MI HAI FATTO LE CORNA

Vincenzo Pizzo, quarantacinquenne contadino di Mangone, dopo sette mesi passati in provincia di Salerno a causa di lavoro finalmente torna a casa, dove lo aspettano sua moglie Rosa Fortino e i suoi tre figlioletti. A dire il vero lo aspettano anche sua cognata Maria Salvi e le sue due figlie, che condividono con i Pizzo l’unica stanza di cui è composta la casa. È il 15 maggio 1892 ed è un giorno di festa per tutta la famiglia.
Il giorno dopo, però, i familiari cominciano a vederlo strano, sempre mesto e cogitabondo, facendo desumere che un pensiero angoscioso gli torturava continuamente il cervello. Rosa, che durante i 15 anni di matrimonio è stata sempre amata dal marito, riamandolo, non sa dare una spiegazione logica al repentino cambiamento dello stato d’animo di suo marito e più volte lo prega di confidarsi, fino a che Vincenzo le dice di essere dispiaciuto perché il caporale dei lavori eseguiti in Salerno, nel liquidargli i conti, non gli avea corrisposto esattamente il salario, frodandolo di circa 60 lire. Il conforto di Rosa non serve a niente, Vincenzo continua a mostrarsi smanioso ed irrequieto e continua a ripetere di sentirsi del male nella testa.
La sera del 19 maggio Vincenzo torna dalla campagna ed è più profondamente addolorato e stizzoso del solito. Rosa cerca in tutti i modi di rincuorarlo, ma lui le risponde con un tono che la fa rabbrividire:
Io ho tutto saputo, tu mi hai fatto le corna… io non meritavo tutto ciò, ti ho voluto sempre bene… del resto io ti abbandonerò perché non voglio essere schernito dal pubblico.
– Io non ti ho mai tradito e mai lo farò, anche io ti voglio bene e non merito queste parole – riesce a dire Rosa. Ma da questo momento in poi non c’è più pace. Vincenzo non va più a lavorare e sta tutto il giorno dietro alla moglie rimproverandola della infedeltà e minacciandola di abbandonarla con i suoi tre figliuoli di tenera età.
– Ma dimmi quando, dove e con chi ti avrei tradito e portalo davanti a me! – protesta Rosa, ma Vincenzo non cita fatti specifici.
I familiari di Vincenzo allora pensano di andare a parlare con un vecchio eremita, Francesco Montemurro, che vive in un santuario vicino a Mangone perché faccia qualcosa per togliergli quel male dalla testa, così l’eremita va a casa dei Pizzo con un quadro della Madonna per farglielo baciare e guarirlo dal male. È il 21 maggio e quello stesso giorno Rosa è andata a Sant’Ippolito per far preghiere in pro del marito in quel santuario.
Vincenzo bacia l’immagine della Madonna devotamente e regala due soldi all’eremita.
– Cos’hai, figlio? – gli chiede prima di andarsene.
– Finora ho contentato mia moglie ed ora non la contento più… – gli risponde, facendo capire all’eremita di essere diventato impotente.
Il tentativo di Francesco Montemurro va a vuoto, Vincenzo è sempre più cupo e adesso dice a Rosa che l’uomo col quale gli fa le corna è proprio l’eremita!
La mattina del 23 maggio Vincenzo sembra più calmo e si mantiene così per tutto il giorno, tanto che i familiari pensano che il bacio dell’immagine sacra stia cominciando a fare effetto, così decidono di richiamare l’eremita il quale accorre subito con un po’ di olio della Madonna col quale lo unge sulla fronte senza pronunziare parola. Ma il vecchio nota subito un cambiamento in Vincenzo: la sua faccia adesso incute paura!
Poi, tornate dal lavoro la cognata e le nipoti, mangiano tutti insieme. Vincenzo è calmo.
– Beh… noi andiamo a letto – dice la cognata.
– Io e Rosa veniamo dopo, adesso stiamo un po’ al fuoco – risponde Vincenzo.
La cognata e le nipoti si coricano e Rosa mette a dormire i bambini, poi si siede vicino a suo marito. Sembra che tutte le paure si stiano dissolvendo. Quando Vincenzo è sicuro che tutti dormano profondamente invita Rosa ad andare a letto.
– Spogliati nuda – le dice quasi con dolcezza, mentre si spoglia anche lui. Rosa sorride, era da mesi che aspettava queste parole. Adesso sono uno di fronte all’altro nel buio, interrotto a tratti da qualche scintilla che salta dalla poca brace rimasta. Si avvicinano l’uno all’altra in silenzio, Rosa tende le braccia ma, all’improvviso, nelle mani di Vincenzo appare un coltello. l’afferra per i capelli, la spinge sul letto e la colpisce due volte sulle natiche. Sono le 23,30 del 23 maggio 1892.
L’urlo di dolore è straziante e fa svegliare di soprassalto la cognata e le nipoti. Si accende un fiammifero e poi la fiammella del lume. le donne assistono impotenti ad una scena raccapricciante.
Rosa tenta di ripararsi dai colpi all’addome che le vibra il marito. Il sangue è dappertutto. La cognata e le nipoti, impaurite, non sanno cosa fare e urlano a loro volta. Poi dalla scala interna sale un’altra cognata che vive nel basso sottostante. Lo afferra dalle spalle e Rosa ha il tempo di lanciarsi fuori di casa, nuda, premendosi le mani sul ventre, dal quale escono gli intestini. Cade sulla strada. Le donne in casa salgono in fretta e furia le scale che portano al soffitto e richiudono la botola sedendovi sopra per non farla aprire.
Ma Vincenzo non ha nessuna intenzione di far loro del male. Con calma si riveste, spranga la porta, prende in braccio la figlia più piccola che sta piangendo e la culla teneramente per farla riaddormentare. In soffitta le donne scoperchiano il tetto, escono e si lanciano sulla strada, dove Rosa boccheggia. Un vicino ha portato un lenzuolo per coprire la sua nudità, un altro è andato a chiamare il Sindaco. Rosa viene portata nel basso di sua cognata ed è lì che il Sindaco, accompagnato dal medico del paese la trovano.
Una vasta ferita da taglio, la quale parte dal fianco destro, lunga circa 12 centimetri e larga nella sua parte media ben oltre quattro centimetri, profonda tanto da permettere la fuoriuscita del grande epiplon con delle anse intestinali e la protrusione, attraverso la ferita, della vescica; circa un dito traverso a sinistra della ferita precedente, trovasene un’altra diretta verticalmente in basso, lunga circa sei centimetri e larga due, interessante solamente la cute ed il sottocutaneo; una piccola ferita sul pube in senso quasi trasversale; una larga ferita diretta trasversalmente al di sopra del solco delle natiche, lunga undici centimetri e larga due, profonda fino ai muscoli; una piccola ferita al lembo sulla natica sinistra, profonda fino ai muscoli; una ferita longitudinale lungo la parete esterna dell’ascella sinistra, lunga 5 centimetri e larga uno.
Maria è grave.
I Carabinieri di Rogliano, avvisati intorno a mezzanotte e mezza, arrivano subito. Vincenzo apre docilmente la porta, consegna il coltello al Maresciallo Luigi Pierantoni e si fa arrestare. Sembra sereno.
Confesso di avere, questa notte, ferito mia moglie a colpi di coltello e mi determinai a ciò perché ero, come sono, persuaso che mia moglie mi ha fatto le corna.
– Che cosa o chi vi ha persuaso dell’infedeltà di vostra moglie? – gli chiede il Pretore, ma Vincenzo sta muto collo sguardo rivolto per terra. Il Pretore però insiste a lungo e Vincenzo dice:
Non mi fate domande perché non ho la forza di parlare. Mi sento debole, ho una confusione ed un peso nella testa e una gran collera mi opprime l’animo.
Sembra che non ci sia modo di fargli aprire bocca, poi, alle continuate insistenze del Pretore e del Maresciallo, risponde:
Seppi dalla gente che mia moglie mi aveva fatto le corna e perciò mi determinai questa volta ad accoltellarla – è sempre la stessa musica, ma gli inquirenti insistono, insistono a lungo nonostante il prolungato silenzio di Vincenzo. Poi, all’improvviso, apre bocca –. Tutto il pubblico mi diceva che mia moglie mi aveva fatto le corna, ma non so specificare nessuna persona perché non ricordo… ho una confusione nella testa e, per carità, non mi fate più domande perché non ho la forza di risponderegià mia moglie stessa mi manifestava di non volermi più bene, che ero un marito invalido e che doveva trovarsene un altro. Ed ora non dico più nulla.
– Va bene… allora diteci come si è svolto il fatto.
È inutile che mi domandate perché non parlo. Io non so niente. So solo che ho dato le coltellate a mia moglie perché mi aveva fatto le corna!
– Questo lo abbiamo capito e vi comprendiamo – il Pretore cambia tattica sperando di convincerlo a parlare – diteci del coltello… lo avevate in tasca?
Il coltello si trovava per combinazione nella tasca perché mi serviva per tagliare il pane e lo presi mentre mi svestivo. È inutile che mi domandate altro perché non mi fido di parlare – lo stratagemma sembra poter funzionare e allora il Pretore continua:
– Certo che avete avuto molta pazienza con lei…
Benché persuaso della infedeltà di mia moglie, pure non avevo pensato di offenderla e ieri sera mi determinai perché mi accorsi che voleva avvelenarmiè vero che io ero dispiaciuto perché il caporale Domenico Le Pera in Salerno non mi aveva interamente pagato, ma il dolore principale fu la infedeltà di mia moglie
– Avvelenarvi? E come?
Ma Vincenzo si richiude nel suo mutismo e non apre più bocca, così il Pretore decide di interrompere l’interrogatorio e di riprenderlo più tardi. Ha ragione, dopo qualche ora Vincenzo si è calmato e comincia a rispondere:
– Sapete con chi vi aveva fatto le corna?
Io sospettai che mia moglie aveva relazioni illecite con Ciccio Alia e seppi ciò dalla gente.
– La gente… dovete essere più preciso… e dell’eremita che mi dite?
Non lo so… non è vero poi che ho avuto sospetto con l’Eremita Fra Francesco
– Dite di avere male alla testa, lo avevate anche quando lavoravate a Salerno?
A Salerno stetti cinque mesi e stetti sempre bene, tranne di avere avuto qualche febbre; il male alla testa mi venne dopo ritornato in Mangone da circa otto giorni dietro, dopo aver saputo l’infedeltà di mia moglie
– Come si svolse il fatto? – insiste il Pretore.
Non ricordo nulla
– Vostra moglie era nuda e voi pure… ve lo ricordate? E ricordate se la luce era spenta?
È vero che quando ferii mia moglie eravamo tutti e due ignudi… non ricordo se la luce era smorzata. Ricordo che mia cognata e le figlie fuggirono sulla soffitta. Ricordo che io mi lavai le mani, che mi rivestii e che presi nelle braccia la bambina che dormiva sul letto… non ricordo altro… lasciatemi stare, non mi fido più di parlare… è vero che chiusi la porta da dentro perché avevo paura
– Paura di chi? Di cosa?
Niente da fare, Vincenzo si richiude nel suo mutismo e ciò fa sospettare il Pretore che l’uomo non sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, perciò convoca il dottor Vittorio Clausi Schettini, medico di Rogliano, per sottoporre l’imputato a perizia al fine di assodare quale sia lo stato di mente e di salute.
La visita, per ammissione dello stesso Pretore e del medico, è sommaria. Clausi Schettini osserva le pupille dilatate e poco mobili, lo stato del polso che si mostra raro e tardo, l’aspetto della fisionomia marcatamente apatica e conclude: parmi che l’individuo in esame non sia in uno stato psichico fisiologico, ciò che si fa maggiormente manifesto nelle risposte illogiche e sconclusionate che il Pizzo porge alle nostre domande, le quali risposte non possono certamente essere la conseguenza di una finzione, la quale dovrebbe far supporre nel Pizzo uno sviluppo delle facoltà intellettive tale da non potersi assolutamente ammettere in lui, data la sua posizione sociale, l’educazione ricevuta e l’ambiente in mezzo al quale ha vissuto. Quindi un contadino, a priori, non può essere né intelligente, né tantomeno furbo.
Mentre il dottor Clausi Schettini fa le sue sommarie osservazioni, dal Municipio di Mangone arriva in Pretura una lettera con la quale il Sindaco comunica: Porto a conoscenza della S.V. che la ferita Fortino Rosina, moglie del delinquente Pizzo Vincenzo, alle ore 12 di oggi cessò di vivere. È il 25 maggio 1892 e l’accusa, adesso, è di omicidio aggravato dalla premeditazione.
Vincenzo viene informato della morte di sua moglie alla fine della visita medica e dice:
Se mia moglie è morta, come voi mi dite, salute a noi per cento anni. Per un verso mi dispiace che mia moglie è morta, per i poveri miei figli, ma per un altro no perché mi ha fatto le corna!
– Adesso che è morta, vi decidete a dirmi da chi avete saputo del tradimento?
Lo seppi dalla gente… aspettate… ora ricordo… lo sentivo dire a persone che venivano a trovarmi che dicevano: “povero Vincenzo, ha ragione…”.
– I nomi! Voglio i nomi! – tuona il Pretore picchiando il pugno sul tavolo.
Ricordo Ciruzzo Mauro, Rosa Manchetta, Agata Serravalle, Angelo Montemurro
Poi torna muto ed immobile per molte ore.
– Siete sempre convinto di avere ucciso vostra moglie per questa ridicola storia delle corna? – prova a chiedergli i Pretore. E Vincenzo adesso risponde:
La mia dichiarazione è di tre parole. Io uccisi mia moglie perché persuaso che mi ha fatto le corna, perché mi diceva che io non sapevo soddisfarla e, nell’ultimo momento, mi decisi perché la sera, poco prima di ucciderla, avea cucinato della pasta, l’aveva minestrata mentre io mi trovavo vicino la porta e quando incominciai a mangiarla mi sembrò amara e mi persuasi che avea tentato di avvelenarmi, tanto più che ella ne mangiò solo una cucchiaiata.
Vincenzo merita una visita psichiatrica più approfondita. Il 3 giugno 1892 il Giudice Istruttore ordina che l’imputato venga ricoverato nel manicomio di Girifalco per essere sottoposto a perizia dal dottor Silvio Venturi, Direttore dell’istituto. Tre giorni dopo le porte del manicomio si chiudono alle spalle di Vincenzo Pizzo.
Dopo otto mesi di osservazione, il dottor Venturi consegna la sua perizia:
Rileviamo in prima che alcune note di deviazione dal normale riscontransi nella struttura somatica del Pizzo (la grande apertura delle braccia superiore alla statura, le orecchie ad ansa, la subcalvizie e la subcanizie, la scarsezza dei peli della barba, l’aspetto più vecchio di quel che convenga all’età). Esse, sebbene isolatamente presa non sia molto rilevante, considerate nel loro insieme assumono un’importanza clinica che dà diritto a dichiarare nel Pizzo una costituzione somatica degenerata, se non a grado avanzato, certamente discreta… Ora, in un contadino come il Pizzo, povero, parco ed attaccato al danaro e per giunta discretamente degenerato, la privazione di poche lire, che in altri forse non avrebbe portato sconcerto alcuno, nel suo cervello ebbe una certa conseguenza. È invaso da un sentimento nuovissimo di sconforto, di solitudine e di spavento dell’avvenire. È preoccupato e tale preoccupazione lo assorbe per intero ed accentua tutte le attività del suo spirito. Cominciata la disintegrazione, ecco sorgere nel Pizzo un nuovo sentimento, il sentimento del timore del diritto offeso e del possesso offeso, la gelosia. Il Pizzo sospetta della moglie, crede ch’ella abbia tradito la fede coniugale. Nega di coricarsi con lei: alle sue insistenze risponde risentitamente. L’animo suo sente e percepisce diversamente di prima: sono processi subiettivi che foggiano il mondo diversamente da quello che è perché non più si svolgono secondo leggi fisiologiche. Il suo animo, piagato già atrocemente, si esaspera e vede che ormai per lui non vi è più pace possibile. Tutto è finito, la vita spezzata, l’avvenire distrutto. Per il povero Vincenzo il tradimento della sposa non era soltanto doloroso, c’era in esso qualcosa di umiliante che lo feriva nel suo orgoglio di sposo e di uomo. Nessuna speranza gli doveva più rimanere che quella donna potesse ritornare a lui ed all’amor suo. Il fatto che la moglie tenta di essere di buon umore e di convincerlo della sua fedeltà gli accresce l’ira ed il sospetto. Più tardi, nella coscienza del Pizzo, sono assunte come realtà fatti inconcussi: il sospetto prende corpo, si obiettiva e il delirio concreto si organizza ed assume una forma persecutoria, investigatrice, per cui il povero paziente fa oggetto di interminabili ed angosciose inchieste ogni piccolo mutamento che crede di osservare sulla moglie, oggetto del suo delirio. Una volta era l’acconciatura che gli sembrava troppo elegante, un’altra il modo di camminare della stessa, poi le canzonette che le sentiva ripetere: “conzo ‘o letto mio, conzo ‘o letto de Ciccio mio” e non quello di Vincenzo mio. Dubita o sente di essere impotente e di non poter più soddisfarla, accontentarla e dall’amore si passa all’odio, dall’odio alla vendetta, vendetta atroce, terribile, snaturata. Bastò un altro motivo, l’acre della minestra, perché egli fosse trascinato ad attuare il progetto che da qualche giorno s’andava concretizzando e maturando come unico scampo, come ultima speranza di salvezza. E non basta: a tutto questo aggiungasi le allucinazioni, le ombre che egli vedeva entrare ed uscir dalla stanza.
 Il Pizzo adunque non era sano di mente prima di compiere l’uxoricidio. Non era nemmeno sano di mente nell’atto di compierlo: non è possibile immaginare che l’insieme delle facoltà psichiche dell’imputato fosse d’un tratto cambiato in modo che ci fosse la salute dove c’era la malattia. La gelosia e l’onore offeso nella loro espressione più brutale, nel loro linguaggio più prepotente, simile a quello delle razze selvaggie, salivano a spadroneggiare nel cuore e nella mente del Pizzo e lo preparavano, inconsapevole, alla terribile tragedia. Non più l’amore spezzato e l’onore offeso, ma la gelosia irragionevole e selvaggia era il motore della macchina Pizzo.
Il Pizzo, dunque, è pazzo per tutto l’insieme delle sue manifestazioni psichiche, quale deriva da un delirio nettamente organizzato e rafforzato da allucinazioni, delirio di cui l’azione delittuosa non è che un esito fatale: delirio che travolge coscienza e volontà. Il complesso sintomatico morboso presentato dal Pizzo risponde ad una delle forme cliniche ben riconosciute della pazzia ed il delitto del 23 maggio 1892 in Mangone era l’ineluttabile conseguenza del Delirio Persecutorio a forma gelosa di cui egli era affetto.
Nel manicomio il contenuto delle idee del Pizzo è sempre lo stesso, a base di persecuzione. Morta la moglie, sono altri suoi nemici attratti nell’orbita del delirio: sente voci che di continuo gli parlano all’orecchio; sono nemici immaginari che l’insultano, l’offendono, gli turbano il sonno, non lo lasciano in pace.
Sotto queste circostanze l’accusato Pizzo Vincenzo non può essere dichiarato responsabile di un delitto commesso sotto il dominio di detto delirio che avea falsata e pervertita tutta la sua coscienza, assolutamente sottratta per conseguenza a tutte quelle forze inibitrici e regolatrici dell’umana condotta.
Il Pizzo Vincenzo non dovrà uscire dal manicomio, unico luogo dove potrà essere convenientemente custodito e curato, fino a quando, con la regolare condotta, egli non avrà dimostrato che la sua mente è tornata a riprendere quel tale equilibrio che, se non perfetto, sarà almeno compatibile con la più elementare vita sociale.
Davanti a un parere del genere non possono esserci dubbi: Vincenzo Pizzo non può essere processato per l’orribile crimine che ha commesso. L’11 aprile 1893 la Camera di Consiglio del Tribunale di Cosenza dichiara non farsi luogo a procedere nei confronti di Vincenzo Pizzo per inesistenza di reato e dispone il suo ricovero nel manicomio di Girifalco.
Il 18 luglio 1894 il Pubblico Ministero, considerato che continua lo stato d’infermità mentale di esso Pizzo, chiede che il Sig. Presidente del Tribunale disponga il ricovero definitivo del Pizzo nel manicomio di Girifalco.
L’8 agosto successivo la richiesta viene accolta.[1]
Fine pena: MAI, perché di questo si tratta.
Non bisogna dimenticare che in questa triste vicenda ci sono altre 3 vittime innocenti: i bambini che hanno perso entrambi i genitori.


[1] ASCS, Processi Penali.

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento