangue fresco. Nonostante la lavatura, apparivano le
caratteristiche macchie di sangue sbiadito
. Fu ritrovato, nascosto in un
ripostiglio, anche un paio di scarpe, accuratamente
ripulite e trattate col sego
.
Sottoposta a lunghi e duri
interrogatori, Serafina Elia, avendo
riacquistato il senso della sicurezza per la propria incolumità personale,
gravemente minacciata dal padre di volerle tagliare la testa se avesse osato di
ricostruire tutte le premesse abbraccianti l’incesto e le proposte per le
iniezioni
,  squarciò i veli che già avevano lasciato cogliere
tutta la barbara vicenda
, raccontando l’incesto,
i maltrattamenti, le minacce, le insofferenze materne, le proteste per la protezione
dei rapporti incestuosi, l’allarme per la proposta delle iniezioni da compiersi
dal “Gizzarioto avvelenatore”, la ignoranza dell’eventuale consegna delle lire
cinquemila, il tempo non breve, sebbene non precisabile, trascorso tra l’ora
della partenza per la fiera e per Nicastro e l’ora dell’artificiosa richiesta
dell’accendisigari, l’estraneità propria e quella della madre alla lavatura,
stiratura e occultamento dei pantaloni macchiati di sangue, gli incitamenti
della zia Rosina a non svelare, attraverso pietose invocazioni durante il
trasporto funebre, i particolari della coercizione dovuta subire dalla vittima
prima dell’avviamento verso Nicastro, le minacciose imposizioni del padre
durante il fermo nelle carceri di Martirano
.
Dopo
quei primi sviluppi, la eccezionale gravità del delitto esercitò, entro
l’orbita segnata dalla partecipazione dei tre germani Trunzo, Pietro, Rosina e
Giuseppe, una forza obiettiva dei soli elementi che potessero riguardare
costoro e non anche Cirenaica. L’uccisione risultò determinata da colpo di
scure, mentre l’incesto acquistò carattere d’innegabilità in forza di una
constatazione che solidificò tutti gli esami testimoniali: Pietro e Rosina
furono trovati affetti da infezione blenorragica
.
I tre fratelli Trunzo , il 22 aprile
1945, furono rinviati al giudizio della Corte d’assise di Catanzaro con
l’imputazione di correità nell’uxoricidio
consumato da Pietro Trunzo con premeditazione e con il fine abietto di rendere
agevole il rapporto incestuoso
. Pietro e Rosina Trunzo furono rinviati a
giudizio anche per il reato di incesto
con pubblico scandalo
.
Il dibattimento iniziò il 30 maggio 1945
e gli imputati si dichiararono innocenti, ma nuove rivelazioni allargarono le
indagini, estendendole a Cirenaica quale correo nell’omicidio. Fu deciso di
riesumare la salma di Maria Torchia per ripetere la perizia ematologica sulle
macchie di sangue rinvenute sui pantaloni di Pietro Trunzo, che in un primo
momento aveva dato esiti incerti, e sulle scarpe. Tutto ciò impose il rinvio
della causa per potere effettuare gli accertamenti e per le nuove indagini
sulla posizione del Gizzarioto. Fu arrestato in aula il teste Domenico Mascaro,
detenuto nella stessa cella di Pietro Trunzo, per falsa testimonianza e questo
cambiò le cose: Mascaro finì per rivelare la verità: Trunzo lo sollecitò, contro promessa del compenso di lire
duemila, a consegnare al fratello Vincenzo Trunzo un biglietto per la madre,
nel quale designava Giuseppe Cirenaica come spietato uccisore di Maria Torchia,
nell’atto in cui ella offrì il denaro posseduto
. Questa lettera, poi,
sarebbe dovuta essere spedita al Sindaco di San Mango. Pietro Trunzo per
salvare sé stesso e i suoi fratelli, tradì anche il suo compare con la falsa
accusa di essere l’unico responsabile dell’omicidio.
I nuovi accertamenti clinici stabilirono
senza ombra di dubbio che a colpire Maria Torchia sopra l’arcata sopracciliare sinistra
fu il dorso di una scure che ne provocò la frattura e una forte commozione
cerebrale. La perizia ematologica, laboriosamente
condotta con l’impiego di tutti i mezzi scientifici di controllo
, stabilì
che i pantaloni, lavati, risultavano macchiati di sangue umano.
La Sezione Istruttoria, il 6 luglio
1946, terminate le indagini, rinviò a giudizio anche Giuseppe Cirenaica con
l’accusa di concorso in omicidio.
Il 18 febbraio 1947 cominciò il nuovo
dibattimento, ma questa volta a Nicastro e a porte chiuse. E subito ci fu un
clamoroso colpo di scena: Rosina Trunzo, la
venere ferina
, interrogata, confessò e raccontò che la relazione incestuosa
iniziò quando Pietro, molti anni prima, la
violentò in una stalla e la mantenne soggiogata alla bestialità delle
insorgenze sessuali
, imposte dal sadico
rapace sessuale
. Poi ammise di aver lavato i pantaloni macchiati di sangue
e di averli nascosti.
Ho
vissuto e continuo a vivere in preda a vero terrore
– così terminò la sua
drammatica confessione.
La
nipote, immediatamente dopo la confessione, volendo dare sfogo a tristi
reminiscenze destate dalla fermezza con cui la zia aveva finalmente voluto
lacerare ogni velo creato dalle negazioni sue e del fratello Pietro, si
espresse in questi termini
La
zia Rosina ebbe a confessare a mia madre di essere stata precipitata dalla
scala, avendo il fratello voluto soggiogarla alle sue voglie
Maria
Torchia, più come madre che quale sposa, ormai ammansita, priva di vari
incisivi, costretta a camminare scalza, viveva in preda a disperazione per la
rottura del fidanzamento tra la figlia e Ferdinando Macchione. tra lo stesso e
il mancato suocero era persino intervenuto sparo di arma da fuoco. La povera
donna, di fronte all’imminente ritorno di Vincenzo Cimino, il marito di Rosina,
s’era ripromessa di di procurare al marito almeno il ritorno alle carceri,
tanto lungamente frequentate. D’altra parte il macellaio, ossessionato dalla
probabile rottura della relazione incestuosa con la sorella, signorile
nell’aspetto, e desiderata da altri, inviperito dalla prospettiva di una
catastrofe per sé, per Vincenzo Cimino, per i nipoti, per la madre, per i numerosi
fratelli, era caduto nella concentricità delle visioni ossessionanti. La causa
di tanta sproporzionata disgrazia doveva essere assai cautamente eliminata.
Parallelamente all’avvedutezza, l’ansia per una occasione propizia
: l’arrivo a San
Mango di Giuseppe Cirenaica, accompagnato dalla sua triste fama di avvelenatore
impunito. Fallito il tentativo di eliminare Maria con le iniezioni efficacissime, il
Gizzarioto, ladro di arredi sacri
, non
abbandonò con la propria cooperazione il macellaio
.
Trunzo
Pietro affermò, con particolari istrionici, di essersi trovato costantemente al
fianco del fratello Giuseppe, così che questi sarebbe dovuto essere testimone
di ogni azione di lui, ma Trunzo Giuseppe, avendo compreso che le
fantasticherie si conciliano solo col delirio, volle, con un’aperta
confessione, ribadire verità sostanzialmente acquisite. E affermò che la
pretesa consegna di lire cinquemila non fosse avvenuta; che per accedere al
Passo del Vetriolo si fosse seguita una scorciatoia, beninteso diversa da
quella battuta dalla cavalla che consentì agli assassini di precedere la
vittima nel punto preferito; affermò inoltre che per tempo indeterminato il
fratello Pietro si sottrasse ad ogni possibilità di controllo. Trunzo Pietro
inventò per la propria salvezza un lungo sonno, rotto dal belato dell’armento
.
Il Pubblico Ministero chiese la condanna
di Pietro Trunzo, sua sorella Rosina e Cirenaica per l’omicidio, la condanna di
Pietro e Rosina per l’incesto e l’assoluzione di Giuseppe Trunzo per
insufficienza di prove. La difesa continuò a sostenere l’innocenza degli
imputati.
Il 27 febbraio 1924 la Corte pronunciò
la sentenza di condanna di Pietro Trunzo e Giuseppe Cirenaica all’ergastolo.
Condanna per Pietro Trunzo e sua sorella Rosina per il reato di incesto a 8
anni di reclusione. Giuseppe Trunzo venne assolto per insufficienza di prove.
Gli imputati fecero ricorso e, il 20 dicembre 1951, la Suprema Corte di
Cassazione accolse il ricorso e trasferì gli atti alla Corte d’Assise di
Catania la quale, con sentenza dell’11 giugno 1952, in riforma della sentenza
appellata, assolse Giuseppe Cirenaica per insufficienza di prove e confermò le
condanne per i fratelli Trunzo, condonando 3 anni a Rosina. Il Pubblico
Ministero e Pietro Trunzo proposero ricorso contro questa sentenza e, il 28
maggio 1953, la Suprema Corte di Cassazione dichiarò entrambi i ricorsi
inammissibili.
Infine, con D,P.R del 22 maggio 1969, a
Pietro Trunzo è stata concessa la
commutazione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione finora
espiata
.[1]
Amen.

[1] ASCZ,
Sezione di Lamezia Terme, sentenze della Corte d’Assise di Nicastro.

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