GELOSIA

Aquilina Candela ha 20 anni ed è fidanzata con il fabbro ventiduenne Oreste Nico. Lei è nata a Rota Greca ma abita a Cervicati da quando suo padre ha trovato lavoro in questo paese. La cosa curiosa è che ha accettato il fidanzamento pur sapendo che Oreste ha una tresca illecita con la trentenne Mariantonia Grosso, meglio conosciuta come Fumiata, dalla quale ha avuto anche una bambina.
Ovviamente le due non si sopportano e cercano di avere l’esclusiva sul baldo giovane. Qualche volta se le sono anche date in mezzo alla strada con il risultato di dare adito ai paesani di parlare e sparlare su di loro e le cose peggiori vengono dette sul conto di Mariantonia, ritenuta una vera e propria puttana perché, si dice, concede i propri favori anche ad altri giovanotti.
Verso i primi di dicembre del 1898 i contrasti tra le due rivali sembrano appianarsi: Aquilina va a casa di Mariantonia e, udite udite, le suggerisce un metodo infallibile per tenere tutto per sé Oreste: una magarìa!
– Marì, la vedi questa fettuccia nera? Basta farci dei nodi e poi cucirla sul tuo corpetto… Oreste non ti abbandonerà mai più! – le dice. Mariantonia stenta a crederci.
– E tu? E il vostro fidanzamento?
– Oh! Mi sono stancata di lui… meglio con te che con un’altra… allora la vuoi fare la magarìa?
– E facciamola!
– Però mi devi dare otto soldi e un paniere di patate… è la regola per la magarìa
– Ormai… va bene, d’accordo!
Aquilina annoda la fettuccia ad intervalli regolari, poi prende ago e filo mentre Mariantonia si toglie la camicia, mette qualche punto e in men che non si dica l’operazione è terminata, adesso Oreste sarà tutto di Mariantonia.
Così dovrebbe essere, ma Aquilina ha altre idee in testa. Quando il pomeriggio Oreste la va a trovare gli racconta, risentita, che Mariantonia gli ha fatto una magarìa per farlo diventare storpio e gli spiega anche in cosa consiste. Oreste è incredulo, dopo un po’ se ne va e corre a casa della sua amante con la quale passerà la notte. Non dice niente di ciò che ha saputo perché in fondo non vuole credere che sia una cosa vera, ma quando Mariantonia si spoglia e vede la fettuccia nera annodata e cucita, diventa bianco come un lenzuolo. Potrebbe picchiarla, ma chi può assicurargli che la magarìa non diventerà ancora più terribile? Fa finta di niente. Prende l’amore che gli viene dato e quando Mariantonia si addormenta, si alza senza fare rumore, scuce dal corpetto la fettuccia e se la mette in tasca. La butterà nel fuoco non appena tornerà a casa sua. Dolente di tanti sotterfugi a cui la Grasso ricorre, riprende le sue cose dalla casa dell’amante e l’abbandona.
Mariantonia capisce tutto e va a fare una scenata davanti alla casa di Aquilina, ottenendo come risultato il paliatone che il padre fa ad Aquilina. Il rancore tra le due rivali aumenta.
Zia Peppina non fare venire più dentro casa tua Mariantonia perché quando la vedo mi si rimescola il sangue perché mi ha fatto percuotere da mio padre e se continua a venire in tua casa, qualche giorno ammazzerò te e lei!
Ma zia Peppina non segue il consiglio di Aquilina e un paio di giorni dopo l’avvertimento Mariantonia la va a trovare per riempirle di acqua gli orciuoli. Aquilina se ne accorge e si precipita sul posto come una furia, lanciandosi sulla rivale che si difende. Nelle loro mani appaiono anche i coltelli e la lite potrebbe finire tragicamente, ma proprio in questo momento si trova a passare Oreste il quale, attirato dalle urla, entra in casa e riesce a dividerle. Ormai si sta arrivando a un punto di non ritorno.
La mattina del 10 gennaio 1899 Aquilina va a riempire tre orciuoli alla fontana e trova in fila Mariantonia la quale, senza profferir parola, l’afferra per i capelli e le dà un pugno in faccia. Aquilina reagisce immediatamente e cerca di rompere sulla testa della rivale un orciuolo pieno ma il colpo va a vuoto e le donne presenti hanno il tempo di mettersi in mezzo ed evitare che la situazione degeneri. Aquilina non demorde, lascia gli orciuoli per terra e raccoglie delle pietre per tirarle a Mariantonia, ma viene di nuovo bloccata, così torna a casa furente, promettendo vendetta.
– Mi ha picchiata! Guarda qui! – dice al padre mostrandogli il segno del pugno sul viso.
Tu tieni la lingua lunga, io vorrei che ti ammazzasse… – la rimprovera il padre, convalescente a causa di una paresi del lato sinistro del corpo che lo ha colpito qualche giorno prima.
Vado a San Marco a chiamare le mie sorelle e vediamo se stasera l’ammazzeremo! – gli risponde furibonda.
– Andiamo, vengo pure io! – la esorta, invece, sua madre.
A San Marco ci vanno davvero, ma le sorelle, entrambe sposate, sono al fiume a lavare i panni e le due donne danno incarico ai vicini di casa di riferire loro che andassero subito a Cervicati per la faccenda che loro sanno.
Attenta Mariantonia chè Aquilina è venuta a farti la spia – le dice Teresa Bruno, intendendo che ha visto la ragazza aggirarsi vicino la casa di Mariantonia per spiarne le mosse.
Ma questa non è la prima volta che è venuta a farmi la spia… tuttavia lasciami scansare la strada – le risponde. Poi esce evitando la solita strada, ma per andare alla fontana deve per forza passare davanti alla casa di Aquilina, a meno che non voglia fare una strada molto più lunga.
Mariantonia arriva nei pressi della casa della rivale e si accorge che Aquilina è affacciata dal loggiato. Pensa che sia meglio evitare questioni, anche perché Aquilina potrebbe essere spalleggiata da sua madre e in due potrebbero farle molto male, così torna indietro e imbocca l’altra strada che, vicino alla fontana, si interseca con la strada che viene da San Marco.
Il caso vuole che Mariantonia, proprio all’intersezione delle strade, incontri Teresina e Maria Francesca Candela, le sorelle di Aquilina.
È un attimo. Le due la afferrano e cominciano a picchiarla selvaggiamente. Le urla delle tre donne si sentono distintamente fino in paese e le sente anche Aquilina, ancora affacciata al loggiato, che capisce subito ciò che sta accadendo. Rientra in casa, afferra uno dei trincetti da calzolaio del padre e corre verso la fontana. Sua madre la segue urlando:
Aquilina! Corri e cacciati le corna!
Mariantonia e le sorelle Candela sembrano una sola massa informe che rotola sulla strada fangosa. Aquilina si getta nella mischia e comincia a tirare colpi di trincetto all’impazzata fino a che la rivale, barcollando, cade a terra.
Le tre sorelle e la madre si allontanano.
Mariantonia si rialza a fatica, fa qualche passo, poi cade di nuovo, morta. Sono le 5 di pomeriggio e sta suonando l’avemaria.
La notizia si diffonde più veloce del vento e, in attesa che arrivino i Carabinieri da San Marco, il Consigliere Comunale Ernesto Cappellano e il Segretario Attilio Aquino vanno a casa dei Candela per evitare la fuga di qualcuno dei componenti.
Il Maresciallo Pietro Sica e i suoi uomini trovano il cadavere con le mani flesse e convergenti sull’addome, i capelli sciolti sull’omero destro, gli occhi e la bocca semiaperti; dalle narici e dalla parte laterale destra della bocca sgorga del sangue. Accanto al corpo trovano e sequestrano una piccola scure, un pezzo di legno insanguinato, un fazzoletto ed uno scialle. Lasciati due uomini a piantonare il cadavere in attesa del Pretore, non devono fare altro che andare a casa dei Candela, mettere i ferri alle quattro donne e portarle a San Marco. La prima ad essere interrogata è Aquilina:
Mariantonia Grosso nutriva dei rancori verso di me perché vedeva di mal occhio le proposte di matrimonio che passavano tra me e Oreste Nico il quale, pare, avesse delle relazioni carnali con lei. Oggi mi incontrò mentre io ero carica di orciuoli e mi percosse senza che avessi potuto neanco inveire contro di lei. perciò io e mia madre ci recammo in San Marco per sporgere formale querela contro la Grosso, ma stante l’ora tarda, trovando chiusa la Pretura, rientrammo in paese senza aver potuto sporgere la querela. Incontrai la Grosso verso un’ora di giorno e per allora non ci parlammo affatto perché ci trovavamo dentro il paese e le persone presenti ci avrebbero diviso. La rividi stando sopra la loggia di casa mia verso mezz’ora di giorno ed uscii col proposito o di ammazzarla o essere da lei ammazzata. Avvicinandomi mi accorsi che nascondeva sotto la veste la scure e le dissi: “Mi vai cercando e perciò vai armata?”. Essa mi rispose: “Di nuovo mi sei venuta davanti?”. Le levai la scure, proprio quella che mi state mostrando, e ci afferrammo; essa cadde di sotto ed io di sopra e mi accorsi che asportava anche il coltello che mi fate vedere, giacché nella caduta mi sbatté sul petto; glielo strappai e la colpii due volte sulla parte posteriore del torace ed altre due volte la colpii, non so dove, col dorso della scure, anzi la colpii prima con la scure e la stavo colpendo l’ultima volta col coltello quando vidi comparire le mie sorelle; esse m’afferrarono e cercarono d’allontanarmi dalla Grosso, senonché essa, nel vederle, disse a Teresina: “Pure sei venuta tu, puttana del ponte di Sacchini!” e stando seduta a terra le menò colla scure sull’orecchio e l’afferrò anche per i capelli. Ma dette mie sorelle mi portarono via. Le mie sorelle non presero parte alcuna al fatto. Quando oggi mi percosse con un pugno, la Grosso mi disse: “Ora ti ho lasciata viva, ma per stasera ti ammazzo!” e fu allora ch’io feci proposito di ammazzarla o essere da lei ammazzata
 – Ci sono molte cose strane nel tuo racconto, ma è molto strano che, guarda caso proprio mentre hai cominciato a litigare con la Grosso arrivano le tue sorelle da San Marco… io credo che tu e tua madre le siate andate a chiamare…
– Siamo andate per sporgere querela e poi siamo andate ad avvisare Teresina e Maria Francesca di venire a casa perché nostro padre era stato colpito nuovamente nella sera precedente dal colpo apoplettico. Loro non erano a casa e lo lasciammo detto a Rosa Libonati…
– Vedremo… portatela via e fate entrare Teresina.
Oggi siamo andate al fiume a lavare dei panni e, ritornando, Rosaria Libonati ci disse soltanto che mia madre e mia sorella Aquilina avevano cercato di noi. Sapendo nostro padre è minacciato d’apoplessia venimmo in Cervicati e in contrada Olivella vedemmo con nostra meraviglia che Mariantonia Grosso era alle prese con nostra sorella. Vidi che Aquilina, divincolatasi, colpì con il dorso della scure sul ginocchio l’avversaria. Mi misi a gridare: “Mariantonia che fai? Che fai?” ma essa si slanciò su me e col dorso della scure, che aveva forse strappato a mia sorella, mi colpì sull’orecchio – dice mostrando l’orecchio ferito –. Tuttavia presi a viva forza Aquilina e la trassi in casa, lasciando la Grosso, addossata ad una pianta di olivo, che bestemmiava fortemente.
– Tua madre e tuo padre dove erano?
– Quando portai a casa Aquilina erano dentro…
– Questo scialle è tuo?
Lo sciallo non so a chi si appartenga
L’altra sorella, Maria Francesca ripete le stesse cose. La madre, invece, le inguaia:
Le mie figlie vennero in Cervicati oggi verso una mezz’ora di giorno. S’incontrarono con la Grosso in contrada Olivella e vennero alle mani. Aquilina, che trovavasi alla finestra prospiciente alla suddetta contrada, visto forse la quistione delle sorelle, si diresse precipitosamente verso le medesime. Io non uscii di casa e non è vero che avessi eccitato Aquilina a correre e cacciarsi le corna. Rimasi, invece, intenta a cucinare
– Invece molte persone vi hanno vista uscire e dire quelle cose ad Aquilina…
Si… effettivamente sono anch’io uscita, ma rimasi nei pressi della mia casa e ben distante dal sito dove si svolgeva la rissa e non ho eccitato Aquilinasono innocente
Le cose si mettono molto male per le quattro donne e si mettono male anche per Domenico Candela, il capo famiglia quando alcuni testimoni depongono di averlo sentito dire, mentre Aquilina e sua madre stavano uscendo per aiutare Teresina e Maria Francesca, “E io vi dico che giacché l’avete cominciata, finitela!”. In realtà il senso della frase è dubbio, ma per i testimoni e i giudici non c’è dubbio che si tratti dell’ordine di andare ad ammazzare Mariantonia Grosso e anche lui finisce nel carcere mandamentale di San Marco Argentano.
Sono innocente inquantocchè le mie figlie non mi sentono, mi hanno perduto il rispetto ed io non ho fatto che sempre quistionare contro di loro… io ad Aquilina dissi, rimproverandola fortemente: “ma finitela una volta per sempre che mi fate morire di dolore!”. Forse i testimoni, sentendo che io dicevo “finite la la questione”, credettero, equivocando, che io avessi detto “finite la Grosso”. Dal canto mio, mezzo accidentato come sono per un colpo apoplettico, avevo altro da pensare che di spingere la mia famiglia al delitto
Ma anche i testimoni si contraddicono: qualcuno giura di aver visto Mariantonia portare la scure, altri che la scure l’avevano le sorelle Candela, altri ancora, pur non avendo visto la scure nelle mani della vittima, giurano che era di sua proprietà. La questione non è da poco: se la scure era della vittima e l’aveva con sé, Aquilina e le sorelle potrebbero invocare la legittima difesa o la provocazione grave, nel caso contrario, senza attenuanti, la pena potrebbe essere molto dura. Ma prima bisogna aspettare che la Procura del re chiuda l’istruttoria e faccia le richieste per gli eventuali rinvii a giudizio e che la Sezione d’Accusa accolga o rigetti le richieste..
Il 10 marzo 1899 la Procura Generale del re ipotizza che la scure sia delle sorelle Candela e chiede il rinvio a giudizio per Aquilina con l’accusa di omicidio volontario; rinvio a giudizio per Teresina e Maria Francesca Candela con l’accusa di concorso in omicidio, rinvio a giudizio per Maria Longobucco, la loro madre, con l’accusa di aver rafforzato la risoluzione omicida della figlia Aquilina. Domenico Candela invece viene prosciolto.
Il 27 marzo successivo, la Sezione d’Accusa accoglie le richieste della Procura e rinvia le quattro donne al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il 20 aprile 1899 inizia il dibattimento. Il giorno dopo la Corte, riconoscendo l’attenuante della provocazione grave, condanna Aquilina Candela a 8 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione. Teresina e Maria Francesca non sono ritenute responsabili di concorso in omicidio, ma vengono condannate a 4 anni di reclusione ciascuna per aver causato la rissa che costò la vita a Mariantonia Grosso. Maria Longobucco, la madre, viene assolta per non aver commesso il fatto.
Il 9 giugno 1899 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Teresina e Maria Francesca Candela e rigetta quello di Aquilina.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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